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Nipponica (anche i tombini delle fogne in Giappone rispondono a un canone estetico)

di Eduardo Zarelli - 20/06/2019

Nipponica (anche i tombini delle fogne in Giappone rispondono a un canone estetico)

Fonte: Diorama letterario

Il Giappone ha perso? Kaizen (改善) è la composizione di due termini giapponesi, kai (cambiamento) e zen (buono, migliore), e significa cambiare in armonia con ciò che si svolge, compiersi. Per un occidentale, è difficile comprendere l’estraneità dei giapponesi alla lingua inglese, atteggiamento che non nasce per approssimazione, ignoranza o pregiudizio. Si tratta di un’irriducibile appartenenza culturale, dato che il simbolismo degli ideogrammi racchiude il senso del loro formalismo linguistico. L’inglese è il passepartout per essere ovunque, il giapponese è il modo di comunicare l’esclusività della differenza.

Un episodio, negli scorsi mondiali di calcio, si è involontariamente dimostrato capace di rappresentare l’originalità di questo Paese. La nazionale è uscita sconfitta agli ottavi di finale, perché ha provato a vincere senza risparmiarsi fino agli ultimi istanti di gioco; i commentatori hanno rimarcato l'ingenuità di chi poteva addormentare quel finale di partita, mentre i giocatori sì sonno immolati lealmente nell'agone, indipendentemente dall'esito, quindi perdendo nei fatti. In realtà, andrebbe colta la purezza di quell'agire, inintelligibile al pragmatismo occidentale. Ma il più è accaduto dopo. Gli stessi giocatori nipponici, dopo la partita, hanno ripulito gli spogliatoi dello stadio di Rostov e li hanno restituiti lindi come alla consegna, lasciando un biglietto su cui era scritto con grafia incerta, in russo, «spassiba», grazie, quasi a rompere nel dettaglio una perfezione altrimenti innaturale. Indifferente alla secolarizzazione, la purificazione interiore, sia dei corpi che dei luoghi, è un’identificazione intima con le forze (kami) della Natura nel compiersi di ogni azione culturale. I kami hanno un lato benefico (nigimitama), che aiuta gli uomini a realizzarsi, mentre il loro lato distruttivo (aramitama) va affrontato e placato con i rituali. È una lezione di stile, in ultima analisi, che offre però lo spunto per un ragionamento più ampio.

Ancora nel primo Novecento, Alexandre Kojève fu uno dei pensatori della “crisi” a evidenziare che la lettura deterministica della storia – il venire meno di ogni conflitto nella civilizzazione occidentale – avrebbe comportato una regressione animale dell’individuo. Il materialismo pratico avrebbe via via indebolito la volontà di «fare storia» fino a decretarne la «fine». Lasciamo stare, ora, la questione se la storia sia “chiusa” o “aperta”; l’aspetto interessante, nel contesto di questa argomentazione, è che Kojève abbia rimarcato come il Giappone già dalla fine del feudalesimo fosse pervenuto a uno “stato stazionario”, che impedisce l’abbrutimento edonistico dell’essere umano. I giapponesi avevano incarnato il ritualismo nella loro forma di vita, facendo del culto dei piccoli gesti quotidiani la loro natura. Avevano in qualche maniera incorporato – ritualizzandolo, e quindi riattualizzandolo – il significato dell’agire e dell’onore, pur perdendone la consapevolezza: la cerimonia del tè, l’arte della disposizione dei fiori, le arti marziali, la scrupolosità artigiana, le forme teatrali del Kabuki e del Nô, erano “senso”, anche se il loro significato originario era perduto. Antonio Lucci, in un bellissimo racconto di viaggio nel "Paese del Sol levante", scrive che l’onnipresente cemento nudo, tra le sale del museo dedicato al filosofo D.T. Suzuki nella città di Kanazawa, invece di opprimere il visitatore con la propria brutale fisicità, smaterializza gli spazi, con il quadrato di acqua all’esterno adibito a spazio per pensare: «In una solitudine tanto naturale quanto urbana (sembra che l’alternativa natura/cultura qui non abbia preso piede, lasciando spazio a una natura culturale, che trova la propria massima espressione nei giardini giapponesi), proprio laddove, tra mura di cemento grigio, sembrerebbe incarnarsi l’incubo moderno della prigionia nell’epoca del tardo capitalismo, ci si trova paradossalmente liberati dal proprio peso, dal peso del proprio Sé» (1).

