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La nascita del film futurista

di Giancarlo Chiariglione - 02/02/2022

La nascita del film futurista

Fonte: Giancarlo Chiariglione

THAΪS (1917) DI A. G. BRAGAGLIA, OVVERO NASCITA DEL FILM FUTURISTA TRA LETTERATURA, ESOTERISMO E GUERRA

 

Anton Giulio Bragaglia (Frosinone, 1890 – Roma 1960), noto ai più per aver dato un contributo alle ricerche fotografiche con la sua teoria e pratica del fotodinamismo[1] messa a punto con il fratello Arturo, è passato alla storia anche per aver girato Thaïs, unica pellicola futurista sostanzialmente preservata. Di questo film sicuramente incompleto (lungo 756 metri per una durata di circa 35’), realizzato dall’artista laziale con la collaborazione di Riccardo Cassano[2] per la casa di produzione Novissima Film[3], la cui prima si svolse a Roma solo il 4 ottobre 1917 per difficoltà incontrate con la censura[4] e conservato alla Cinémathèque Française con intratitoli in francese e senza commento musicale, si è detto e scritto molto. Soprattutto in relazione alla sequenza finale caratterizzata dalle scenografie marcatamente futuriste di Enrico Prampolini[5], che pare dare un senso completamente diverso ad un’opera la cui prima parte viene sovente identificata come una banale variazione del classico melodramma cinematografico di foggia dannunziana[6]. La maggior parte dei critici, infatti, non ha individuato una effettiva integrazione tra l’allegorismo così moderno e sperimentale del finale e un intreccio drammatico tipico di un genere “passatista” quale quello della femme fatale.

In realtà, ad una lettura più approfondita, il melodramma dannunziano che Thaïs mette in scena e l’uso che il film ne fa, non sono davvero banali o scontati. Suddivisa in quattro atti connotati da una vistosa teatralità, la pellicola che narra le vicende, appunto, di Thaïs (pseudonimo della contessa slava Vèra Préobrajenska), femme fatale insensibile ed eccentrica, la quale intenta a collezionare ammiratori (come recitano le didascalie) quasi fossero pupazzi, seduce il Conte di San Remo di cui è innamorata la bella amica Bianca Belincioni Stagno (aggraziata ballerina ed abile amazzone), provocandone la mortale, e non del tutto accidentale, caduta da cavallo (in seguito all’incidente Thaïs stessa, vinta dal rimorso, deciderà di togliersi la vita), è un’opera complessa, leggibile su più livelli, non ultimo quello occulto, esoterico, in armonia con lo Zeitgeist (“lo spirito del tempo” di hegeliana memoria) della civiltà moderna.

Per cominciare, il filone cinematografico dannunziano e più in generale il simbolismo decadente del dannunzianesimo avversati dai futuristi sin dai primi manifesti del 1909-10[7], nella pellicola sembrano essere evocati in maniera parodica e ironica, dato che Bragaglia tramite procedimenti eversivi e stranianti trasforma la diva- femme fatale in una “creatura” tipicamente futurista. Quasi in un’icona del noto movimento. Con un gesto tipicamente futurista (di «sfida alle stelle» per parafrasare il primo manifesto del futurismo), l'artista frusinate rovescia il classico paradigma della Diva italiana irraggiungibile, cristallizzata nel suo mito caratterizzato da una fisionomia, da un corpo, da una gestualità sempre uguali (si pensi alla Lyda Borelli di Fior di male del 1915 e Rapsodia satanica del 1917, a Francesca Bertini di Assunta Spina e Sangue bleu, entrambi del 1915, alla Pina Menichelli di Tigre reale del 1916 e Storia di una donna del 1920)[8], promuovendo al rango di protagonista la sconosciuta cantante e danzatrice russa Thaïs Galitzky scoperta a Roma nell’estate del 1916, il cui personaggio, pur dimostrando di possedere uno “spessore” ben preciso (come recita una delle prime didascalie, Thaïs è un’attrice e artista che «si è conquistata una certa reputazione letteraria»), incarna anche alla perfezione l’interpretazione futurista della modernità intesa come un regime dello spettacolo, come esperienza estetica, come pura energia liberata [9]. Il desiderio di riproduzione meccanica enunciato da Mafarka alla fine del romanzo marinettiano del 1910.

Da vera e propria diva futurista, come detto, Thaïs si distanzia in modo radicale dal modello stereotipato del cinema divistico dannunziano[10], perché si dimostra capace sin dall’inizio del film di crearsi dei ruoli sempre diversi, di reinventarsi e mutare aspetto al punto da risultare in alcune scene davvero irriconoscibile. La sua ironia, ma soprattutto la sua amoralità e la sua perversione le quali, al di là dell’aggancio dantesco (Taide «sozza e scapigliata fante» Inferno, Canto XVIII, 130), ribaltano parodicamente la tradizione agiografica del mitico personaggio[11], anche per aver rinfocolato la proverbiale misoginia marinettiana[12], restano la sola luce di interiorità, il solo barlume di umanità di una creatura che è generata dal nulla attraverso la macchina da presa e che abita una sorta di dimensione sospesa tipica del simulacro, dell’inorganico. Tanto che il suo suicidio alla fine dell’opera non sembra coincidere con un umanissimo senso di colpa, ma con la dissoluzione della sua identità filmica. Thaïs, priva di referente, di un corpo reale e riconoscibile dato che nella pellicola attrice e protagonista hanno lo stesso nome, viene infatti anche chiamata dagli amici “Nitchevo” (cioè “nulla” in russo) e contessa Vera Preobrajenska (nell’intratitolo). Questo nome slavo, “russeggiante”, che in quanto tale è già sinonimo di esotismo, alterità, artificiosità («la Russia è un dilemma avvolto in un mistero, racchiuso in un enigma» diceva Churchill), richiama il nome-pseudonimo della misteriosa Varia Nestoroff, l’attrice russa dalla rapace personalità che Serafino Gubbio, operatore della Casa cinematografica Kosmograph, osserva distruggere vite altrui senza manifestare piacere o rimorsi del romanzo di Luigi Pirandello Si gira! (1915) poi intitolato Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1925)[13], in cui il drammaturgo e poeta agrigentino si esprime in difesa di un teatro/vita (crocevia di partecipazioni emotive tra gli attori e il pubblico) contro un cinema/forma (freddo ripetitore di fotogrammi stereotipati). E in effetti, come il robotico cineoperatore[14] e l’angosciata attrice intenta ad inseguire fantasmi e ossessioni che si manifestano enigmaticamente nella sua immagine cinematografica alterata e scomposta[15], i quali, nelle intenzioni di Pirandello incarnano la reificazione dell’uomo di oggi ridotto a mera appendice delle macchine[16], la Thaïs bragagliana, attrice/performer all’ennesima potenza priva di autentiche ansie e appetiti (in sostanza di una vera interiorità), mostra una natura davvero spettacolare (che citando Goethe «non ha né nocciolo, né scorza, ed è tutta d’un sol getto») ma anche il suo lato disumano.

