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La nostra rivoluzione culturale

di Antonello Cresti - 05/06/2025

La nostra rivoluzione culturale

Fonte: Italicum

Intervista ad Antonello Cresti, autore del libro “La nostra rivoluzione culturale”, a cura di Luigi Tedeschi

1) Il politically correct è l’espressione culturale dello sviluppo evolutivo del capitalismo in senso autoritario. La classe dominante delle oligarchie tecnocratico – finanziarie è ormai autoreferente, non esiste alcuna dialettica di contrapposizione tra le classi sociali. Pertanto, il politically correct non si configura come una cultura che si antepone e si impone alla totalità sociale? Non è un fenomeno di trasformazione della società in cui, così come la virtualità dell’economia finanziaria si impone alla economia reale, anche la cultura non degenera in una dimensione alienata atta a creare una realtà virtuale conforme alla struttura autoritaria della società neoliberista? Il politically correct, non è una infezione dell’anima che può essere debellata da una rivoluzione culturale intesa come ritorno alle origini arcaiche della società, alla natura sociale dell’uomo?

Ritengo sia giusto indagare e contrapporsi al fenomeno del politicamente corretto e alle sue derive estreme, come il cosiddetto Woke o la cosiddetta cancel culture, non più come di fronte a una ideologia, per quanto avversa, per quanto dai tratti incomprensibili. Ma dobbiamo rivolgerci ad esso piuttosto come di fronte a una vera e propria patologia, quella che nel libro io definisco una infezione dell'anima, una malattia mentale.

Per affermare questo, che potrebbe apparire come una boutade o uno slogan, mi rifaccio all'analisi posta in atto alcuni decenni fa dal professor Theodor Kaczynski, meglio noto come Unabomber, che nel suo Manifesto contro la società tecnologica, individuava, a mio avviso, alcune caratteristiche profonde del tipo umano che solitamente rappresenta il militante per i diritti civili. Sulla base di questa sua analisi io mi sentirei di dire che il politicamente corretto è appunto una patologia mentale. Innanzitutto perché vive come discriminatorie, come insultati, parole e categorie che non hanno mai inteso avere un significato oppositivo.
Dunque, se questo è vero, il problema non è delle parole, ma di chi è stato sottoposto, certamente in maniera indotta, a questa sensibilizzazione sempre più estrema e paranoica. In secondo luogo, chi combatte per determinate minoranze di ordine sessuale o etnico è probabilmente l'unico rimasto nella società contemporanea che vive tali minoranze come inferiori. Non se lo confesserà mai, è probabilmente frutto di un suo conflitto intimo irrisolto, ma questa è la verità.

Quindi dobbiamo definire gli aedi del politicamente corretto come delle persone disturbate e come gli ultimi veri razzisti presenti nella società. Razzisti nei confronti del proprio retaggio, della propria identità certamente, ma anche nei confronti di quelle minoranze che vorrebbero difendere. Questo è il paradosso che io credo sia necessario mettere in risalto per una critica veramente radicale a questo fenomeno.

2) L’aspirazione ad una società ideale è connaturata ai miti fondativi delle religioni e all’idealismo utopistico delle ideologie. L’universalismo illuminista ha dissolto le identità culturali dei popoli, nella prospettiva di una mondo globalizzato dominato da un individualismo egualitario indifferenziato. Nel tuo libro si rivendica il differenzialismo, quale valore essenziale di una possibile rivoluzione culturale, come critica radicale alla globalizzazione in funzione della rinascita delle identità originarie dei popoli. Sulle macerie della globalizzazione, non è sorto un mondo definito come “Caoslandia”, caratterizzato cioè da un differenzialismo relativista basato su rivendicazioni etnico - razziali, settarismi religiosi e da una ideologia woke improntata al particolarismo autoreferente delle minoranze, che prefigura una mondo in cui ognuno crea il suo dio, sacralizzando se stesso? Senza valori universali riconosciuti, il differenzialismo non è destinato a trasformarsi in relativismo?

Come tu ben sai, l'idea di differenzialismo è stato uno dei contributi filosofici più ben sviluppati da parte di Alain de Benoist durante la sua carriera di filosofo e scrittore.