Michel Random, quando fu invitato da Yukio Mishima a incontrarlo nella sua casa, rimase colpito dal fatto che somigliasse a una razionale abitazione occidentale. Alquanto stupito da questo scenario – appartenente a un personaggio che rappresentava emblematicamente, nei suoi stessi contrasti, le virtù dell’animo giapponese – gliene chiese la ragione; Mishima sorrise e rispose: «Qui, solo l’invisibile è giapponese». Scrive quindi l’intervistatore: «Non credo di aver trovato sino a oggi un’espressione tanto efficace per descrivere nel modo migliore l’animo stesso del Giappone» (2).

Il sacro e il profano si confondono nei templi shintoisti, così come nei complessi buddhisti, in cui lo spazio interno e lo spazio esterno non si contrappongono, così come il dualismo natura/cultura: il bosco, gli animali fanno parte del tempio, lo rappresentano e ne sono rappresentati. Questo ci consente forse di comparare la religiosità pagana di Stonehenge, dei dolmen e dei templi greco-romani, dove alla verticalità – che sarà poi della trascendenza monoteistica – si pone invece la valenza simbolica della soglia. Un torii, il tradizionale portale di accesso al contesto sacro, è appunto una soglia senza mura tra lo spazio del culto e lo spazio mondano, sincronicamente sempre viva e attiva. La stessa prossemica, il portamento, le tecniche del corpo e la tensione formale di ogni comportamento nella cultura giapponese tendono all’equilibrio di forze, alla distribuzione dei pesi, tra il pieno e il vuoto, tanto concrete ed efficaci quanto estatiche. Apice ne è il sakura, il momento rivelatore dello spirito giapponese; nella sfioritura dei ciliegi a primavera c’è tutto il mistero della mirabile impermanenza della bellezza, il senso sacro della vita e della morte emblematicamente indifferente ai dualismi (noumeno e fenomeno), alla dialettica e alla dicotomia occidentale tra l’Essere e il nulla, che permea di sé le manifestazioni fondamentali di tutta la cultura giapponese: la storia, l’economia, la poesia, la religione, l’arte e la politica. In altri termini, la chiave interpretativa risiede nel fatto per cui ciò che non è detto, né espresso, né scritto, è la vera forza, la vera sorgente nascosta di quella “sottile” energia che tutto attraversa, per giungere al compimento di ogni cosa. Un Popolo pronto a piegarsi sotto il peso della neve, ma in attesa del tempo del disgelo e della primavera, del recupero della stazione eretta.

Chiunque abbia avuto l’occasione di visitare il Giappone in maniera non superficiale o di approfondirne l’antropologia e la cultura, avendo come retroterra la prospettiva occidentale, l’utilitarismo individualista e la decadenza di ogni principio etico condiviso, resta usualmente stupito dal fatto che un Paese ultramoderno e integrato nel sistema mondo capitalista sia capace, nei comportamenti individuali e nel suo vivere associato, di una cura, un senso civico, un rigore e un’armonia di originale bellezza. Anche il decoro nel vestire non è di ostentazione narcisistica, così come la molteplice estetica delle divise – dalle scuole di ogni grado e ordine fino ai molteplici ruoli di mestiere, con annessi guanti bianchi – per pensarla come Dino Buzzati, rappresenta nella formalità una società, in cui lo spirito di servizio è un rimando olistico non soppiantato dall’individualismo: il trapasso del ritualismo nella quotidianità, la sua sintesi – inconsapevole, ma evidente all’occhio estraneo dell’osservatore – nel costume di un Popolo. Una continua intenzione del singolo a sentirsi in obbligo con la comunità, nella perfezione dell’opera realizzata.