Figlio di una generazione di artisti d’avanguardia posteriore a quella di Marinetti, Balla e Boccioni (morto durante la guerra nel 1916), Bragaglia realizza un film che a differenza del coevo Vita futurista (opera in cui gli stessi futuristi[17] si producevano in scene comiche simili alle performances futuriste teatrali del teatro sintetico), citato proprio da Marinetti sino al 1938[18] come esemplare della cinematografia futurista, ha l’ambizione di delineare una dimensione estetica adeguata ad un’epoca in cui l’immaginario inizia ad appalesarsi più veritiero della verità. Alla dinamica della rappresentazione delle prime pellicole che faceva percepire lo spettacolo come la realtà stessa (una realtà accentuata[19] criticata da Marinetti come antifuturista[20]), il regista frusinate oppone il suo film inteso come pura tecnica illusionistica. Come finzione dichiarata. Conformemente all’idea schilleriana per cui l’impulso del gioco sarebbe in grado di liberare definitivamente l’uomo e la natura da ogni sfruttamento e costrizione[21], Thaïs, svelando le sofisticate e diaboliche tecniche di seduzione della sua protagonista, sembra parlare di sé, delle sue tecniche, del suo desiderio di liberarsi da ogni ossessione naturalistica e dall’obbligo di narrare storie. Si mette in sostanza a nudo come archetipo della settima arte.

La nota pellicola futurista sembra, appunto, voler deliberatamente disorientare e confondere il pubblico sia mediante un montaggio discontinuo, convulso (nonostante gli esterni siano ripresi tutti in luoghi familiari di Roma quali il Pincio, Villa Borghese e il lungotevere), che attraverso la staticità delle riprese, l’immobilità della macchina da presa, la quale, soprattutto prima della sequenza conclusiva, rimane intenzionalmente passiva di fronte all’irrefrenabile, provocatorio dinamismo teatrale di Thaïs. Quest’ultima, infatti, non solo si muove in un modo incessante, repentino, indefinibile[22], sovente simile ad una danza[23], ma muta di continuo anche aspetto e colore dei capelli (in una scena di seduzione la nostra indossa perfino un costume settecentesco e una parrucca bionda). Tanto che in virtù di questi mascheramenti e sorprendenti “messe in scena”, pare dopotutto essere la stessa Thaïs a controllare il proprio spettacolo e il proprio film[24]. Inoltre, in questo gioco di specchi e rispecchiamenti fra attrice e regista e fra attrice e film che prosegue per tutta l’opera, Thaïs, che non evolve mai secondo la moderna ipotesi della vita come lotta e destino, in alcune scene pare quasi clonarsi nella danzatrice Bianca[25], la sua migliore amica verso cui prova un’attrazione. Con questa eloquente, ambigua intimità fisica[26], la sfuggente femme fatale di Bragaglia trasforma anche l’identità sessuale e di genere (centrale nel cinema narrativo e naturalistico) in un’oscillante performance. E d’altro canto il motivo lesbico, bisessuale, confermato in modo esplicito dalla citazione negli intratitoli della poesia baudelariana Femmes damnées[27] (Donne dannate, inclusa in Les fleurs du mal), era uno dei temi più dibattuti da quella cultura esoterica[28] che nel primo decennio novecentesco accoglieva il movimentato parto dell’avanguardia futurista.

Convinti che per opporsi alla degradazione dell’uomo moderno la scienza, troppo prigioniera della sua ortodossia[29], e la tecnica, pur decantata in toni accesi, dovessero sviluppare un rapporto simbiotico con l’occultismo, con la metafisica, con quella componente di empiriocriticismo che tra fine Ottocento e inizio del nuovo secolo suggeriva molte idee sull’energia cerebrale, sulla possibile scientificità dell’estetica, sui caratteri prelogici del linguaggio, i futuristi si avvicinarono a dottrine come quella teosofica, utero da cui sono state partorite gran parte delle correnti occultiste sino ad oggi e quella antroposofica, le quali, posizionatesi sul piano della competizione religiosa[30] e dell’interventismo politico (si pensi all’impegno profuso per diffondere una visione moderna della donna[31], della sessualità o delle culture non europee), parevano in grado di indagare in modo innovativo il concetto di creazione, l’eterno conflitto tra materialità e spirito (La dottrina segreta, noto testo di Helena Blavatsky, tratta diffusamente del culto della razza, del sangue, del superuomo e della dissoluzione dell’Io[32]). E Bragaglia, che pur considerava il cinema e la fotodinamica come delle forme di magia moderna[33] e che mantenne sempre una fideistica convinzione nella interpretazione spiritualistico-eterica del proprio lavoro, pare scorgere nei rapporti testé citati delle implicazioni che Marinetti, ad esempio, non vedeva. A quest’ultimo che identifica la creazione nel personaggio di Mafarka, il quale unendo funzioni maschili e femminili costruisce un figlio alato e gli infonde la vita, ideale profeta della nuova religione “ctonia” della Modernolatria[34], della Macchina[35], la quale, pensava Marinetti, una volta depurata dalla pesantezza dei rapporti di produzione[36], adeguatamente protetta[37] ma collaudata durante la Guerra (sintesi culminante e perfetta del progresso)[38], avrebbe portato l’uomo a comprendere il nesso segreto e osmotico tra le “cose” da sempre delegato ai regni dell’occulto (e indi a dominare la natura), il cineasta frusinate oppone una figura femminile che più che procreare nel vero senso della parola, si raddoppia e si sdoppia prodigiosamente (alla morte di Bianca assimilabile a una sorta di suicidio, fa seguito con immediato raddoppiamento l’autoannientamento di Thaïs), e ordisce delle creazioni “letterarie” e spettacolari di seduzione meccanica e distruzione nel suo gabinetto segreto, il quale, essendo anche un set, un teatrino delle torture, una camera oscura, come verrà svelato nella surreale sequenza finale, allude chiaramente al potere di alienazione e di distruzione del sopraccitato “monstrum” tecnologico.

