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Medici e pazienti in Italia: Il Piano Nazionale del Governo di Ripresa e Resilienza

di Marcello Austini - 11/10/2020

Medici e pazienti in Italia: Il Piano Nazionale del Governo di Ripresa e Resilienza

Fonte: Italicum

Ci siamo fatti un giro sulle linee guida del “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR)”, documento approvato dal CIAE - Comitato Interministeriale per gli Affari Europei – il 15 settembre 2020, e ne abbiamo, purtroppo, ricavato un quadro desolante, sconfortante e sconcertante di ciò che “quelli bravi” denominano come sistema Italia.

Le predette linee guida del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) rispondono alla proposta della Commissione europea, intitolata Next Generation EU (NGEU) che è stata approvata dal Consiglio Europeo il 21 luglio 2020. Next Generation Europe che in definitiva altri non è se non il più conosciuto e rinomato “Recovery Fund”.

Tale proposta, così come il Bilancio 2021-2027 dell’Unione, è attualmente al vaglio del Parlamento Europeo per poi essere ratificata dai Parlamenti nazionali. I regolamenti attuativi del nuovo strumento NGEU, non entreranno in vigore prima dell’inizio del 2021. Solo da quel momento sarà possibile presentare ufficialmente i “piani nazionali di ripresa e resilienza” (PNRR) alla Commissione europea.

Da quanto appena detto, emerge un primo elemento di criticità. Quello legato, innanzitutto, alla tempistica. È facile presagire/presumere che la pretesa “potenza di fuoco” del Governo (si pensi al decreto liquidità dello scorso aprile e alla misera fine che ha fatto) e delle Istituzioni europee, è destinata a naufragare. Per noi, oltre che per motivazioni più generali e tecniche, anche per questioni e ragioni legate alla tempistica. Come anticipato, tutto l’iter di approvazione normativa (parlamento europeo e nazionale), quello di presentazione dei progetti alla Commissione Ue, appare lungo, stucchevole, dilatorio e, pertanto, non rispondente ai veri bisogni degli operatori economici, della gente, che si trova a vivere in un momento post pandemico di grande difficoltà.

 

Il quadro Italia

 

Ma procediamo con ordine e passiamo ad esaminare per sommi capi, il quadro desolante che dell’Italia emerge dal documento del CIAE.

Dopo un’analisi di facciata, sempre più rarefatta e sempre più trita e ritrita dei punti di forza dell’economia e della società italiane (l’Italia è un’economia avanzata a spiccata vocazione manifatturiera ed uno dei principali Paesi esportatori europei”, “i prodotti del Made in Italy sono apprezzati in tutto il mondo, al pari della cultura e del patrimonio paesaggistico, artistico e archeologico del nostro Paese”) si passa alle dolenti noti, a tutti quegli elementi di negatività presenti in pressoché tutti i settori che, per stessa ammissione del Governo, relegano l’Italia agli ultimi posti nel contesto europeo.

 

E qui, è bene sottolinearlo, non contano classifiche di merito, vere o presunte vanaglorie nazionali, perché a pagare veramente il conto di anni di incapacità, di lassismo, di inefficienza, di malafede, è e sarà esclusivamente il Popolo italiano nella sua generalità, il suo tessuto economico nella sua interezza.

Secondo il dato ufficiale del Governo, l’Italia, soffre, infatti, “di un’insufficiente crescita economica, acuita dalla crisi finanziaria globale del 2008 ed ancor più dalla crisi del debito sovrano dell’area euro nel 2011”. Ciò ha avuto “ripercussioni negative sul benessere dei cittadini e sulle disuguaglianze sociali”. Dai primi anni del duemila, “la crescita del PIL è risultata nettamente inferiore alla media dei Paesi avanzati, in corrispondenza di un basso incremento della produttività”.

Il basso incremento della produttività spiegabile almeno in parte, “da gap tecnologici ed educativi”. Ad esempio, la spesa per ricerca e sviluppo è inferiore alla media UE; “i risultati scolastici misurati da test internazionali sono inferiori alla media dei Paesi OCSE e UE, così come lo è la quota di popolazione in possesso di un titolo di studio terziario (27,6 per cento contro 41,3 per cento nell’UE), mentre l’incidenza dell’abbandono scolastico si attesta a 13,5% contro il 10,6% della media europea”. Un forte impatto negativo è stato dato anche dal calo degli investimenti fissi lordi (IFL), specie di quelli pubblici scesi di quasi un punto percentuale in rapporto al PIL dal 3 per cento nei primi anni 2000 a poco sopra il 2 nell’ultimo triennio”.

