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La festa. Un modello antropologico e una promessa di speranza. A proposito (anche) del carnevale

di Franco Cardini - 21/02/2023

La festa. Un modello antropologico e una promessa di speranza. A proposito (anche) del carnevale

Fonte: Franco Cardini

Siamo, nel calendario soli-lunare cristiano, all’ultima domenica del tempo ordinario: quella che precede la prima di Quaresima. Se fossimo ancora una civiltà tradizionale degna di questo nome, due celebrazioni importanti ci aspetterebbero: il “Martedì Grasso”, o “Ultimo di Carnevale”, e il Mercoledì delle Ceneri. Quindi, sei settimane di Quaresima ci separano dalla Domenica di Pasqua.
È il momento d’introdurre una paura nella nostra tradizione di editoriali a sfondo politico. Mentre gli USA di Biden, la loro NATO e l’Unione Europea di Nonsisacchì continuano ad addossare a Putin la responsabilità della guerra che alacremente stanno preparando, lasciamoli al loro gioco maniacale e parliamo un po’ di cose non gravi, però dannatamente serie: cose l’aver dimenticato molte delle quali ci sta trascinando verso quella rovina che tutti preghiamo Iddio di risparmiarci.
La Modernità è fondamentalmente cancellazione delle differenze e del senso del limite. Contro la sua omologante monotonia, approfittiamo dell’ultima domenica di Carnevale per verificare le nostre conoscenze a proposito del significato di quei giorni speciali che, in discontinuità rispetto a quelli ordinari, chiamiamo Feste.

Società tradizionale versus Modernità: la discontinuità dei Giorni festivi e giorni feriali versus la continuità omologante di lavoro e “tempo libero”
La sfida lanciata da papa Francesco alla Modernità come cultura dell’individualismo e del primato dell’economico si qualifica come lotta alla “cultura dell’indifferenza”, che è anche una cultura dell’indifferentizzazione, vale a dire dell’omologazione. Si tratta di una sfida epocale, di un invito a un rinnovamento che è rivoluzione.
La Modernità, con quel secolo XVIII che ne ha segnato la decisiva svolta verso il presente, si è qualificata tra l’altro, con i philosophes illuministi, come lotta al calendario cristiano che a sua volta aveva accolto la distinzione romana tra dies festus e dies ferialis, tra feste come “tempo dedicato al Sacro” e giorni dedicati invece alla produzione. Georges Dumézil ha interpretato la festa come un periodico “ritorno al caos” (paragonabile al “giubileo” biblico) non in quanto vittoria del disordine bensì, al contrario, come momento di ridefinizione generale dell’assetto cosmico e naturale e quindi come vera e propria rifondazione dell’ordine. Delle feste si ha bisogno per procedere a una rigenerazione funzionale e spirituale. Da qui la riconosciuta legittimità di comportamenti, come il consumo straordinario di beni alimentari e anche varie forme di licenza nei rapporti interpersonali, che nei giorni feriali non sono ammissibili.
La Modernità ha combattuto questa concezione principalmente in quanto ostacolo al mantenimento del ciclo produttivo e ha imposto una concezione omogenea del tempo, nel quale sono previste solo soste al lavoro quotidiano: da qui la ridefinizione dei giorni festivi come “tempo libero”, negatrice di qualunque differenziazione qualitativa.
Un’uscita da questo grigiore materialistico e desacralizzante può consistere nella rivalutazione e nel recupero della festa come dies dominica, giorno riservato a Dio, alla preghiera e alla gioiosa vita sociale. Nelle civiltà tradizionali si lavora da soli o in piccoli gruppi (nell’agricoltura, nella pastorizia, nell’artigianato, nella mercatura) ma durante le feste ci si riunisce e comunitariamente ci si riconosce. Nella Modernità si tende a fare il contrario, a lavorare in gruppo e a vivere la festa da soli o al massimo in piccoli gruppi. L’avvento dell’informatica-telematica, dopo la televisione, ha esasperato questa tendenza all’individualismo come solitudine e solipsismo. È ad essa che bisogna reagire. La riscoperta del passato cristiano può aiutarci in questo.