Essere come detto anti-naturale, tecnico, per parafrasare Benjamin[39], che si sottrae al ricatto della carne e del sangue e non condivide alcun destino [40], Thaïs somiglia però anche ad una maga, e nello stesso modo dell’Ève future di Villiers de l'Isle-Adam, del Dottor Caligari (Bragaglia dixit[41]) o magari di Madame Blavatsky, la nostra, nella sua tecnologica, accessoriata stanza esplora, assembla e disgrega la materia (come fa un montatore cinematografico con la sua opera[42]) allo scopo di individuare quello Spirito Universale presente in ogni aspetto del creato; per risvegliare quelle forze sopite, quelle energie elementari domate dalla civiltà. In tale prospettiva, se i triangoli e gli occhi che ricoprono porte e pareti del gabinetto[43] rappresentano in senso esoterico, teosofico, una moltiplicata e magica capacità di dirigere tale processo, i gas velenosi e le lance acuminate visibili nella stanza durante la scena finale, simbolizzano la morte e la distruzione provocate dal succitato risveglio. Thaïs sembra così alludere pesantemente alla coeva Grande Guerra (1914-1918), dove le “nuove macchine” divinizzate dai futuristi, ci suggerisce il coinvolto Bragaglia[44], più che sottrarre i popoli al loro grigio, quotidiano anonimato o aprire la strada all’Uomo meccanico, al Cyborg del Transumanismo[45], contribuivano in modo determinante a generare quelle devastazioni e quel sacrificio di sangue necessari a consolidare il Potere nelle mani di una ristretta élite. Mentre, infatti, milioni di contadini e operai di svariate nazionalità, ben simbolizzati nel film dall’ibrido ambiente (austriaco, francese, russo, italiano) in cui si muove la protagonista[46], morivano in strette e sordide trincee per effetto di gas, esplosioni o per trafitture di baionette, politici, teste coronate e oscuri azionisti del Big business, del “Corporate Banking”[47], disegnavano i confini del mondo contemporaneo, nonché la percezione che di esso ne avrebbe avuto la massa[48].

La natura impersonale, disumana della nuova violenza tecnologica non era, infatti, solo rappresentata dai gas utilizzati durante il succitato conflitto[49], i quali annullavano la differenza tra amici e nemici, tra linee di difesa e di attacco[50], ma pure da quelle tecniche di mobilitazione e potenziamento immaginario dello sguardo comuni al cinema e alla tecnologia bellica (cinepresa in movimento, montaggio, fotografia, ricognizione aerea, mappature ipotetiche e mobili del fronte), le quali, se allora accreditarono battaglie sostanzialmente prive di senso[51] e qualche decennio dopo legittimarono, anche tramite film, cinegiornali, documentari scientifici ed etnologici[52] e a poco noti docufilm di natura, ad esempio, antropologica[53], una guerra sempre più sperimentale, “industriale”[54], oggi, con la loro digitalizzazione, sono addirittura in grado di costruire un nemico virtuale, televisivo: Jean Baudrillard ha detto a tal proposito che la prima guerra del Golfo è sembrata soprattutto una simulazione (seppur con morte e distruzione)[55], un esercizio di manipolazione in cui le armi di ostruzione (i bunker di Saddam Hussein) e le armi di distruzione (i missili), hanno ceduto il posto alle nuove armi di comunicazione di massa destinate a colpire gli spiriti…[56] Un processo, in pratica, attraverso cui il Potere ha mostrato la performance del proprio apparato, l’infallibilità della propria Macchina[57].

Thaïs, che con la sua sequenza finale piena di superimposizioni, trucchi ottici e le scenografie prampoliniane, come detto, non incontrò l’approvazione di Marinetti e del futurismo (il quale nel giro di pochi anni si sarebbe incrociato col fascismo), per questa capacità di evocare in modo surreale, onirico e antinaturalistico la violenza, il sadismo, la spettacolarità della guerra e del cinema, rivelando altresì come queste ultime si somiglino e siano interdipendenti per la conquista delle immagini mentali delle persone (in fondo ben più importanti dei loro corpi), risultò viceversa decisivo nella genealogia di pellicole come Aelita (Аэлита, 1924) di Jakov A. Protazanov e Metropolis (1927), di Fritz Lang[58]. Film epocali, archetipici di un genere che conta tra i suoi prodotti migliori Blade Runner (1982), di Ridley Scott, Orwell 1984 (Nineteen Eighty-Four, 1984) di Michael Radford, Brazil (1985) di Terry Gilliam, Matrix (1999) di Lana e Andy Wachowski, e in cui viene lentamente e surrettiziamente fatta filtrare nell’inconscio del pubblico l’immagine di un futuro in cui un’élite nascosta controlla una popolazione ridotta in schiavitù. Un orizzonte a cui non aveva pensato la maggioranza dell’avanguardia futurista, che auspicava invece un’epoca in cui scienza, tecnica e arte si sarebbero congiunte e in modo palingenetico avrebbero inaugurato inediti territori d’indagine, di sfida all’ignoto. Avrebbero, in sostanza, cambiato la vita.

 note

[1] Il concetto di fotodinamaica fu ispirato a Bragaglia dal «Manifesto tecnico» dei pittori futuristi e si sviluppò in parallelo con le ricerche di movimento di  Balla (Dinamismo di cane al guinzaglio, Bambina che corre sul balcone, La mano del violinista). Bragaglia, intenzionato a liberare la fotografia dal realismo naturale e dalla schiavitù dell’istantanea, intendeva servirsi della fotodinamica non tanto per riprodurre uno dietro l’altro i tempi del gesto (cronofotografia) o per sintetizzare gli stati interstatici, intermovimentali e intermomentali di quest’ultimo (cinema), quanto per identificare, mettere a fuoco, l’autentica essenza interiore delle cose: «il puro movimento», Mario Verdone, Il futurismo, Tascabili Economici Newton Compton, 1994, p. 57.

[2] Riccardo Cassano dei Maltagliati di Malaterra (Napoli 1885 – 1953 Roma), esordì nel 1915 alla Cines con il breve film patriottico Il sogno dei bimbi d’Italia. Dopo aver scritto il soggetto per Primprinette (1917) per Lola Visconti-Brignone, sceneggiò in collaborazione con Mario Bonnard L’altro io (id.) ispirandosi vagamente al “Dorian Gray” di Oscar Wilde. Avvicinatosi al futurismo, collaborò con Bragaglia alla realizzazione di quattro film tra cui i noti Thais e Perfido incanto (1917). Nel 1918 diresse la mitica Bella Otero (ovvero Carolina Otero) in L’autunno dell’amore, indi firmò insieme a Gastone Monaldi tre film avventurosi e, soprattutto, un’allegra parodia del film di Pearl White The perils of Pauline (1916),  noto come Bidoni e la maschera dai denti neri (1918). Pur collaborando ancora con autori come Mattoli, Borghesio, Palermi e Guarini, nel periodo del sonoro il nostro iniziò un inesorabile declino che lo portò negli anni Cinquanta a vendere libri usati su una bancarella per sbarcare il lunario.

[3] La Novissima Film venne fondata a Roma da A. G. Bragaglia ed Emidio De Medio verso la fine del 1916. Oltre a Thaïs, essa produsse anche altre tre opere dell’artista frusinate purtroppo andate perdute: Un dramma nell’Olimpo (1917), Il mio cadavere (1917) e Perfido incanto (1917); pellicola spesso scambiata, anche per la confusione alimentata dallo stesso Bragaglia con le sue dichiarazioni, proprio con il film di cui dibattiamo. Vele ammainate del 1932, infine, completa la filmografia dell’artista laziale.

