La scienza nuova ha già trecento anni
di Marcello Veneziani - 13/04/2025
Fonte: Marcello Veneziani
Tre secoli fa, giusto nel 1725, venne alla luce La scienza nuova ma restò al buio per lunghi anni. Passò inosservata, incompresa, e il suo autore Giambattista Vico, che lavorava all’opera già da anni e che avrebbe continuato a lavorarci per altri vent’anni fino alla fine dei suoi giorni, ne ebbe tanto a soffrire.
Eppure la scienza nuova è l’opera principale che ha partorito il pensiero storico-filosofico italiano nei suoi sette secoli di lingua italiana; come Il Principe è il capolavoro del pensiero politico, la Divina Commedia è il sommo poema della letteratura e I Promessi sposi sono il romanzo italiano per eccellenza.
La scienza nuova fu la prima visione generale della storia dell’umanità nelle sue epoche e nel loro svolgersi, fin dalle origini; la prima opera sul diritto naturale e universale delle genti; la prima concezione di una scienza nuova che radunava in una sintesi grandiosa anche se confusa e non semplice da decifrare, il mito e la religione, la poesia e la fondazione del linguaggio, il pensiero e la fantasia creatrice, l’arte e la letteratura, in un affresco storico e metastorico senza precedenti. Una visione fondata sul ritorno e concepita attraverso la spirale, in cui la circolarità della concezione storica degli antichi si sposava con la linearità progressiva della storia cristiana e moderna; la storia non tornava mai indietro ma ricorreva in cerchi aperti ed evoluti. Ma erano possibili anche ricadute, come la “barbarie” rinnovata dopo la civiltà. Facile perdersi nei suoi labirinti, e nel suo periodare erudito e involuto, anche se qua e là scintillano folgorazioni, si scoprono come perle detti memorabili, intuizioni che avrebbero nutrito interi trattati.
E dire che nessuno tre secoli fa volle pubblicarla, quell’opera, neanche il suo sponsor cardinale, quel Corsini che poi diventò Papa, e che aveva promesso a Vico di editarla ma poi si tirò indietro. Sicché la Scienza nuova uscì rimaneggiata a spese dell’autore, per contenere i costi di stampa. L’autore, povero in canna, con una famiglia numerosa a carico e un modesto stipendio da professore di materia secondaria, andò a impegnarsi allo strozzino il gioiello di famiglia, un anello, per pagarsi la stampa dell’opera. Ma nonostante lo sforzo e il sacrificio fu un buco nell’acqua, anche nelle edizioni successive, arricchite, integrate, guarnite di una maestosa “dipintura” che ne spiegava il senso tramite i simboli. Lui, l’ominarello che insegnava retorica all’università di Napoli, bocciato nei concorsi, deriso per le strade e nei salotti, isolato dalla società letteraria del suo tempo, angustiato da troppi travagli famigliari, ritentò più volte la fortuna, ma non riuscì mai a cambiare la sorte.
Ma l’opera poi circolò nel tempo, fu tradotta, studiata e molte sue intuizioni furono carpite da autori anche grandi, che non sempre avevano l’onestà di citare la fonte ispiratrice.
Vico oppose l’Europa mediterranea, latina, cattolica e romana, all’Europa nordica, protestante, calvinista, cartesiana, poi illuminista. Oppose il sentire comune delle genti alla boria dei dotti, alla barbarie rinnovata dei circoli intellettuali e il loro razionalismo elitario, sprezzante verso l’ oscurantismo popolare; contrappose l’esperienza della storia, il certo e il realismo, l’autorità derivata dalla tradizione, al primato della ragione, all’individualismo e poi allo scientismo. Non sognò di tornare al Medioevo e nemmeno al tempo della Controriforma; immaginò invece un’altra modernità, e una scienza nuova, che non rinnegava, anzi gioiva, per le nuove scoperte e invenzioni ma le integrava in una visione umanistica, saldamente ispirata dalla religione e dal mito.
Vico era considerato troppo cattolico e clericale dai cartesiani, poi dagli illuministi e infine dai giacobini della sua Napoli contemporanea e postuma; e troppo umanista, cultore della romanità, dei classici e delle civiltà precristiane e uomo di scienza per essere accolto in Chiesa come defensor fidei e come chierico devoto. La sua “teologia civile e ragionata” della storia universale, benché illuminata dalla Provvidenza divina, non parlava di Creazione né di Rivelazione ma si teneva sul versante dei fatti, della storia, della genealogia e dell’antropologia, praticava il senso della realtà e delle sue certezze, e dichiarava inconoscibile il vero, comunque inaccessibile per l’uomo.
Vico non è solo il padre del pensiero italiano moderno, quella concezione spirituale fondata sulla storia e la tradizione, romana e cristiana, sul senso comune e il diritto naturale, ma è anche il padre di un’altra via alla modernità. Nel saggio Contro l’illuminismo, lo storico delle idee israeliano Zeev Sternhell indica in Vico “il pioniere della cultura antilluministica”, a partire dalla Scienza nuova; il primo anello dell’antirazionalismo e dell’antiintellettualismo. “Il primato della tradizione, dei costumi e dell’appartenenza a una comunità culturale, storica e linguistica è stato proclamato da Vico” prima di ogni altro pensatore moderno. L’uomo non inventa di sana pianta la società, ma è frutto di quella pianta, delle sue relazioni e dei suoi legami. Dopo di lui verranno Edmund Burke e Johann Herder, ma al culmine di quella rivolta contro l’illuminismo, Sternhell vede Friedrich Nietzsche e quindi nel Novecento il pensiero della rivoluzione conservatrice. Curiosa deviazione di percorso; da noi Vico è il capostipite di una linea che poi assume direzioni diverse da Croce a Gentile a Gramsci ai cattolici come Sciacca e Del Noce.
Nell’interpretazione cattolica di Vico, espressa per esempio dal tomista, giurista e studioso della napoletanità, lo spagnolo Francisco Elias de Tejada, Vico è teologo della storia; per Sternhell, invece, Vico è il capostipite di una linea che fonda la linea nazionale e comunitaria contro l’universalismo, il cosmopolitism e l’internazionalismo. Di recente anche uno studioso americano come Mark Lilla, si è occupato di Vico come di un pensatore conservatore. In realtà non si può ridurre Vico a una dimensione politica, e tantomeno storico-ideologica. Il suo è un pensiero teologico e antropologico, storico ed estetico, che spazia nei saperi e non si lascia imprigionare in un versante ideologico. La sua eredità fu disseminata su molti versanti – e la sua vocazione non fu quella di prender partito. Ma quel che ancora colpisce è la vitalità del suo pensiero che riemerge periodicamente, come un fiume carsico nutrito di corsi e ricorsi (per esempio in Hannah Arendt, Isaiah Berlin, James Hillman, solo per citare tre recenti “vichiani”). Possiamo anzi dire che trecento anni dopo, la Scienza nuova sia ancora nuovissima, anche perché intentati furono i suoi insegnamenti.