La Cristianità occidentale: realtà ed equivoci
Considerato “età della fede”, il medioevo si associa di solito allo spirito: e si considera pertanto nemico di qualunque carnalità e addirittura di qualunque concretezza. Per quanto questa visione delle cose sia decisamente sorpassata, essa resiste e di quando in quando riemerge a differenti livelli divulgativi o mediatici: secondo essa, l’età convenzionalmente definibile come “medioevo” sarebbe stata un tempo di negazione e d’umiliazione del corpo, di sottovalutazione di tutto quel ch’era fisico, quindi di affermazione non solo della “spiritualità” e delle “idee”, ma addirittura dell’astrattezza. Il pregiudizio d’un medioevo tutto “spirituale” nasce da due idee, entrambe errate nonostante riposino su alcuni elementi effettivi. Prima: la constatazione che la filosofia vincente nel medioevo – quanto meno fino al secolo XIII, quando si andò affermando l’aristotelismo – era il platonismo, noto per la svalutazione del corpo rispetto all’anima e delle cose rispetto alle idee; ma il platonismo trionfò anche nel Quattrocento, epoca nella quale tornò in auge il culto classico della nudità e si ebbe una tale esplosione di licenza sessuale che ci vollero nel secolo successivo due Riforme, una protestante e una cattolica, per soffocarla. Seconda: la conoscenza superficiale di certe tradizioni mistiche, come quelle collegate con le tecniche di umiliazione e di castigo del corpo; da qui l’idea di un medioevo assediato dalla sporcizia e dalla macerazione della carne attraverso il digiuno e il tormento fisico (il flagello, il cilicio ecc.). Tuttavia, cilici, flagellazioni, addirittura mutilazioni, erano pratiche già penetrate nel mondo pagano attraverso i culti misterici o conosciute dai germani e soprattutto dai celti per fini diversi, dalle iniziazioni guerriere alle tecniche sciamaniche le quali consentivano di conoscere il futuro.
La stessa “sessuofobia” che ancor oggi spesso si rinfaccia ai cristiani non era affatto loro propria: il cristianesimo elogiava verginità e continenza e regolava l’attività sessuale – al pari di quella alimentare o di quelle connesse con il divertimento – in un modo che può certo aver dato luogo ad alcuni eccessi “eroici”, a forme di diniego assoluto o addirittura di autotortura. Tuttavia quel ch’era centrale nell’insegnamento e nella pratica cristiana era la disciplina, la sobrietà, l’autocontrollo non già come tecniche umilianti e autopunitrici bensì, al contrario, come mezzi per giungere al controllo del proprio corpo e per conseguire pertanto un’autentica libertà, quella di chi non si lascia sottomettere dagli impulsi incontrollabili dei sensi.
Il medioevo fu in realtà non certo materialista, ma tuttavia legato profondamente alla fisicità e addirittura alla carnalità. Contrariamente a quel che si ritiene respingendo “all’indietro” una realtà storica molto più recente, quella mancanza d’igiene corporea che si affermò tra tardo Cinquecento ed età barocca, il medioevo fu un tempo di grande familiarità sia con l’igiene corporea (le “stufe”, cioè i bagni, vi erano frequentissimi), sia addirittura con la nudità, ch’era praticata sia pur non promiscuamente in molti ambienti e in varie occasioni. Perfino nei monasteri il corpo veniva fatto oggetto di molte cure: v’erano bagni e latrine, si provvedeva a lavare nutrire e curare gli infermi, si permettevano – sempre con il consenso e sotto la sorveglianza dei superiori – pratiche ascetiche anche molto dure e rigorose, ma sempre commisurate alle forze e alle possibilità di chi vi si sottoponeva; ordinariamente ci si concedevano agi anche notevoli, che difatti venivan fatti segno di molte composizioni poetiche di tipo satirico: i monaci vestivano abiti comodi, vivevano in ambienti che potevano essere ben riscaldati, si cibavano in modo adeguato e perfino abbondante e gustoso. Ancor oggi molti dei formaggi, delle conserve e dei liquori che noi mostriamo di maggiormente apprezzare sono d’origine monastica.