[4] Come ricorda lo stesso Bragaglia, la censura in quel periodo si accaniva soprattutto contro ogni uso o allusione alla magia, Mario Verdone (a cura di), numero speciale di “Bianco e Nero: rassegna di studi cinematografici e televisivi” dedicato ad Anton Giulio Bragaglia, XXVI, 4, aprile 1965, p. 8.

[5] In base a quanto affermato da Giovanni Lista, Giuseppina Pelonzi-Bragaglia, moglie dell’artista laziale, collaborò insieme al grande pittore, scultore e scenografo futurista alla realizzazione dei costumi e degli oggetti decorativi di Thaïs. G. Lista, Cinema e fotografia futurista, Skira, Milano, 2001, p. 66.

[6] Il critico Gian Piero Brunetta, ad esempio, afferma che «la potente presenza delle scenografie futuriste di Enrico Prampolini nel finale annulla l’interesse di tutto l’intreccio drammatico precedente […] che è un tipico dramma della cultura dannunziana». G. Brunetta, Storia del cinema italiano. Il cinema muto 1895-1929, Editori Riuniti, Roma, 1993, vol. 1, p. 217.

[7] «Noi disprezziamo la donna, concepita come unico ideale, divino serbatoio d'amore, la donna veleno, la donna ninnolo tragico, la donna fragile, ossessionante e fatale» affermava Filippo Tommaso Marinetti in Contro l’amore e il parlamentarismo (1910), in Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Mondadori, Milano 1968, p. 292). Cfr. anche Noi rinneghiamo i nostri maestri simbolisti ultimi amanti della luna: «Bisogna ad ogni costo combattere Gabriele D'Annunzio, fratello minore dei grandi simbolisti francesi, nostalgico come questi e come questi chino sul corpo ignudo della donna. […] il sentimentalismo romantico grondante di chiaro di luna, che si eleva verso la Donna-Bellezza ideale e fatale [e] l’ossessione della lussuria», (ivi, p. 304).

[8] La diffusione di questi film in cui voluttuose femme fatale utilizzano le armi perverse della seduzione per distruggere gli uomini, pagando i loro peccati con la morte e lasciando campo libero a donne pure e innocenti che riportano il protagonista maschile alla sicurezza degli affetti familiari, incarnano il disagio che attraversava la società italiana in cui a causa della tragica realtà della guerra, se gli uomini al fronte sognavano di morire tra le braccia di Lyda Borelli o Pina Menichelli, le donne che li sostituivano nelle fabbriche e negli uffici, adottavano sempre più i loro comportamenti sociali, sessuali nonché il loro modo di vestire: l’uccisione della femme fatale e la vittoria della sposa gentile, in tal senso, potrebbe anche significare la rivendicazione di una normalità perduta. Su questo tema si veda lo studio di P. Di Cori, Il doppio sguardo. Visibilità dei generi sessuali nella rappresentazione fotografica (1908-1918), in La Grande Guerra. Esperienza, memoria, immagini, a cura di D. Leoni e C. Zandra, Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 755 – 800.

[9] Sull’onda di quelle suggestioni prodotte dalle scienze medianiche che si affermarono in controcanto alla stagione illuministica e in virtù anche della diffusione della fotografia, i futuristi si convinsero che era giunto quel “tempo nuovo” in cui una “nuova arte” avrebbe potuto fare a meno di tradizionali mezzi espressivi quali la materia, il marmo, la tavolozza, la parola scritta. «Immagina […] quando l’opera d’arte si esplicherà, si formerà con la stessa rapidità e con la stessa nettezza dell’idea, cioè, quando il pensiero diventerà visibile, tangibile, quantunque fuggevole, forse, e mutabilissimo, come la sua natura di pensiero comporta» fantasticava a tal proposito il critico e giornalista Luigi Capuana, Nuovi ideali d’arte e di critica, in Cronache letterarie (1899), cit. in Simona Cigliana, Futurismo esoterico. Contributi per una storia dell'irrazionalismo italiano tra Otto e Novecento. Roma. La Fenice, 1996, pp. 167-168.

[10] Nel cinema divistico dannunziano conta «soprattutto l’identità e non la differenza, la ripetizione e non la metamorfosi), G. Brunetta, Storia del cinema italiano. Il cinema muto 1895 – 1929, Editori Riuniti, Roma, 1993, p. 76.

[11] La figura mitica ed enigmatica di Thaïs, sembra ricollegabile ad una tradizione multiforme e vertiginosa di attrici e cortigiane che dall’antichità, grazie agli Acta Sanctorum, è passata attraverso il medioevo con una lunga serie di opere teatrali e letterarie sino a giungere alla contemporaneità con romanzi come il noto Thaïs (Taide, 1890) di Anatole France. Il quale, oltre ad influenzare non poco D’Annunzio e Oscar Wilde, fece da base all’omonima opera lirica di Jules Massenet in cui la protagonista è una danzatrice cortigiana nella corrotta e decadente Alessandria d’Egitto del IV sec. d.C. che dapprima viene convertita al cristianesimo dal monaco eremita Pafnuzio e poi diventa addirittura santa prima di morire. Bisogna inoltre ricordare che la pellicola di Bragaglia ha avuto un precursore filmico nella Thaïs diretta nel 1914 dagli inglesi Constance Crawley e Arthur Maude. Nonostante di tale opera non sopravvivano tracce, nemmeno un riassunto, si sa però che questo fu l’unico film diretto da Constance Crawley, morta nel 1919 a soli quarantanove anni dopo essersi ritagliata un suo spazio come attrice scespiriana. 

[12] Thaïs, anche per la sua origine alessandrina, avrebbe dovuto colpire l’immaginazione di Marinetti, nato anche lui nell’amata Alessandria d’Egitto. Viceversa, l’accoglienza del leader futurista nei confronti dell’opera bragagliana fu piuttosto fredda. Probabilmente Thaïs dovette ricordargli l’ex amante Valentine de Saint-Point (Lione, 1875 – Il Cairo, 1953), pronipote di Alphonse de Lamartine ed autrice del Manifesto della donna futurista (1912) e del Manifesto futurista della Lussuria (1913), la cui ironia e forza eversiva (««L'Umanità è mediocre. La maggioranza delle donne non è né superiore né inferiore alla maggioranza degli uomini. Sono uguali. Meritano entrambe lo stesso disprezzo», con queste parole comincia il Manifesto del 1912), seppur inizialmente esaltate ed appoggiate, gli apparvero in prospettiva una minaccia troppo grande per la sua autorità. 

[13] Pirandello si rivolse proprio a Bragaglia per un adattamento cinematografico del suo Serafino Gubbio operatore, il quale sarebbe dovuto diventare un originale esempio di «cinematografo nel cinematografo». Il progetto purtroppo però non si concretizzò, Cfr. M. Verdone, in Bianco e Nero, cit., pp. 10-11.