Inoltre, “il tasso di partecipazione al lavoro e il tasso di occupazione dell’Italia sono i più bassi dell’UE ad eccezione della Grecia”. Sono molto elevati “il tasso di disoccupazione giovanile (31,1 per cento nella rilevazione di luglio 2020) e la percentuale di giovani che non studiano né lavorano (22,2 per cento nel 2019)”.

Questi dati economici, hanno influito sulle dinamiche demografiche: il tasso di natalità è sceso fortemente dagli anni settanta in poi e negli ultimi anni è stato pari a 1,29 figli per donna, uno dei valori più bassi dell’Unione Europea. L’Italia ha, inoltre, la popolazione più anziana dell’UE e il rapporto più elevato fra spesa pensionistica e PIL.

Il debito pubblico dell’Italia è il secondo più elevato dell’UE in rapporto al PIL dopo la Grecia”. Secondo le previsioni, a fine 2020, subirà un incremento di oltre 20 punti percentuali, e ciò, principalmente, a causa della pandemia.

 

IL PIANO DI RILANCIO DEL GOVERNO

 

Il Piano di rilancio è stato elaborato a conclusione di un’intensa fase preliminare di analisi e studio, durante la quale il Governo si è avvalso del contributo del Comitato di Esperti in materia economica e sociale coordinato da Vittorio Colao. Lo scorso 12 giugno il Comitato ha consegnato al Presidente del Consiglio un ampio Rapporto intitolato “Iniziative per il Rilancio - Italia 2020-2022”, accompagnato da 102 schede di approfondimento.

Il Piano di Rilancio del Governo è basato intorno a tre linee strategiche: 1) Modernizzazione del Paese; 2) Transizione ecologica; 3) Inclusione sociale e territoriale, parità di genere.

Delineate queste linee strategiche che già di primo acchito appaiono alquanto fumose, autoreferenziali e di dubbio valore pratico, il documento, si spertica in dichiarazioni di facciata, si incentra su misure spot, su elementi farraginosi e ripetitivi (esempio l’inflazionato utilizzo del termine “resilienza” nel documento) in quelli che possiamo definire, al più dei desiderata. Il tutto poi, declinato rigorosamente al futuro ed anche non troppo prossimo.

Come quando si auspica la modernizzazione, attraverso l’efficienza, di una Pubblica Amministrazione “digitalizzata, ben organizzata, sburocratizzata ed al servizio del cittadino”. Peccato però che in questi anni il trend sia stato proprio l’esatto contrario: con una privatizzazione sempre più marcata ed un depotenziamento di importanza e di operato della stessa P.A.. Ugualmente dicasi per quel che concerne l’innovazione, la promozione della ricerca, l’utilizzo di tecnologie volte ad incrementare la produttività dell’economia e la qualità della vita quotidiana.

Stesse considerazioni si possono formulare per quel che riguarda la transizione ecologica, che a detta del Governo e delle Istituzioni europee, dovrà rappresentare la base del nuovo modello di sviluppo su scala globale, attraverso la riduzione drastica delle emissioni di gas clima-alteranti in linea con gli obiettivi del Green Deal europeo; il miglioramento dell’efficienza energetica delle filiere produttive, degli insediamenti civili e degli edifici pubblici, nonché la qualità dell’aria nei centri urbani ecc.. Nell’ambito di tali politiche, il Governo auspica corposi interventi di rimboschimento sul territorio.

Peccato che questo animus “verde ed ecologista”, mal si concili con anni di abbandono del territorio, della sua flora, con un’inesistente politica di difesa ambientale, in cui si inquadra, tra l’altro, l’avvenuta cancellazione del Corpo Forestale dello Stato. Prova ne sono i troppi e continui disastri idro-geologici.

L’esecutivo auspica una riconversione industriale (“l’Italia deve diventare produttrice di beni e servizi coerenti con la transizione ecologica”, come ad esempio, la produzione di materiali ecocompatibili, la fornitura di tecnologie per la gestione dei rifiuti urbani e industriali, la conversione all’elettrico del settore automobilistico) di dubbia o difficile realizzazione, almeno per l’immediato.