L’amore, “invenzione” medievale
L’amore – come ha detto uno studioso che gli ha dedicato ampie ricerche, Denis de Rougemont – è un’invenzione del XII secolo. La nota vicenda di Abelardo ed Eloisa è eloquente e significativa. Pietro Abelardo nacque a Pallet presso Nantes, nel 1079, studiò a Tours e indi a Loche, ed ebbe come suo maestro il più grande filosofo della corrente “nominalista” del tempo, Roscellino. Si trasferì ben presto a Parigi, che stava allora diventando una delle grandi città di cultura del mondo occidentale. Ivi ebbe come maestro Guglielmo di Champeaux, ma non tardò a entrare in conflitto con lui. Era infatti deluso del suo insegnamento, rispetto al quale si sentiva superiore, e ne era naturalmente ricambiato con astio. Cominciò quindi con l’aprire scuole sue proprie, a Melun e poi a Corbeil; ma nel 1114, a circa trentacinque anni, tornò a Parigi dove prese a insegnare nella scuola situata sulla montagna di Sainte-Genèviève, piccolo poggio a sud della città che doveva diventare la celebrata sede universitaria cittadina (sorge ancora, ai suoi piedi, la Sorbona).
La novità e l’arditezza dei metodi e delle idee di Abelardo ne fecero una specie di simbolo dell’intellettuale libero e spregiudicato; e del suo fascino egli si giovò per sedurre una giovane e intelligente fanciulla, Eloisa, che gli era stata affidata affinché le insegnasse la filosofia. Eloisa era la nipote di un canonico della cattedrale, Fulberto, presso il quale Abelardo aveva preso dimora. Ben presto la fama della passione fra i due eguagliò quella del valore intellettuale di Abelardo: dalla relazione fra questi ed Eloisa nacque un figlio, al quale fu posto non già (com’era uso) il nome di un santo del calendario cristiano, bensì quello di uno strumento per l’osservazione delle stelle, Astrolabio. La scelta di questo nome è emblematica dell’atmosfera di esaltazione culturale e sensuale nel quale Abelardo ed Eloisa vivevano in quegli anni. Comunque, nel 1119-20, i due si unirono segretamente in matrimonio.
La situazione non poteva tuttavia essere tollerata dallo zio di Eloisa, che si vendicò facendo crudelmente evirare Abelardo e obbligò la nipote a chiudersi in un monastero. Anche Abelardo avrebbe in seguito abbracciato la carriera monastica, senza trovar pace nemmeno nella sua nuova condizione: anzi, trovandosi a dover svolgere in un monastero le funzioni di abate, fu duramente avversato dai suoi monaci. Frattanto Eloisa, divenuta badessa del monastero del Paraclito, intratteneva con lui una fitta corrispondenza, che ci è rimasta. Il loro amore, ormai troncato sul piano terreno, doveva continuare in Dio. Eppure, in queste lettere – alcune delle quali sono di grande qualità artistica e di sincero slancio mistico – le tracce della passione continuano a mostrarsi.
Non fu tuttavia per la sua relazione con Eloisa, del resto sospesa, quanto per le sue idee e la sua attività di maestro, che Abelardo fu duramente perseguitato dal più grande mistico del XII secolo, Bernardo di Clairvaux, che lo accusava di spargere il veleno della sua filosofia che infirmava le basi della fede. Nonostante protestasse ripetutamente la sua ortodossia cristiana, Abelardo venne condannato nel concilio di Sens (1141). Morì l’anno seguente, in miseria e in disperazione, circondato tuttavia dall’affetto e dall’ammirazione dei più grandi uomini di cultura del tempo.
Abelardo è una delle figure senza dubbio fondamentali non solo della cultura del XII secolo, ma di tutta la cultura occidentale. Il suo amore per Eloisa non è stato soltanto un episodio; egli e la sua compagna hanno, si può dire, “inventato” l’amore come sarebbe stato concepito modernamente, come passione e dedizione assoluta di due esseri l’uno per l’altro.

Appunti sul carnevale
Con l’eros e la carnalità aveva rapporti stretti una tipica festa medievale, proveniente dall’antichità pagana, passata al mondo cristiano, “laicizzata” e oggi sottoposta a molti revivals, taluni equivoci. Si tratta del carnevale.
Ormai si tratta di una festa dedicata soprattutto ai bambini, al più un’allegra mascherata: ma in passato ha avuto un peso ben diverso. Celebrazione sfrenata, sottoposta per questo al controllo delle autorità laiche ed ecclesiastiche e contrapposta al raccoglimento della Quaresima, il carnevale ha ispirato nei secoli grandi capolavori dell’arte pittorica (si pensi almeno a Brueghel e a Goya), musicale (da Schubert a Berlioz a Paganini), letteraria: Goethe studiò il carnevale come una delle manifestazioni della natura; e il grande critico Michail Bachtin, nel suo saggio sul compatriota Dostoevskij, così lo descriveva: “Il carnevale è la festa del tempo che tutto distrugge e tutto rinnova. Così può esprimersi il pensiero fondamentale del carnevale”.