[14] La disumanizzazione di Serafino capace di immedesimarsi senza problemi nel ruolo della “mano che gira la manovella”, emerge quando egli ricorda che dopo aver preso la cinepresa in mano, assume subito la sua maschera d’impassibilità «Anzi, ecco: non sono più. La mia testa è qua, nella macchinetta, e me la porto in mano», L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Mondadori, Milano, 1980, p. 45.

[15] «[...] la Nestoroff è veramente disperata di ciò che le avviene; ripeto, senza volerlo e senza saperlo. Resta ella stessa sbalordita e quasi atterrita alle apparizioni della propria immagine sullo schermo, così alterata e scomposta. Vede lì una che è lei, ma che ella non conosce. Vorrebbe non riconoscersi in quella, ma almeno conoscerla», Ibidem, p. 33.

[16] Se Huysmans in A rebours (1884) e Stéphane Mallarmé in Sur le beau et l’utile (1897) avevano esaltato, rispettivamente, la bellezza della locomotiva e dell’automobile, nella succitata opera, Pirandello, attraverso la metafora del cinema, denuncia il ruolo sempre più invasivo della tecnologia: la cinepresa viene infatti descritta come un grosso ragno che divora, ingoia la vita e l’anima degli uomini, per restituirle sotto forma di un gioco d’illusione meccanica.

[17] Girato da Ginna a Firenze nell’autunno-inverno del 1916 – ‘17 con la partecipazione di una squadra rigorosamente maschile di futuristi tra cui Giacomo Balla, Bruno Corra, Emilio Settimelli e F. Marinetti il film è basato su gag comiche stranianti dai titoli bizzarri quali Scena al ristorante di Piazzale Michelangelo, Cazzottatura futurista, Come corrono il borghese e il futurista (con Marinetti che dimostrava «il passo interventista»), Come dorme il futurista e su alcuni interventi anti-naturalistici di Balla.

[18] F. T. Marinetti, A. Ginna, La cinematografia, in Teoria e invenzione futurista, pp. 214-18.

[19] In pellicole come L’arroseur arrosé (L’innaffiatore innaffiato, 1896), Arrivée d’un train à La Ciotat (L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat, 1896), la cinecamera è quasi sempre fissa e inquadra la realtà ripresa frontalmente, come se lo spettatore si trovasse davanti a un palcoscenico teatrale. In realtà, la dinamica della rappresentazione, che provoca un effetto di tridimensionalità e di durata, fa si che l’opera venga fruita come la realtà stessa; una realtà come ricorda Rondolino, che «acquisisce un rilievo “drammatico” inusitato», Gianni Rondolino, Storia del cinema, Nuova ed., Torino, UTET libreria, 2000, p.20.

[20] Marinetti ricordava che se il teatro può essere utilizzato per stimolare la partecipazione dello spettatore, le tecniche di ripresa cinematografiche rischiano di mutare quest’ultimo in un essere passivo in quanto, ad esempio, «l’abitante pusillanime e sedentario di una qualsiasi città di provincia può concedersi l’ebrietà del pericolo seguendo in uno spettacolo cinematografico, una caccia grossa nel Congo», F. T. Marinetti, Distruzione della sintassi, immaginazione senza fili, parole in libertà (1913), in Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Mondadori, Milano, 1968, p. 66.

[21] Prendendo le mosse da Kant che considera la dimensione estetica come un medium che fa incontrare sensi e intelletto (per mezzo dell’immaginazione), nonché la natura e la libertà, Friedrich Schiller individua nell’impulso del gioco quell’elemento capace di liberare l’uomo dal potere repressivo esercitato dalla civiltà e dalla natura. In realtà, anche quest’ultima, formata dallo stesso impulso (per il filosofo tedesco nella natura si manifesta un «lussureggiamento di forze e un rilassamento di determinazione, che […] si potrebbe chiamare gioco», F. Schiller, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, Roma, Armando, 1971, p.236), sarebbe liberata dalla propria brutalità e potrebbe sviluppare la piena ricchezza delle sue forme “inutili” che esprimono la «vita interna» dei suoi oggetti.

[22] Esattamente come una bambina, ad un certo punto Thaïs inizia a saltellare su un telo tenuto dai suoi ammiratori uscendo dall’inquadratura che non riesce a contenerla. Inoltre, la recitazione meccanica e stilizzata della protagonista nell’episodio finale, par quasi alludere alla “messa in scena” dell’isteria orchestrata da Jean-Martin Charcot, ossia a quelle celebri istantanee tramite cui il neurologo francese raffigurò in pose quasi teatrali le “isteriche” dell’ospedale parigino di Salpêtrière e che furono poi raccolte nella Iconographie photographique de la Salpêtrière di Bourneville e P. Regnard (in tre volumi del 1876- 80).

[23] In un articolo pubblicato su «Cronache d’Attualità» nel luglio del 1916, Bragaglia parla con entusiasmo del «vibrante corpo» di Thaïs Galitzky. G. Lista, Cinema e fotografia futurista, op. cit., p. 62.

[24] Bragaglia, nell’ottica del rovesciamento delle convenzioni del cinema divistico tradizionale in cui la diva non è altro che un oggetto passivo della manipolazione registica e dello sguardo maschile dietro la cinepresa, tende a far sparire ogni distinzione tra se stesso e Thaïs. In tal senso è interessante notare che, pur nella sua breve vita, la Novissima Film produsse anche La damina di porcellana e Justice pour femme!, opere del 1917 entrambe dirette dall’attrice, regista, sceneggiatrice e pittrice polacca Diana Karenne. Se pensiamo ai celebri film Assunta Spina (1915) di Francesca Bertini, Cenere (1916) di Eleonora Duse e Febo Mari e Bolscevismo (1923) diretto da Daisy Sylvan (ma pure ai lavori di Elettra Raggio e Giulia Cassini Rizzotto autrici, rispettivamente, di pellicole noir e commedie brillanti), scopriamo che in quegli anni vi era un bel gruppo di attrici - registe che, come ricorda Riccardo Redi, pareva volessero «impadronirsi dell’intero film», R. Redi, in Cinema muto italiano (1896 – 1930), Biblioteca di Bianco e Nero, Roma, 1999, p. 115.

[25] Bragaglia ha affidato il ruolo di Bianca a Ileana Leonidoff, un’altra esordiente di origine russa che nella vita era una vera ballerina e che divenne collaboratrice di Prampolini nei primi esperimenti di danza mimoplastica futurista.

[26] La suggestiva e allusiva somiglianza che caratterizza le due donne si esplica figurativamente con i motivi geometrici presenti nelle scenografie di alcune scene che le vedono protagoniste (in un’inquadratura il legame tra Thaïs e Bianca è simboleggiato da grandi anelli che si intrecciano sulle pareti alle loro spalle) e con gli abiti indossati (in un’occasione, ad esempio, le due compaiono entrambe vestite da cavallerizze).