Tra le misure spot, figura quella di investire nella “bellezza” dell’Italia attraverso il rafforzamento della tutela dell’immenso patrimonio artistico, culturale e naturale. Anche qui, purtroppo, dobbiamo invece registrare politiche di abbandono di detto patrimonio, di incuria, di mancate conservazioni e valorizzazioni, inoltre, anche questo obiettivo contrasta con la recente effettiva realtà e con le misure irrilevanti o addirittura non prese, in periodo di lockdown, ma non solo.

Per ciò che attiene la terza linea strategica individuata, quella dell’inclusione sociale e territoriale che per il Governo vorrebbe dire “ridurre le diseguaglianze, la povertà e i divari, che impediscono a tutti i cittadini di partecipare pienamente alla vita economica, sociale e culturale e di godere di un tenore di vita e di un benessere considerati accettabiliappare evidente il fine puramente dichiarativo e di facciata di tali finalità, così come quelle che mirerebbero a “garantire un livello più uniforme di accesso all’istruzione e alla cultura, con particolare riferimento alla conoscenza degli strumenti digitali”.

Una chicca è rappresentata, poi, dal fatto che il miglioramento dell’inclusione richiede il rafforzamento del sistema sanitario. 

Peccato, però, che in questi anni, complici le scelte liberiste e le politiche di austerity imposte anche dall’Europa, il nostro sistema sanitario abbia subito un drastico ridimensionamento sul piano delle risorse, per usare un eufemismo.

In particolare, dal 2010 al 2018, in media annua, la spesa sanitaria pubblica è aumentata solo dello 0,2 per cento e il numero di posti letto è diminuito dell’1,8 per cento. Si è ridotta anche la spesa per investimenti delle Aziende Sanitarie, scesi da 2,4 miliardi del 2013 a poco più di 1,4 nel 2018. La modesta crescita della spesa sanitaria è dovuta principalmente alla diminuzione del personale sanitario. Nel periodo 2012-2018, con riguardo al solo personale a tempo indeterminato, il comparto sanità ha fatto registrare una riduzione di 25.808 unità. L’Italia dispone di circa 40 medici ogni 10 mila residenti, inferiori a quelli della Germania, 42,5 ogni 10 mila residenti; ancora più sfavorevole è il confronto Italia-Germania riguardo al personale infermieristico: 58 contro 129 per ogni 10 mila residenti, rispettivamente.

Di seguito, tanto per non farci mancare niente, ancora dei dati ufficiali, che hanno come fonte, il nostro Istituto di statistica (ISTAT) e che evidenziano l’opera di smantellamento del nostro sistema sanitario nazionale in corso o già attuata. Dati che nella loro negatività lasciano esterrefatti.

 Nel corso degli anni è anche diminuita notevolmente l’offerta di posti letto ospedalieri: nel 1995 erano 356 mila, pari a 6,3 per 1.000 abitanti e nel 2018 sono scesi a 211 mila, con 3,5 posti letto ogni 1.000 abitanti. A titolo di confronto, si consideri che in Germania l’offerta di posti letto è quasi tripla: 8 ogni 1.000 abitanti!

Anche l’assistenza territoriale, che è una tipologia di offerta più capillare e ruota attorno alla figura del medico di medicina generale, ha subito un ridimensionamento. Nel 2018 il personale addetto alle cure primarie ammontava a circa 43 mila medici di medicina generale e 7.500 pediatri di libera scelta, con una diminuzione, rispetto al 2012, di 2.450 unità per i primi e 157 per i secondi. Ed ancora, le strutture gestite dalle Asl, che erogano l’assistenza clinica specialistica e diagnostica strumentale, sono complessivamente 5,8 ogni 100 mila abitanti, secondo il dato del 2017, con una diminuzione dalle 6,4 del 2009, mentre le strutture gestite dal privato in regime di convenzione con il SSN sono 8,8 ogni 100 mila abitanti, laddove nel 2009 erano 9,7. Infine, nel corso degli anni, si è osservata una riduzione dell’assistenza ambulatoriale: nel 2017, sono state effettuate 1 miliardo e 257 milioni di prestazioni, il 6,5 per cento in meno di quelle effettuate nel 2009. Il tutto, conviene osservare, è avvenuto in un Paese dove la popolazione anziana - ossia la componente naturalmente più propensa ad esprimere una domanda in ambito sanitario - si è accresciuta, tra il 2002 e il 2019, di 3,1 milioni di ultrasessantacinquenni, più della metà dei quali ultraottantenni (1,8 milioni). Ma poi è arrivato il Covid…. .