Io mi rifaccio alla sua teoria e ritengo che questa idea di differenzialismo sia in realtà l'unico vero antidoto verso un globalismo, verso un universalismo che in realtà di multiculturale ha ben poco. L'universalismo degli aedi del globalismo è una forma profondamente suprematista dell'Occidente che tende a livellare tutte le altre differenze. È un modello non di prevaricazione spacciato per inclusione. Io credo che di fronte ad una globalizzazione che è anticamera, incubatrice di differenze e disparità sociali ma anche creatrice di profondi meccanismi di disconnessione col senso reale delle cose noi dobbiamo contrapporre la bellezza della differenza.

Noi dobbiamo dire "viva la differenza" perché la differenza non è discriminazione. La differenza non è gerarchia. La differenza è la bellezza dei contrasti del mondo.

Contrasti che certamente vanno accettati, vanno magari affrontati dialetticamente, ma questo è l'unico incontro che io possa conoscere. Altrimenti vi è solo una caricatura utile per far trionfare il modello consumistico di mercato rappresentato dall'Occidente morente.

 3) Secondo la teoria di Christopher Lasch, il narcisismo individualista trae origine dalla decadenza dei valori comunitari, che ha generato l’«io minimo», espressione di una fragilità interiore di un uomo dedito al culto dell’immagine. In realtà, l’individualismo rappresenta una condizione esistenziale di emancipazione individuale, oppure è il prodotto di una scissione degenerativa tra l’uomo e la società in cui vive, che fa venir meno la natura sociale dell’uomo stesso? L’ideologia individualista neoliberista non è dunque il risultato di una involuzione culturale anziché di una rivoluzione? Nella società contemporanea, non si sta dissolvendo lo stesso individualismo, con l’avvento delle prospettive scientifiche transumaniste, con la fluidità dell’identità di genere dell’ideologia gender, con il mondo virtuale che si antepone alla realtà, in cui è possibile assumere infinite identità a seconda dei desideri illimitati dell’individuo? Questa dimensione nichilistica, che avvolge l’Occidente, in cui l’uomo diviene materia prima per sperimentazioni di ingegneria genetica e sociale, non costituisce l’humus necessario per una rivoluzione culturale?

Io credo che un aspetto profondo di questa ideologia neoliberista sia la sua capacità di titillare gli aspetti più inferi del genere umano. Da questo punto di vista il suo successo è comprensibile perché va in qualche maniera a spronare la parte peggiore di noi, gli istinti più bassi e quegli istinti sono quelli che poi prevalgono spesso nelle azioni delle persone. È un'ideologia che non eleva a nessun livello, a differenza di altre ideologie della storia che per quanto controverse, per quanto alla fine magari deleterie, hanno sempre ambito alla creazione di un uomo nuovo, con lo sguardo teso verso l'alto.

Il capitalismo vuole la disgregazione dell'uomo, vuole la sua riduzione a homo consumans, a pura macchina consumatrice e da questo punto di vista il legame con quel narcisismo che Christopher Lasch aveva ben individuato è chiaro. Siamo in una dinamica in cui per usare le parole di Baudrillard ciascuno crea il brand di se stesso, ma questi brand sono chiaramente simulacri vuoti, non sono personalità, non sono individualità e quindi qua sta l'aspetto veramente demoniaco dell'ideologia del nostro tempo.

Occorre riappropriarsi di una dimensione comunitaria che certamente non neghi l'individuo, anzi lo comprenda, però solo in rapporto all'altro da sé, a un sistema di riferimenti che è più ampio. Questo è l'unico modo per concepire un individuo veramente realizzato.
Il capitalismo è fatto passare come l'ideologia del trionfo dell'individuo (pensiamo a ciò che scriveva Ayn Rand)

Io non credo che sia vero, credo che possa essere semmai il trionfo di una malintesa idea di individualismo. Anche questo credo che sia qualcosa che debba essere detto a chiare parole.