[27] Si tratta del secondo poemetto del noto ciclo di cui vengono citati i versi «O vierges, ô démons, ô monstres, ô martyres,/De la réalité grands esprits contempteurs,/Chercheuses d'infini, dévotes et satyres,/Tantôt pleines de cris, tantôt pleines de pleurs…» [Femmes damnées, vv. 21-24]

[28] Tale cultura incentrata sullo studio dei misteri della natura e del cosmo, sulla riscoperta di correnti filosofico-iniziatiche come il pitagorismo, l'ermetismo, il neotemplarismo, la massoneria simbolica ed esoterica e sull’approfondimento di dottrine spirituali che l’Occidente non conosceva o aveva emarginato, era ricollegabile, ad esempio, all’interesse sulla materializzazione psichica coltivato dal circolo Lombroso a Torino e agli studi su occultismo e spiritismo sviluppati a Milano, Roma (dal gruppo capitanato dall’ebreo, repubblicano, mazziniano e anti-clericale Ernesto Nathan, sindaco della Capitale dal 1907 al 1913), a Napoli e a Firenze, la quale grazie anche a realtà come la Biblioteca Filosofica di Assagioli, divenne un importante centro di irradiazione misteriosofica in Italia.

[29] In linea con il programma di insediamento dell’uomo in un ordine originale di idee, i futuristi, che disprezzavano e avversavano accademie, professori, laboratori e gabinetti scientifici simboli della scienza tradizionale, il 15 giugno 1916 pubblicarono sul periodico L’Italia futurista il manifesto La scienza futurista (antitedesca, avventurosa, capricciosa, sicurezzofoba, ebbra d'ignoto), firmato da Oscar Mara, Arnaldo Ginanni Corradini (Ginna), Bruno Corra, Remo Chiti, Emilio Settimelli, Mario Carli e Neri Nannetti, La scienza futurista, L’Italia futurista, a. I, n. 2, 15 giugno 1916, pp. 1-2. Oggi in Manifesti futuristi e scritti teorici di Arnaldo Ginna e Bruno Corra, a cura di Mario Verdone, Ravenna, Longo, 1984.

[30] Se con la promulgazione dell’enciclica Pascendi (1907) da parte di Pio X il cattolicesimo prendeva ufficialmente posizione contro il movimento teosofico visto come una propaggine di quello modernista (la questione della teosofia fu affrontata soprattutto dai gesuiti che da tempo erano in prima linea per difendere la Chiesa dalla minaccia delle eresie contemporanee tra cui spiccavano la massoneria e lo spiritismo), un intellettuale come Giovanni Papini (che insieme a Giuseppe Prezzolini e Ardengo Soffici animava celebri riviste quali Il Leonardo e La Voce), accoglieva positivamente la diffusione del movimento teosofico perché i bisogni spirituali e religiosi riemersi dopo l’aridità razionalista del positivismo, non erano più incanalati nelle forme offerte dalla Chiesa cattolica, G. Papini, Franche spiegazioni (a proposito di rinascenza spirituale e di occultismo), in «Leonardo», V, n. 2 (aprile – giugno 1907), pp. 129 - 43.   

[31] La Società Teosofica, anche attraverso una rete politico-culturale internazionale, ebbe un ruolo molto attivo nella promozione del femminismo in Italia. La figura più rappresentativa di questo legame fu Maria Montessori, la quale, dopo aver aderito nel 1899 ai principi generali della Teosofia, fortificò il suo legame trascorrendo gli anni della Seconda guerra mondiale ad Adyar, nella sede internazionale della Società. Per approfondire le tracce dell’influenza teosofica nel pensiero pedagogico e negli scritti filosofico-femministi della Montessori, si legga il contributo di Lucetta Scaraffia, Emancipazione e rigenerazione spirituale: per una nuova lettura del femminismo in L. Scaraffia e A. M. Isastia, Donne ottimiste. Femminismo e associazioni borghesi nell’Otto e Novecento, il Mulino, Bologna 2002. 

[32] L’ucraina Helena Petrovna Blavatsky (1831-1891), che nel 1875 fondò a New York la Società Teosofica, insieme a un gruppo di persone interessate ai fenomeni medianici come il colonnello dell’esercito americano Henry Steel Olcott, assunse ben presto il ruolo di maître à penser del succitato movimento grazie anche alle sue due opere principali Iside Svelata (1877) e, appunto, Dottrina Segreta (1888). “L’occultista più importante del XIX secolo”, come veniva definita la nostra negli ambienti competenti, unendo (per prima) in un unico sistema dottrine della saggezza orientali e occidentali quali, ad esempio, il rosacrocianesimo, la teosofia medievale, le antiche religioni vediche dell’India e il buddismo tibetano, influenzò in modo pesante i movimenti politici, religiosi e sociali dei primi due decenni del XX secolo. Nel quasi inaccessibile La dottrina segreta, articolato nelle sezioni cosmogenesi, antropogenesi ed esoterismo, si approfondiscono i miti nordici e orientali della creazione e vi si introduce la suddivisione degli esseri umani in razze di differente provenienza e diversa dignità (tale tematica pare aver influenzato l’allora famoso monaco visionario Jörg Lanz von Liebenfels che nel suo Teozoologia. La scienza delle nature scimmiesche sodomite e l’elettrone divino del 1905, pericolosamente in bilico tra fantascienza e millenarismo pangermanista, dipinse lo scenario della storia come una lotta manichea tra Theozoon, l’uomo divino fornito di poteri magnetici superumani e il suo speculare semibestiale Anthropozoon, nella certezza che l’Età dell’Oro, popolata in origine da un’umanità bella e nobile, fosse degenerata nel caos della modernità a causa degli incroci tra umani e animali). Altri elementi della “Dottrina segreta” richiamano l’attenzione sui contenuti classici delle dottrine occulte: l’analogia di macrocosmo e microcosmo che risale già al padre dell’occultismo Ermete Trismegisto; una visione monistica del mondo, secondo cui tutto rimanda a un “Assoluto” che è al tempo stesso Essere e Non-Essere, associata al panteismo (tutto esiste, ogni cosa nel cosmo ha una coscienza divina e non esiste materia inanimata), in contrapposizione alla gnosi dualistica cristiana.

[33] Bragaglia, attento osservatore delle manifestazioni di condensazione psichica e studioso delle tecnologie dello spettrale (anche se si rivelò estremamente scettico sull’attendibilità scientifica di quelle ideate dai francesi Mesnard e Plomb), oltre a fare in quegli stessi anni altri due film su temi occulti come Il mio cadavere e Perfido incanto (entrambi del 1917), si occupò in alcuni articoli del 1913 della fotografia dell’invisibile e dei fenomeni medianici e diresse riviste legate a temi esoterici come La Ruota e soprattutto Cronache d’Attualità (che aveva tra i suoi collaboratori Aldo Palazzeschi, Luigi Pirandello, Grazia Deledda, Piero Gobetti, Pablo Picasso e Ardengo Soffici), la quale, nei convulsi anni 1920-22 seguiva le vicende umane e culturali di J. Evola, in crisi come pittore e teorico dell’avanguardia Dada e recensiva opere come Le parole sacre e di passo dei primi tre gradi ed il mistero massonico di A. Reghini, pubblicato dall’editore massone Atanòr (alias Ciro Alvi).