Tanta passione e tanto interesse hanno spinto anche a ricerche sulle origini di questa festa, che noi conosciamo certamente come medievale, ma da molti ritenuta ben più antica, addirittura pagana. Fin dal Rinascimento si credeva infatti che il carnevale discendesse direttamente da feste diffuse nel mondo romano, quali i Saturnalia e i Lupercalia, o greco, come i Dyonisia. In tutte queste celebrazioni i partecipanti si mascheravano e si aggiravano in un apparente stato di possessione delirante, giocando scherzi ai passanti. Molte fra queste feste scomparvero, almeno dal calendario ufficiale, all’inizio dell’affermazione del cristianesimo nel mondo romano; non senza difficoltà, tuttavia: i Lupercalia furono aboliti da papa Gelasio I soltanto nel 496. A livello popolare, feste analoghe a queste continuarono in effetti a esser praticate a lungo tanto in Italia quanto in Spagna e in Francia nei secoli successivi; e indubbiamente alcuni loro caratteri formali – il travestimento, gli scherzi, la sfrenatezza rituale, le sassaiole – confluirono nel carnevale.
Tuttavia, rimane innegabile che questa festa così come la conosciamo nei secoli medievali era ignota in precedenza. Che spiegazione fornire? Il nome peculiare ha indotto molti a interrogarsi sulle sue origini proprio a partire dall’etimologia del nome. A tale proposito e per un certo tempo aveva avuto successo l’ipotesi che “carnevale” derivasse dal romano currus navalis, la festa che aveva luogo il 5 marzo, festa di Iside, con una processione mascherata all’interno della quale vi era un’imbarcazione (lo Isidis navigium) trainata da un carro. Apuleio ne offre una precisa descrizione nell’XI libro delle Metamorfosi. Molti vollero vedere nell’uso dei cortei carnascialeschi con sfilate di carri (da quelli rinascimentali agli odierni che hanno luogo, per esempio, a Viareggio e a Putignano) proprio una memoria del currus e della nave sacri a Iside.
Nel corso del Novecento, però, una nuova tesi si è fatta strada ed è oggi accreditata come la più probabile: il termine “carnevale” andrebbe interpretato alla luce non di pratiche pagane, ma come un portato dell’idea cristiana di Quaresima, e sarebbe una contrazione dell’espressione carnem levare. Le prime registrazioni di cerimonie che hanno questo nome appartengono alla fine del XII secolo e sono significativamente indicate con i termini carnelevamen, carnelevamine, carnisprivium. Sarebbe insomma una sorta di compensazione popolare per le fatiche del digiuno quaresimale: il che spiega perfettamente il senso della “Battaglia fra carnevale e quaresima”, soggetto artistico-letterario assai celebrato, nel quale la carnalità che si celebra non è solo quella legata ai peccati della gola: la tavola di Bruegel il Vecchio conservata alla Pinacoteca di Vienna ne è forse l’esempio più eloquente.
Non si deve tuttavia dimenticare come non solo il tempo della penitenza, ma pure quello della festa sia attentamente regolato nelle società tradizionali. Il “mondo alla rovescia” del carnevale, insomma, non è un mondo completamente anomico: per quanto ci si possa sfrenare nelle danze, nelle sassaiole, nelle battaglie di arance e farina, nelle parate in costume, anche la trasgressione conosce le sue regole e i suoi divieti; per esempio, nel periodo di carnevale non si potevano compiere certi lavori, come quelli di filatura. E soprattutto, la sequenza delle celebrazioni era fissata con una certa precisione: il carnevale conosce il trionfo nel martedì e nel giovedì grassi, poi muore e viene sepolto, generalmente intorno al mercoledì delle ceneri; spesso il carnevale declinante era rappresentato da un fantoccio portato in processione e dato alle fiamme, oppure da un uomo in carne ed ossa, che sfuggiva al fuoco fra gli applausi. Segno che il carnevale dell’abbondanza sarebbe tornato l’anno successivo ad allietare lo spirito e, soprattutto, la carne.