 4) Il declino della globalizzazione ha generato la riviviscenza di uno spiritualismo diffuso, che nel contesto dell’avvento del mondo multipolare assume particolare rilevanza, quale rivendicazione culturale – identitaria dei popoli contrapposta all’unipolarismo occidentale americano. Certo è che la visione di un mondo esclusivamente spiritualista è destinata al fallimento, in quanto si tramuterebbe in una estraneazione dalla realtà storico – sociale del nostro tempo. Tuttavia, la fine della globalizzazione non rappresenta anche il tramonto delle ideologie laiciste occidentali? Lo spiritualismo, non si contrappone alla politica, ma semmai ne costituisce la sua ragion d’essere. In assenza di miti unificanti, qualsiasi comunità statuale non risulta inconcepibile? Il sorgere di Stati – Civiltà del mondo multipolare non ce ne offre la conferma? Una civiltà, con i suoi valori spirituali, culturali, etico – religiosi, non assume una identità storico – politica nel momento in cui da luogo alla costituzione di uno o di una pluralità di stati? Senza il paradigma di una civiltà identitaria come può sussistere uno stato? Una qualsiasi rivoluzione culturale non scaturisce proprio da questa contraddizione, che è la causa efficiente dell’esito finale e fallimentare della globalizzazione?

Il capitalismo in questa sua fase assoluta sta attraversando oramai un livello di disconnessione dalla realtà mai vissuto nelle epoche passate.

Adesso si parla chiaramente di transumanesimo, cioè si parla dell'oltrepassamento della dimensione di uomo per come l'abbiamo concepita nel corso di millenni di civiltà. Di fronte a una simile ipotesi è chiaro che non basta un tipo di opposizione radicata nella convinzione politica. Occorre anche una dimensione spirituale, occorre anche una motivazione di ordine trascendente perché se qualcuno vuol fare scomparire nella più brutta materia l'esistenza umana, occorre che dall'altra parte si riscopra tutti quei legami sottili che in realtà sono centrali nella nostra esistenza.

Dunque la battaglia contro l'ideologia del nostro tempo è anche spirituale. Però, come spiego bene nel libro, questa dimensione spirituale deve essere vissuta come bagaglio interiore, non come strategia complessiva e totalizzante, perché se diviene tale allora si è spesso e volentieri in balia di guru improvvisati e di slogan che sono incapacitanti. Il bagaglio spirituale deve essere un punto di forza individuale, non deve essere il punto di arrivo di una battaglia che evidentemente deve essere condotta con altri metodi.

Quindi noi dobbiamo essere consci di questa dimensione trascendente senza farci inghiottire da essa. Dobbiamo in qualche maniera cavalcare la tigre, per usare l'espressione cara a Julius Evola.

 5) Il mito della gioventù ha sempre assunto una importanza vitale per la continuità e l’evoluzione di ogni comunità umana. Il giovanilismo, che rappresentava un elemento di rottura  - continuità con il passato e la tradizione, è ormai scomparso in una società caratterizzata dal venir meno del rinnovamento generazionale. In ogni attività, sia politica che culturale il ruolo dei giovani e minimo se non assente. L’Occidente non è soggetto ad un processo di progressiva decomposizione nella misura in cui non è più in grado di trasmettere alle giovani generazioni i propri valori culturali e la propria memoria storica? Nel contesto del sistema neoliberista, al mito giovanilista, non si è sostituito l’infantilismo di masse dedite al consumo compulsivo dei bisogni indotti, di generazioni che, private delle passioni e degli impulsi dell’età giovanile, si rivelano anche incapaci di divenire adulte? Senza giovani e senza adulti sarà mai possibile una rivoluzione culturale?

Quella che io definisco scomparsa della gioventù è evidentemente uno dei temi più caldi, più rilevanti nell'analisi della società del nostro tempo.

Cosa indico con questa espressione così forte? Indico che oramai la gioventù è divenuta esclusivamente una dimensione anagrafica, peraltro protratta ad infinitum. E' scomparsa l'idea che la gioventù debba innanzitutto incarnare uno stato dell'essere, cioè quella fase della propria vita in cui anche in maniera magari incosciente, magari arrogante, uno si percepisce come padrone totale del proprio destino, anche se vogliamo come artefice della storia. Questo punto è centrale perché il primo ostacolo che noi dobbiamo trovare e superare è quello che ha posto l'uomo in una dimensione di spettatore di fronte ai processi della storia.