[34] Tale neologismo fu coniato da Umberto Boccioni nel suo volume Pittura e scultura futuriste (dinamismo plastico), Milano, Edizioni futuriste di «Poesia», 1914.

[35] Probabilmente anche ispirato da Mario Morasso, teorico de L’imperialismo artistico (1903) che nel 1905 aveva posto le basi dell’estetica della macchina, Marinetti affermò nel Manifesto del Futurismo pubblicato da Le Figaro di Parigi il 20 Febbraio 1909 «Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia». Il nostro più tardi scriverà «esaltiamo l’amore per la macchina, quell’amore che vedemmo fiammeggiare sulle guance dei meccanici, aduste e imbrattate di carbone. Non avete osservato un macchinista quando lava amorevolmente il gran corpo possente della sua locomotiva? Sono le tenerezze minuziose e sapienti di un amante che accarezzi la sua donna adorata», F. T. Marinetti, L’uomo moltiplicato e il regno della macchina (1910).

[36] Marinetti definisce l’economia “inferno” della macchina, dato che essa non ha nulla a che fare con l’evidenza funzionante, l’intrinseca bellezza di quest’ultima.

[37] Fedele Azari (1895 – 1939) in arte Dinamo, aviatore, inventore della pubblicità aerea e in guerra fotografo delle linee nemiche, nominato nel 1924 da Marinetti primo segretario nazionale del movimento futurista, fondò nel 1925 la Società Protezione delle Macchine tramite cui si proponeva di difendere la macchina («vitale, intelligente, sensibile, solidale, superumana») che stava svolgendo l’importante funzione sociale di eliminare la povertà e la lotta di classe. 

[38] Considerando la pace universale nemica dell’evoluzione dei popoli e più in generale della specie, il noto poeta, scrittore e drammaturgo italiano esalta la Guerra, unico avvenimento in grado di far evolvere gli uomini in esseri robotici come il figlio di Mafarka. «Soltanto la Guerra sa svecchiare, accelerare, aguzzare l'intelligenza umana, alleggerire ed aerare i nervi, liberarci dai pesi quotidiani, dare mille sapori alla vita... La Guerra è l'unico timone di profondità della nuova vita aeroplanica che prepariamo» disse a questo proposito Marinetti, Guerra, sola igiene del mondo (1915), in F.T.M., Teoria e invenzione futurista, Mondadori, Milano, 1968, pp. 286-287.

[39] Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1955), trad. di E. Filippini, Einaudi, Torino, 1966. Il saggio eponimo è nel volume del 1936.

[40] Già a partire dalla sequenza di apertura del film Thaïs si presenta con un costume e un’acconciatura in penne, fumando con un’aria sprezzante una sigaretta (un’allusione, un’anticipazione della grande bocca femminile che nella scena finale sprigiona un gas mortale) e tenendo tra le mani un fantoccio di stoffa (“Le pantin”), il quale rappresenta in miniatura sia gli uomini che ella manipolerà ed indurrà ad agire come vuole, seducendoli e distruggendoli, che il bambino che non potrà mai avere... Nel succitato filone simbolista e decadente, al fascino perverso di una insensibile femme fatale fa da contrappunto vincente una Donna-Natura solare, materna, mentre qui la protagonista viene sostituita da una donna (Bianca), che non è altro che una sua variante.

[41] A. G. Bragaglia, Perfido incanto, in “Bianco e Nero”, op. cit. p. 66.

[42] La stanza di Thaïs è anche la cabina di montaggio del film. Attività sintagmatica del cinema, come ci ricorda Roberto Nepoti «il montaggio è, prima ancora, un’attività di smembramento, una operazione chirurgica. Certo, taglia lo spazio e il tempo, ma soprattutto taglia i corpi: seziona l’immagine dei corpi e, come un mad surgeon, crea altri corpi […] Chirurgo pazzo di frammenti separati, di disiecta membra, il cinema è il dottor Frankestein, il film è la sua Creatura», R. Nepoti, Lo splatter (il montaggio) e l’imago del corpo in frammenti, in (a cura di Franco La Polla) The body vanishes : la crisi dell'identità e del soggetto nel cinema americano contemporaneo, Torino, Lindau, 2000, p. 42.

[43] Disegnati da Prampolini, tali motivi sono chiaramente simboli esoterici, ermetici, teosofici e legano tra di loro la parte dannunziana e simbolista e la sequenza finale futurista. I grandi occhi stilizzati fanno anche pensare al saggio sul perturbante di Freud e alla sua interpretazione del significato della proliferazione angosciosa di occhi nel racconto Il mago sabbiolino di E.T.A. Hoffmann, che anticipa l’iconografia surrealista che ritroveremo, grazie a Dalí, anche nella pellicola Io ti salverò (Spellbound, 1945) di Hitchcock.

[44] Bragaglia, che non partecipò alla guerra perché riformato, ne soffrì profondamente a causa delle menomazioni subite dai due fratelli: soprattutto Carlo Ludovico, il quale dopo aver partecipato a molte battaglie, si fratturò gravemente le costole e per tutta la vita dovette ricorrere a pericolose iniezioni di morfina, passategli legalmente dallo Stato. A causa di questa tragica situazione, egli fu a lungo ricoverato presso l’Ospedale Militare del Monte Celio, meritando ben due Croci di guerra, la medaglia di bronzo al valor militare e la definizione di Gran Mutilato. Leonardo Bragaglia, Carlo Ludovico Bragaglia: i suoi fratelli, i suoi film, la sua vita (1894 – 1998), Paolo Emilio Persiani Editore, 2009, p. 11

[45] La progressiva trasformazione dell’uomo in un essere meccanico, che Marinetti formulava anche sulla base del modello evolutivo di Lamarck (per quest’ultimo gli esseri viventi sviluppano il loro organismo per sopravvivere, per adattarsi all’ambiente e tramandano i caratteri acquisiti ai discendenti), è stata di recente associata al movimento intellettuale e culturale del transumanismo. Quest’ultimo, infatti, sostiene di derivare la promozione dell'uso delle scoperte scientifiche e tecnologiche per aumentare le capacità fisiche e cognitive dell'uomo e migliorare quegli aspetti della condizione umana considerati indesiderabili come la malattia e l'invecchiamento, in vista anche di una possibile futura trasformazione post-umana, proprio dagli scritti futuristi dei primi del ‘900. A tal riguardo si legga il documento Tutto il potere ai Cyborg!, in cui il Presidente dell’Associazione Transumanisti Italiani Riccardo Campa definisce il suo movimento come una sorta di “neo-futurismo”.