Caso unico al mondo nella storia contemporanea, il Giappone ha affrontato mutamenti ed eventi radicali senza mai perdere la propria identità. Non esiste un altro Paese che in 150 anni sia cambiato così rapidamente, passando da feudale arcipelago isolano a potenza coloniale in pochi decenni, dalla seconda metà dell’Ottocento, quindi a forza imperiale capace – per prima – di sconfiggere nel Novecento una potenza “bianca” (la Russia degli Zar). In meno di cinquant’anni, da belligerante sconfitto – in un olocausto nucleare – nella seconda guerra mondiale, è diventato avanguardia tecnologica mondiale; eppure, l’Imperatore è ancora sul trono e i discendenti dei feudatari, che nel 1868 avviarono, per pressione esterna statunitense, la modernizzazione del Paese (periodo Meiji), continuano ad amministrare lo Stato e a gestire un’economia che ha di fatto, nella partecipazione e nello spirito associativo di mutua assistenza tra i produttori, il valore aggiunto e la integrazione sociale, che sacrifica volutamente i margini di profitto sull’altare della piena occupazione. A dispetto degli sconvolgimenti registrati, qui nessuna rivoluzione di classe o guerra civile ha scalfito l’orgoglioso eccezionalismo insulare, l’arcaica impostazione sociale e l’omogeneità della popolazione. Neanche ora che si presenta un significativo decremento demografico, frutto della modernità, viene meno la volontà di mantenersi ancorati all’origine, nel contesto della competizione globale e il confronto geopolitico internazionale, con l’ascesa della Cina e il presunto disimpegno degli Stati Uniti (protettori interessati delle vitali rotte commerciali nel Mar del Giappone), che pare scuotere l’indolenza e il ripiegamento economicistico su di sé dell’intero secondo dopoguerra. Una storia nazionale come flusso continuo, che non contempla palingenesi o strumentali rinnegamenti; offrendo al «barbaro» la faccia conveniente (tatemae), per sé custodendo l’intimo, autentico pensiero (hon’ne), a guardia dell’armonia (wa), bene supremo. Con i dovuti distinguo e le giuste cautele comparative, non è improprio evocare il cosiddetto “modernismo reazionario”, o “rivoluzione conservatrice”, paradigma interpretativo che non si annulla né si riduce alla sua declinazione politica. Un sentimento che nasce dalla consapevolezza che, finito il “mondo di ieri”, quello che si prefigura non ne è la continuazione sotto altre forme, ma la sua negazione, e necessita quindi preservare ciò che merita di essere salvato, perché riguarda la visione della realtà che caratterizza una cultura. Si pensi al simbolismo del santuario di Ise (Ise-jingū) nella prefettura di Mie, il più sacro dello scintoismo – preserva lo specchio della dea del sole Amaterasu – che ogni venti anni viene demolito e poi ricostruito, ritualizzando il mutamento nella continuità.

Il Giappone è pertanto elemento di interesse più generale in merito alla questione centrale del nostro presente, che prende la forma culturale e politica del contrasto tra i “globalitaristi” e gli identitari. L’egemonia mondiale della forma capitale si determina in un liberalismo di massa, che eradica frontiere e appartenenze ponendo il cosmopolitismo apolide tecnomorfo come “fine della storia”: l’individualismo edonistico funzionale. Alla luce di quanto sopra esposto, cosa ci indica la realtà nipponica, in merito, cioè in una democrazia di libero mercato, ma strutturata socialmente su un impianto organico e una esplicita identità etnoculturale?

L’interessante storia del Giappone mostra come le ideologie liberiste abbiano imprigionato per molto tempo il pensiero economico in pregiudizi nei confronti di quei Paesi che hanno deciso di non seguire il criterio di sviluppo occidentale intrapreso dalle nazioni a economia avanzata. La vivace crescita dell’economia giapponese a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso ha infatti dimostrato come sia stato possibile, per questo Paese – grazie al primato della capacità produttiva e della conoscenza applicata – divenire la seconda forza industriale dopo gli Stati Uniti e il terzo esportatore mondiale dopo gli Stati Uniti e la Germania, nonostante la scarsità di terra coltivabile e la quasi totale mancanza di materie prime e di fonti energetiche essenziali. Si parla in questo senso di qualità dell’orgware, per cui il problema non è verificare se per il commercio internazionale sia migliore una strategia protezionistica o una libero-scambista – poiché, come pensava l’originale economista tedesco Friedrich List, ogni sistema economico dovrebbe perseguire il proprio sviluppo nella maniera a esso più adatta – ma valutare la qualità e l’integrazione sociale dell’economico. L’alta qualità dell’orgware giapponese determina l’efficiente atteggiamento dell’intrapresa nei confronti degli obiettivi di breve, medio e lungo periodo – favorendo il lungo, al contrario delle imprese occidentali, votate all’immediatezza della finanziarizzazione – e il suo comportamento nei confronti delle altre industrie all’interno dello stesso sistema economico, nel quale si privilegia il benessere del sistema a discapito di quello privato, in caso di conflitto tra impresa e interesse generale. Le relazioni di tipo partecipativo e di fiducia tra le imprese e l’accesso al credito determinano un coinvolgimento della sfera morale personale delle parti contraenti, dalle quali la qualità e il servizio vengono considerati non un interesse opportunistico, bensì un dovere e una responsabilità morale collettiva. Di conseguenza, non è strumentale, bensì coessenziale che l’economia politica giapponese ponga la piena occupazione come esigenza primaria dell’interesse generale del Paese.