Questa falsificazione va ribaltata. Le persone sono protagoniste della storia, ne sono il motore, ne sono l'avanguardia. Sempre è stato così e sempre sarà.

Dunque dobbiamo uscire da questi miti incapacitanti che hanno relegato alla passività tante persone. Ma per uscirne evidentemente è necessario che in prima istanza siano i giovani a liberarsi da questo incantesimo, da questo maleficio. Noi abbiamo bisogno del loro essere propulsivo, del loro essere avanguardia.

E guarda caso questa scomparsa della gioventù avviene proprio in un'epoca in cui il giovanilismo è ai massimi livelli. Si tratta di pura operazione retorica che in realtà nasconde una società che ha distrutto i giovani attraverso i processi di precarizzazione a vari livelli. Ebbene, noi dobbiamo creare, ambire a creare una nuova società.

Prima ancora dobbiamo risvegliare i giovani. I giovani devono essere il motore di questa rivoluzione culturale.

 6) In questa fase storica si rileva una deriva degenerativa dell’area sovranista – popolare, che potrebbe vanificare le prospettive di una rivoluzione culturale. L’area sovranista infatti sembra essere stata inglobata nelle contrapposizioni conflittuali in atto negli USA tra l’area liberal – dem progressista e quella repubblicana – conservatrice trumpiana. In Europa tali conflittualità si sono riprodotte nella politica interna degli stati. La UE infatti è divenuta parte integrante dell’Occidente americano. Si sa, il sistema tende ad assorbire nelle sue dinamiche interne il dissenso, al fine di generare gli anticorpi necessari alla sua sopravvivenza. Il sovranismo non si sta dunque trasformando in un fenomeno di dissenso interno al sistema? Non si avvertono inoltre, a seguito della repressione messa in atto dalle oligarchie europee (vedi i casi di Romania, Germania, Francia, Moldova), i sintomi di una progressiva deriva totalitaria e di guerre civili latenti, scaturiti dallo stato di avanzata decomposizione in cui versa l’Occidente, che peraltro coinvolge lo stesso sovranismo?

La parola sovranismo, come tutte le parole che sostanzialmente sono categorie giornalistiche, non mi provoca particolari entusiasmi.

Anche perché quando la sento dire magari la associo al volto di Salvini o di altri figuri con i quali vorrei avere poco a che fare. Per questo noi, e qui parlo come esponente di un movimento politico che è Democrazia Sovrana Popolare, abbiamo coniato una teoria più specifica che è quella del sovranismo popolare, che è una teoria complessiva nella quale il mio libro rappresenta la forma di strategia culturale. Ecco, noi riteniamo che questa teoria sia l'unica possibile e che sia l'unica anche talmente corazzata da non cadere nelle forme di controversia che tu anche correttamente poni nella tua domanda.

Cos'è il sovranismo popolare? Certamente è il recupero del principio secondo cui la democrazia appartiene letteralmente al popolo, è la rivendicazione integrale dell'articolo 1 della Costituzione italiana. Ma io mi spingerei a dire che è l'unico processo di liberazione possibile a livello globale, cioè il nostro auspicio è che tutti i popoli del mondo possano intraprendere il medesimo percorso di liberazione dalle tecnocrazie oggi imperanti. E solo realizzando questa sorta di internazionalismo sovranista, se così vogliamo definirlo, allora veramente avremo ribaltato un mondo che si racconta come pacificato e che invece è continuamente percorso da conflitti indotti.

Noi dobbiamo portare veramente la collaborazione e la cooperazione tra popoli diversi, che si riconoscono come tali ma che hanno un interesse comune a favorire il proprio popolo e quindi favorendo il proprio popolo è difficile che si facciano danni all'altro. Questo è un meccanismo che è bene spiegare, perché spesso questa idea sovranista viene raccontata come una forma di personalismo, come una forma di primazia nei confronti di qualcuno e verso l'altro. Non è così, è un principio di mutua assistenza partendo da ciò che siamo: solo sapendo ciò che siamo noi siamo in grado di favorire anche l'altro.