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Malinconia o beatitudine? L'enigma della solitudine

di Stenio Solinas - 25/06/2021

Malinconia o beatitudine? L'enigma della solitudine

Fonte: Il Giornale

L'idea che l'uomo solitario fosse di per sé un uomo malinconico è il risultato e insieme il pregiudizio di quella che si suole definire l'età barocca. Il suo principale propagandista fu un pastore anglicano, Robert Burton, che nel 1627 pubblicò The Anatomy of Melancholy, un testo che, con alterne fortune, è arrivato sino ai nostri giorni (ancora lo scorso anno, sia Marsilio sia Bompiani lo hanno riproposto). Burton segna un po' il punto di svolta di un pensiero che fino a meno di un secolo prima aveva avuto in Montaigne il più convinto assertore della solitudine come pregio: «La più grande cosa del mondo è saper stare con sé stessi». Rispetto a questo illustre predecessore, Burton era soprattutto un erudito: la cultura era sterminata, la profondità di pensiero modesta. Come osserva Aurelio Musi nel suo Storia della solitudine (Neri Pozza, pagg. 176, euro 17), «il risultato accumulato dalla summa enciclopedica sul tema, l'immenso materiale trasmesso dall'antichità classica al Rinascimento» si trasformò nella sua opera «nell'inquietudine barocca fra ipocondria e paranoia». Per combattere al meglio «la malinconia collettiva», ovvero l'insoddisfazione sociale, Burton accarezzò l'idea, scrive Musi riprendendo un giudizio di Jean Starobinski, del «disciplinamento ferreo della vita comune attraverso il governo e il controllo rigido dell'autorità. Il caos malinconico si rovescia così in organizzazione persecutrice». All'idea utopico-totalitaria di gestire «le vite degli altri», che a partire dalla Rivoluzione francese del 1789 raggiungerà il suo culmine nelle dittature novecentesche, la postmodernità ha ora sostituito una società di massa iper-tecnologizzata quanto super-controllata dove i social media offrono la compensazione illusoria di un interscambio immediato e continuo, sempre e comunque in presa diretta. Illusoria perché, come scrive Musi, l'altro da sé è soltanto «una pura proiezione dell'io, una creazione narcisistica a sua immagine e somiglianza. Lo stato di solitudine come separazione e isolamento affettivo si aggrava: il risultato è solo un ancor più solitario e separato ripiegamento narcisistico». Ciò spiega anche l'incredibile venir meno di concetti quali identità, memoria, coscienza storica, la cui scomparsa lascia il posto a un mondo fatto di frammenti che traggono la loro ragion d'essere dall'eterno presente di chi gira loro intorno. Sotto questo aspetto «il selfie è la rappresentazione allo stato puro del narcisista solitario. Si fotografa o si lascia fotografare vicino a una scultura fino a costo di provocare danni all'opera che gli interessa meno come prodotto artistico e assai più come attestato della sua compresenza con un essere inanimato». Tornando un attimo a Burton, ciò che questi coglieva solo in parte era che quel sentimento nero e austero cui si dà appunto il nome di malinconia, era qualcosa di più e di diverso della semplice tristezza, qualcosa di distante eppure di non diverso dalla semplice felicità, una visione della vita, più che uno stato d'animo, una condizione spirituale. Era stato l'umanesimo rinascimentale a far sì che genio e malinconia riemergessero dalle acque profonde in cui l'età cristiana aveva precipitato la seconda separandola dalla prima. «La malinconia prepara il bagno del Diavolo» aveva sentenziato Lutero alla fine di un percorso in cui l'abbinata fra il Signore delle Tenebre e lo spirito malinconico aveva attraversato il mondo a passo di carica. È Marsilio Ficino a dare a quell'abbinata dignità filosofica, è il genio di Dürer, con la sua Melencolia I, a farne un paradigma della creazione: è fonte di ispirazione, ma ha come prezzo l'inquietudine. Dietro lo splendore della mente lo spirito malinconico avverte insomma il campo dell'inconoscibile e dell'ignoto, sente l'insensibilità del tempo, l'inanità degli sforzi. Nel giro di un secolo avviene quel passaggio da sentimento a malattia che è l'oggetto della speculazione di Burton: la società recupera ciò che la religione aveva sanzionato secoli prima, ma lo fa laicamente: il malinconico non è un uomo di genio, è un uomo diminuito, un pazzo nei casi estremi, nella norma un poveraccio. Il '700 perfezionerà diagnosi e terapia e quel che è venuto dopo è in fondo sotto i nostri occhi Proprio perché l'opera di Burton segna un po' lo spartiacque fra il prima e il dopo, la Storia della solitudine di Aurelio Musi risulta ancora più interessante nel suo colto aggirarsi per la classicità greca e poi romana, per meglio cogliere come e quanto quel concetto si sia sviluppato e caricato di senso. Schematizzando, il primo elemento da considerare, specie per il mondo greco, è quello relativo alla polis, in cui la solitudine è sublimata nella comunità, nell'unità fra il singolo e la collettività. La solitudine è insomma una condanna e/o un'esclusione, qualcosa che ha a che fare con la volontà degli dèi o con le leggi della città. Può riguardare la solitudine dell'eroe così come quella dell'uomo greco. Fra i tragici, è però Euripide a fare della solitudine esistenziale una condizione umana, non una deviazione né un'espiazione. Il mondo romano opera uno scarto rispetto a quanto appena detto, perfettamente consono del resto a un orizzonte mentale dove l'elemento metafisico è marginale. La romanità rifugge l'empireo, cerca una risposta all'ora e al qui. L'umanesimo ciceroniano, scrive Musi, «si distacca dalla cultura greca perché la via dell'esilio e della fuga dal mondo e dalla vita pubblica non è più indotta dal dramma del destino, ma dalla delusione prodotta dall'immersione totale nell'impegno politico e dai danni che essa ha provocato nella vita fisica e psichica». Per certi versi la romanità spogli l'esistenza delle speculazioni filosofiche che la grecità le aveva costruito intorno e la riconsegna a una realtà più fragile e insieme più coerentemente umana. Se Seneca esalta la solitudine interiore, Orazio e Tibullo ne temeranno l'angoscia e la nevrosi che essa può comportare. Tutti però hanno come ultima possibile risorsa il suicidio, che ha più a che fare con la libido vivendi che non con la libido moriendi. Musi lo definisce «l'effetto estremo della solitudine» e insieme «la conseguenza definitiva della considerazione prevalentemente negativa della solitudine», il che è un po' contraddittorio, visto che il suicidio a Roma era percepito «come estrema affermazione del gusto di vivere». È perché amavano la vita che i romani si uccidevano, sublime controsenso e extrema ratio del più solitario e definitivo degli atti.