L’indebitamento giapponese è un problema? No. Il Giappone ha il 236% del debito/PIL e un deficit/PIL al 10%: numeri, che porrebbero sotto scacco speculativo qualsiasi economia integrata nello scambio valutario e finanziario internazionale. Come può allora, il decisore politico, permettersi di alimentare la spesa pubblica, pur convivendo con parametri di indebitamento tra i più alti al mondo? Perché, rispetto alla Grecia o a un qualunque Paese della “Eurozona”, ad esempio, ha due fondamenti “sovranisti” non negoziabili: il monopolio politico dell’emissione monetaria e la protezione del debito pubblico da parte dei cittadini e degli investitori interni che ne detengono la totalità. Il Giappone non è soggetto ad alcun attacco speculativo; mai ha dovuto pagare interessi speculativi ai “mercati”, per convincerli a comprare i suoi titoli del debito pubblico; mai ha conosciuto il problema del così detto spread; anzi, il tasso d’interesse ha seguito molto da vicino il tasso “direttore”, quello sancito dalla sua Banca Centrale. Ciò significa che è la banca d’emissione – e non i “mercati” – a decidere quanto pagare di interesse sul suo debito pubblico. È lo Stato che subordina le banche, non il contrario. Non c’è speculazione, non c’è “austerità” indotta e gli investitori internazionali fanno a gara per procurarsi dei buoni del tesoro giapponesi, che rendono modestamente, ma con indiscussa affidabilità.

Il decremento demografico giapponese è un problema? Relativamente. Nel 1868, prima del rinnovamento Meiji – durante i tre secoli di pace illuminata dello shogunato Tokugawa – in Giappone vivevano in completa autarchia 30 milioni di abitanti. La vertiginosa modernizzazione successiva portò la popolazione, nel primo Novecento, a 70 milioni di persone, costringendo l’Impero a convertirsi in potenza coloniale in un’età di aggressivi imperialismi, con l’obiettivo di procurarsi le risorse per l’impetuosa industrializzazione. In seguito alla tragica sconfitta nella seconda guerra mondiale, il Giappone ha proseguito il medesimo obiettivo, ma in forma mercantile, sotto l’egemonia mondiale statunitense, raggiungendo i 127 milioni di abitanti. Nel 2016, il numero di nascite è sceso sotto il milione di unità, per la prima volta dall’inizio delle rilevazioni nel 1899. Con tali percentuali, si prevedono circa 100 milioni di residenti nel 2053, con un’aspettativa di vita che dovrebbe salire per gli uomini a 84,95 anni (da 80,75 nel 2015) e per le donne a 91,35 anni (da 86,98). Le politiche giapponesi, però, non intendono riempire le culle vuote con l’immigrazione: il primo obiettivo è quello di migliorare il tasso di natalità portandolo a 1,8 figli per donna in età fertile.

Il numero di richiedenti asilo in Giappone è cresciuto dell’80%, nel 2018. Delle 19.628 domande presentate nel 2017, solo 20 sono state accettate dalle autorità. Il numero di persone in cerca dello status di rifugiato è in aumento, negli ultimi anni, anche grazie a un sistema che permette ai richiedenti asilo di ottenere un visto valido per lavorare durante il periodo (sei mesi) in cui vengono esaminate le loro richieste; anche nel caso in cui il visto non venga convalidato, si ha la possibilità di ripresentare la domanda e dunque di continuare a lavorare legalmente, ma senza possibilità di vedere riconosciuta la propria condizione. L’attuale governo prevede di creare una nuova categoria di visti di cinque anni, attraverso i quali il Giappone riceverà entro il 2025, tramite selezione delle domande, 500mila lavoratori. I nuovi arrivati potranno essere accolti esclusivamente in funzione della richiesta reale di manodopera nei settori di assistenza infermieristica, agricoltura, edilizia e cantieristica. In assenza di concorrenza selvaggia di immigrati pauperizzati privi di diritti, il mercato del lavoro è regolamentato e le retribuzioni sono tra le più alte nel mondo; inoltre, per mantenere un’occupazione elevata, la produzione non viene delocalizzata e si inibisce l’importazione di merci a basso prezzo. Il settore industriale giapponese – in competizione con le multinazionali globali – è capofila mondiale nella metalmeccanica, nei trasporti, nell’energia, nell’automobile, nell’aerospaziale, nella robotica, nel navale, nell’elettronica, nell’informatica, nelle biotecnologie, nella chimica, nella farmaceutica, nell’agroalimentare.