 

 

 

LE REAZIONI DELL’EUROPA E LE RACCOMANDAZIONI DEL CONSIGLIO EUROPEO

La Commissione europea ha specificato che i contenuti ed i principi ispiratori dei Piani nazionali (PNRR) dovranno basarsi su direttrici comuni quali quelli della contribuzione alla transizione ambientale; quello della resilienza e sostenibilità sociale; quello della transizione digitale, dell’innovazione e della competitività.

Le priorità sono state identificate negli investimenti in campo sanitario, nel sostegno al reddito dei lavoratori colpiti dalla crisi, nella liquidità delle imprese (in particolare le piccole e medie imprese) e nelle misure volte a sostenere una ripresa simmetrica e a salvaguardare l’integrità del Mercato Unico.

A fronte di queste priorità comuni, si dovranno affiancare quelle derivanti dalle Raccomandazioni specifiche allo Stato membro, pubblicate a maggio con il Pacchetto di Primavera e successivamente approvate dal Consiglio Europeo, che all’Italia richiedono di adottare, nel 2020 e nel 2021, provvedimenti volti ad attuare quanto appena sopra illustrato.

Ma contrariamente alle azioni di sostegno che l’Europa sembrerebbe apparentemente elargire a causa della crisi sanitaria, la Commissione UE ha comunque evidenziato la perdurante necessità di mantenere alta l’attenzione sulla correzione degli squilibri macroeconomici. Ciò, che al di là delle belle parole di Bruxelles, rimane agli Stati Membri è la necessità di affiancare le nuove priorità (Raccomandazioni del 2020) a quelle fissate dalle Raccomandazioni del 2019 che la Commissione considera ancora rilevanti ai fini della risposta di policy agli squilibri macroeconomici, ad esempio, dell’Italia. Raccomandazioni che ritengono essenziale che l’azione del Governo sia sempre orientata a politiche di bilancio prudenti e alla sostenibilità del debito.

A detta della CGIA di Mestre che tiene conto dei dati Istat, la crisi provocata dall’emergenza sanitaria dovuta al COVID, oltre ai danni economici che stanno sotto gli occhi di tutti, potrebbe far aumentare in maniera vertiginosa il numero dei lavoratori in nero.

Secondo le previsioni del nostro istituto di statistica, circa 3,6 milioni di addetti rischiano di perdere il lavoro entro la fine dell’anno in corso. Il fenomeno, che è trasversale, colpirà non solo il lavoro dipendente, ma anche quello autonomo. 

Tanto premesso, le prospettive non appaiono incoraggianti, atteso che ci si può verosimilmente attendere un aumento dell’occupazione irregolare (lavoro precario, in nero, ed abusivo).  Le retribuzioni saranno generalmente più basse - rispetto ad una situazione normale - con una conseguente riduzione di spesa per le famiglie in genere. Il lavoro non sarà più tutelato, in quanto non vi sarà alcun tipo di copertura previdenziale e assicurativa per il lavoratore.  Dall’altra parte, lo Stato vedrà pregiudicate le proprie entrate fiscali e contributive.

Ebbene, proprio quelle raccomandazioni del 2019 dell’Europa all’Italia, di cui abbiamo già fatto cenno, andranno, guardate un po’, proprio a “colpire” queste voci.  La raccomandazione n. 1, dovrebbe, negli intenti, oltre ad assicurare una riduzione in termini nominali della spesa pubblica primaria netta, utilizzare le entrate straordinarie per accelerare la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL; ridurre le agevolazioni fiscali e riformare i valori catastali non aggiornati. Quest’ultima misura, pertanto, porterò un evidente aggravio delle imposte sulla casa e immobiliari in genere. La raccomandazione prosegue con le azioni di contrasto all’evasione fiscale – potenziamento dei pagamenti elettronici obbligatori - ma soprattutto, contiene dettami volti ad attuare pienamente le passate riforme pensionistiche al fine di ridurre il peso delle pensioni di vecchiaia. La raccomandazione n.2, mira, invece, proprio ad Intensificare gli sforzi per contrastare il lavoro sommerso.

Ma al riguardo va detto che proprio l’economia sommersa, unitamente all’attitudine tutta italiana al risparmio, il fenomeno diffuso della casa di proprietà, la presenza di una certa “economia contadina” ancora esistente, le pensioni dei nostri nonni, sono stati, per molti, un salvagente a cui aggrapparsi, un paracadute che ha evitato situazioni di disagio e di miseria vera. Esiste, in definitiva, un esercito di occupati che, pur essendo sconosciuti al fisco e all’Inps, si sostiene, produce ricchezza e permette al nostro Paese di andare avanti. Sino ad ora.