Il carnevale non era una prerogativa dei soli cristiani. Anche le comunità ebraiche conoscevano celebrazioni simili, modellate su quelle dei “gentili”: soprattutto in occasione della festa di Purim, nella quale si celebra la salvezza dal monarca persiano Assuero, e che già prevedeva abbondanti libagioni e pubbliche bevute. Il Purim, in effetti, cadeva quasi in concomitanza con il carnevale dei cristiani, e dunque si prestava a una sincresi fra le diverse tradizioni; è per questo che i cristiani lo indicavano generalmente con l’espressione “carnevale degli ebrei”. Le fonti narrano di feste di strada in effetti molto simili, e non esitano a elencare liste di cibarie da fare invidia al paese di cuccagna. Nelle case degli ebrei abbienti, poi, il Purim poteva raggiungere picchi di raffinatezza. Ariel Toaff ricorda che nella Roma ebraica del Trecento i pranzi sontuosi del “carnevale ebraico” prevedevano 24 portate, fra le quali comparivano: “arrosti di daini, i cervi e i montoni allo spiedo, i capponi e le galline al forno, i piccioni alla brace, gli spiedini di cacciagione di volo (pernici, coturnici, polacche, tortore), i fagiani marinati alla griglia, le anatre e le oche ripiene, la fricassea di colombelli al limone” e ancora “i salsiccioni d’oca, la lingua di vitella, le confetture e i dolci come i biscotti all’anice, la nociata, i caliscioni ripieni di marzapane, i mostaccioli, oltre agli immancabili tortolicchi”.
Le manifestazioni carnascialesche trovavano un esito quasi “naturale” in alcune rappresentazioni teatrali: fra queste, una fra le più celebri e le più interessanti è sicuramente il Jeu de la feuillée di Adam de la Halle. In apparenza, il Jeu è un testo di impronta realistica, in quanto gli attori rappresentano persone reali di Arras; lo spettacolo fa parte della vera festa del Calendimaggio o di altra festa d’inizio d’un ciclo a carattere propiziatorio; l’azione si svolge in una piazza della città; alla fine dello spettacolo i personaggi lasciano la scena per recarsi in luoghi realmente esistenti. Tuttavia, allo stesso tempo si ritrovano nel Jeu i tratti della cultura carnevalesca del riso e della beffa, insieme a personaggi topici (quali il medico e la prostituta) atti a mettere a nudo i vizi dei concittadini; così come le volgarità scatologiche; oppure gli elementi féeriques: il corteggio di Hellequin; le fate; la parodia liturgica. Anche nel carnevale il rituale dell’inversione è ben conosciuto, al pari della denuncia/confessione/espulsione del male e del peccato dalla cerchia della comunità. Al “folle”, considerato per la sua condizione un “puro”, era generalmente affidato il compito di denunziare le magagne della città e dei concittadini, così come avviene nel Jeu.
Non mancano testimonianze di una corrispondenza tra le rappresentazioni teatrali come quella di Adam de la Halle e le feste che si organizzavano nelle città. Per esempio Giovanni Villani descrive nella sua Cronaca (libro VIII, cap. LXX) la rappresentazione dell’inferno fatta a Firenze nel 1304 “per il dì di calende di maggio in sul ponte alla Carraia e d’intorno all’Arno”. Una rappresentazione tenutasi dunque il 1° maggio, cioè nella data d’inizio del ciclo primaverile come il Jeu de la feuillée, organizzata da un’associazione di quartiere.
Altro tema tipico è dato dalla mesnie Hellekin, o Hellequin, originariamente re della caccia infernale di probabile origine germanica, che racchiude in questo genere di rappresentazioni tanto l’aspetto ctonio, oscuro (che la tradizione cristiana volge ovviamente in “demoniaco”), quanto quello di propiziazione della fertilità – peraltro tipico delle feste del maggio. Esso si collegava anche all’oscura divinità infera nota come Hel, che univa in sé appunto i caratteri inferi con quelli di divinità dell’abbondanza. Dalla normalizzazione di Hellequin nascerà in età moderna il personaggio di Arlecchino.
Ma nel mondo medievale testimoniato dal Jeu siamo dinanzi a feste nelle quali gli elementi comici, festivi, dissacratori, non sono fini a se stessi, puro divertissement, ma si avvicinano a rituali folklorici (sebbene si tratti di un folklore ormai intriso di motivi e temi cristiani) di purificazione e celebrazione di particolari momenti dell’anno.