[46] Il primo conflitto mondiale è evocato dal regista frusinate sia attraverso i vapori velenosi e le acuminate sbarre di metallo approntati dalla protagonista nel suo gabinetto, che tramite le scenografie geometriche bianche e nere di Prampolini associabili allo stile secessionista viennese. Inoltre, anche l’eterogeneo mondo di Thaïs pare rispecchiare il cosiddetto “teatro di guerra” dove le posizioni di amici e nemici sono sovente indistinguibili, invisibili, confuse.

[47] Con Corporate o Conglomerate Banking, si intende di solito l’efficiente struttura finanziaria - industriale creata dal Sistema Bancario Internazionale e dalle proprie affiliate (acciaierie, chimica, munizioni), che nel cruciale periodo 1907 – 1914 (crisi finanziaria, intrighi a non finire intorno alla Anglo Persian Oil Company, piano di saccheggio del dissolvendo Impero Turco Ottomano, costituzione del Federal Reserve System), contribuì col volontario e prezioso aiuto di diplomazie e politici, ad alimentare nel teatro europeo quelle discordie e ostilità che portarono al devastante conflitto mondiale.

[48] Tutto l’apparato percettivo umano, ma soprattutto quello visivo, fu letteralmente modificato dalla Grande Guerra. Su questo specifico tema si veda lo studio di E. Leed, No Man’s Land. Combat and Identity in World War I, Cambridge University Press, Cambridge 1979.

[49] Sebbene i tedeschi accusarono i francesi di aver usato per primi dei proiettili carichi di gas irritante all’inizio dell’ottobre del 1914, la “guerra chimica” si fa tradizionalmente iniziare il 22 aprile del 1915 con l’attacco tedesco alla città belga di Ypres, dove le truppe francesi sprovviste di qualsiasi protezione, furono letteralmente inghiottite da una spessa coltre di cloro che provocò 15.000 gassati e almeno 5.000 morti. Furono ancora i tedeschi ad adoperare per la prima volta la famosa iprite (tioetere del cloroetano) nella notte tra l’11 e il 12 luglio 1917, mentre gli italiani si distinsero per l’utilizzo di tale gas non tanto nel primo conflitto mondiale (si pensi alla battaglia della Bainsizza e all’Undicesima dell’Isonzo in generale), quanto durante il quindicennio che va dal 1920 al 1936, in cui l’esercito fascista, tramite regolari bombardamenti, devastò interi villaggi in Libia ed Eritrea.

[50] I gas trasportati casualmente dal vento avvelenavano tanto i nemici quanto i soldati muniti di inefficaci protezioni che avevano ricevuto l’ordine di servirsene. Insieme, naturalmente, all’immagine di corpi dilaniati o sofferenti, lo spettacolo dei cadaveri col volto coperto da inutili maschere antigas, fu una delle immagini più inquietanti e censurate della prima guerra mondiale.

[51] La letteratura sull’argomento è assai vasta. Tra i testi più interessanti segnaliamo Siegfried Kracauer, Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, Edizioni Lindau, Torino, 2001 e Paul Virilio, Guerra e cinema. Logistica della percezione, Edizioni Lindau, Torino, 2002.

[52] Relativamente all’Italia, si pensi ad esempio ai numerosi cortometraggi che mostrano in modo diretto o indiretto la l’incredibile espansione industriale del Bel Paese (Macchi, Agnelli, Caproni, Isotta Fraschini, Ansaldo, Olivetti, Marelli, Breda, Tosi, Romeo, Pirelli…), a filoni cinematografici quale quello del ruralismo (cioè l’esaltazione delle tradizioni contadine) ben personificato da pellicole come Sole (1929) e Terra madre (1931) di Blasetti, e ai documentari dedicati al tema agricolo realizzati dall’Istituto Luce quali l’arcinoto La battaglia del grano (1926), La lotta per la frutticoltura, Coltivazione del grano nelle aziende semiestensive e La cerealicoltura nell’Italia meridionale: opere che, per un verso o per l’atro, erano propedeutiche alla grande guerra per la conquista di unospazio vitale” da parte dell'esercito (rurale) fascista. La rappresentazione da parte di cinema e documentari della civiltà contadina italiana novecentesca (sempre più umiliata e sconfitta dalla storia), è al centro dell’interessante saggio di Michele Guerra Gli Ultimi fuochi. Cinema italiano e mondo contadino dal fascismo agli anni Settanta, Bulzoni editore, 2010.

[53] Sempre rimanendo all’Italia, tra le più interessanti opere etno-antropologiche realizzate agli inizi del secolo passato, vi sono, ad esempio, i documentari del cosiddetto cinema missionario. Nato negli anni venti con l’intento di accreditarsi presso l’Autorità e la società civile, quest’ultimo produsse subito un documento come Italia in Eritrea (1922) che riassume molto bene i temi ricorrenti del filone: l’esaltazione delle opere effettuate a beneficio delle popolazioni locali; le attività in loco dei missionari; l’esotismo delle popolazioni indigene ritenute “barbare” e quindi da incivilire. In Terre magellaniche (1933) diretto dall’esploratore salesiano Alberto Maria De Agostini poi, le figure dei salesiani vengono addirittura dipinte come esempi di vita per gli italiani fascisti e cattolici.

[54] In occasione del 68° anniversario del bombardamento di Dresda, lo scrittore Mickey Z., ricorda che l’attacco fu effettuato per ottenere la massima devastazione e perdita di vite umane, ma anche perché la Royal Air Force e la United States Army Air Force volevano mostrare agli alleati comunisti l’efficienza della loro macchina da guerra («Qualsiasi cosa fosse organica e che potesse bruciare, fu distrutta dalle fiamme» scrisse a questo proposito il giornalista Philip Knightley). http://worldnewstrust.com/remember-the-firebombing-of-dresden-what-were-up-against-mickey-z.

[55] Baudrillard afferma che la prima guerra del Golfo come ci è stata raccontata e come molti di noi l’hanno quindi vissuta, non è mai accaduta in realtà. Il fatto che la simulazione della guerra abbia preso il posto della guerra reale vuol dire che la simulazione ha ucciso, assorbito la vecchia guerra reale. Vita Fortunati, Daniela Fortezza, Maurizio Ascari (a cura di), Conflitti. Strategie di rappresentazione della guerra nella cultura contemporanea, Meltemi, Roma, 2008, p. 341.

[56] Paul Virilio, Città panico. L'altrove comincia qui, Raffaello Cortina Editore, Collana: Minima, 2004, p. 35.

[57] Vita Fortunati, Daniela Fortezza, Maurizio Ascari (a cura di), op. cit., p.342.

[58] J. Gili, Thaïs, in Immagine. Note di storia del cinema, 2, primavera 1986, pp. 1-7.