 

Se proprio volessimo trovare dei punti un minimo qualificanti del documento del Governo, sin qui (sommariamente) analizzato, questi possono essere rappresentati da quelli relativi alla promozione della ripresa del tasso di natalità e crescita demografica; quello dell’incentivazione del trasferimento o riorganizzazione in Italia di attività svolte all’estero (reshoring, fenomeno opposto a quello della delocalizzazione) e quello sulla riforma della tassazione delle multinazionali, incluse quelle digitali. Per tale aspetto, l’obiettivo sarebbe quello di arrivare, finalmente, ad un accordo politico sulla modifica dei criteri di allocazione internazionale della base imponibile societaria, al fine di ridurre le possibilità di profit shifting delle imprese multinazionali e sull’introduzione di un livello minimo di tassazione effettiva delle stesse.

Tutti punti, che al di là delle “nobili” dichiarazioni di facciata, appaiono di dubbia o quanto meno difficile realizzazione.

 

Ma torniamo, per concludere, alle risorse per l’Italia e alla “tempistica” poste dall’Europa, aspetti su cui occorre tornare a riflettere.

 

QUADRO DELLE RISORSE DISPONIBILI PER L’ITALIA

 

 

Il Governo valuta che le risorse della Recovery and Resilience (RFF) che dovrebbero essere messe a disposizione dell’Italia sono assai rilevanti, essendo stimate pari a 191,4 miliardi. Per quanto riguarda le sovvenzioni, sulla base dei dati economici rilevanti per la prima fase del programma e delle previsioni macroeconomiche della Commissione per il 2020 e 2021, l’Italia riceverebbe fino a 63,8 miliardi complessivi. In base al livello del RNL nel 2018, l’ammontare dei prestiti dovrebbe arrivare invece a oltre 127 miliardi.

La Recovery and Resilience (RRF) verrà divisa in due fasi. La prima, pari al 70 per cento dell’importo totale a disposizione, dovrà consistere in progetti da presentare al più tardi nel 2022.  Le relative risorse dovranno essere impegnate sempre entro il 2022.

La quota di sovvenzioni che riceverà ciascuno Stato membro, dovrà riflettere le condizioni economiche nella fase precedente alla pandemia, oltre al livello della popolazione. Le due variabili economiche principali sono il PIL pro capite e il tasso di disoccupazione.

Viceversa, l’ammontare dei prestiti è funzione del livello del Reddito Nazionale Lordo (RNL) e non potrà superare il 6,8 per cento di tale variabile secondo i dati 2018 nell’arco temporale di tutto il programma.

Considerato che i piani nazionali (PNRR) come sopra definiti definitivi verranno presentati ad aprile 2021 e i primi milestones si riferiranno a giugno 2021, la RRF di fatto diventerà operativa nella seconda metà del 2021. La decisione del Consiglio, tuttavia, prevede che sulla base dei programmi presentati, gli Stati membri possano richiedere un anticipo per il 2021 pari al 10 per cento stimato dell’importo complessivo di sovvenzioni e prestiti previsti per la prima fase della RRF.

Nella seconda fase del programma, il restante 30 per cento delle sovvenzioni verrà allocato secondo una formula che riflette la caduta registrata dal PIL dei Paesi membri nel 2020 e la variazione complessiva registrata nel 2020-2021. Il calcolo si baserà sui dati Eurostat (l’istituto di statistica europeo) che saranno disponibili a giugno 2022. I fondi relativi alla seconda fase dovranno essere impegnati entro il 2023. I programmi di spesa finanziati dalla RRF dovranno essere completati entro il 2026.

Il documento non dimentica ed anzi sottolinea che “i prestiti erogati all’Italia dalla Commissione Europea, se non compensati da riduzioni di altre spese o aumenti delle entrate, contribuiranno ad accrescere il deficit della PA e l’accumulazione di debito pubblico”.

Per quanto sopra espresso e al di là di ogni ragionevole dubbio sulla giustezza e legittimità dei “programmi” varati o da intraprendere, resta emblematico, cervellotico nonché inattuale il cronoprogramma che la Commissione, in definitiva, ha posto. Una tempistica ed un cronoprogramma che non tengono minimamente conto della crescente crisi e delle esigenze vere di imprese e cittadini.

Come dire, che “mentre il medico studia ed elabora, il paziente ci lascia la pelle”.