L’altra via, per i residenti stranieri, è il rigoroso sistema di istruzione. Da un decennio è a regime un ambizioso progetto per attrarre 300mila studenti stranieri entro il 2020, onde garantire al Giappone un adeguato grado di conoscenza, confronto e applicazione a livello internazionale. Ci sono ora in Giappone più di 260mila studenti stranieri, molti dei quali provengono – così come accade per i lavoratori esterni – dai Paesi asiatici, con cui il Giappone intende sviluppare un’area di integrazione nell’Asia-Pacifico, ma la soluzione al problema della mancanza di manodopera ha preso una via strategica strutturale: l’automazione del lavoro seriale. Sinora, la maggior parte delle aziende giapponesi ha fatto poco ricorso a procedimenti o macchinari elettronici finalizzati esplicitamente a ridurre l’intervento umano ripetitivo, ma da qualche anno questa tendenza sta cambiando. Non è un caso che la crescita contro-recessiva dell’economia degli ultimi mesi, più che all’aumento della domanda privata, sia dovuta agli investimenti pubblici mirati e agli investimenti aziendali nell’innovazione tecnologica applicata.

Detta analisi fattuale si intreccia con il contesto geopolitico internazionale e con un giudizio di valore critico, che va ovviamente aggiunto in merito all’incedere della surmodernità. Il Giappone potrebbe abbandonare questa strategia solo in presenza di un irrealistico collasso demografico che lo portasse a 40 milioni di abitanti, oppure se una potenza ostile occludesse le vie di comunicazione, con un dominio militare dei mari che lo circondano. Nel primo caso, avremmo una irenica autarchia perfetta, ma oggettivamente “fuori dalla storia”; nel secondo, un aperto conflitto militare. Le attuali politiche della Casa Bianca – consapevolmente o meno – paiono destinate a rimettere in discussione l'intero sistema di potere creato dagli Stati Uniti in seguito alla seconda guerra mondiale, e quindi alla fine della Guerra fredda, in Europa e in Asia così come nel Medio Oriente e nel Pacifico, tanto da rendere tangibile la tesi apparentemente velleitaria, secondo cui “l’Impero americano” – indisposto al confronto internazionale paritetico – ingenera contraddizioni insanabili e, paradossalmente, il cedimento del suo dominio. La difficoltà degli Stati Uniti nel mantenere nelle proprie mani l’egemonia mondiale va di pari passo all’affermarsi della potenza cinese, con il Giappone chiamato a modificare il suo approccio subalterno e refrattario maturato dal secondo dopoguerra. Il Paese oscilla tra un appartato nichilismo e una repressa aggressività, di cui gli Stati Uniti vorrebbero avvalersi strumentalmente in funzione anticinese. Sarebbe auspicabile, invece, una terza via autocentrata, neutralista, di responsabilità difensiva e indipendenza continentale, per un equilibrio mondiale multipolare.

Potrebbe essere inteso in tale tendenza anche il recentissimo accordo commerciale tra l’Unione Europea e il Giappone. La Germania e la Cina hanno a loro volta aumentato i legami commerciali nel tentativo di alleggerire la pressione dei dazi statunitensi, così come si sono intensificate le complesse relazioni tra la Russia e lo stesso Giappone (si pensi al progetto di costruire un ardito ponte ferroviario tra l’isola russa di Sakhalin e l'Hokkaido, l’isola più a Nord dell’arcipelago giapponese). Vi è anche una storica significativa ripresa dei rapporti tra il Giappone e la Cina, culminata con la visita del presidente del consiglio Abe a Pechino, che il presidente Xi Jinping intende ricambiare il prossimo anno. Svariati gli accordi pattuiti in tale occasione, compresa una adesione condizionata del Giappone al piano strategico cinese per lo sviluppo infrastrutturale lungo una “Nuova Via della Seta”, fortemente invisa agli Stati Uniti, che vorrebbero invece coinvolgere il Giappone nel progetto concorrente “indo-pacifico” per contenere l’influenza cinese. Il “suprematismo” degli Stati Uniti indurrà l’Europa e l’Asia a concepire di comune intesa un mondo plurale, di contro all’unilateralismo occidentale e al colonialismo informale che ancora lo caratterizza? In tal caso, la profondità inconscia del Paese del “Sol Levante” e il suo retroterra spirituale sarebbero nella condizione di emanciparsi dal titanismo economico e dalla prosaicità mercantile ponendo il bene comune, la reciprocità, la riduzione di scala, la resilienza e la sostenibilità ecologica come valori planetari e irrinunciabili principi di orientamento politico della propria orgogliosa identità culturale. Il retroterra delle divinità nipponiche è il fondamento per un nuovo paradigma oltre la modernità: la qualità non deve essere mai ridotta a quantità, la compiutezza dell’Essere non è quella dell’avere.

Note

1)     Antonio Lucci, Giappone: riti contro la fine della storia, Doppiozero, 2017.

2)     Michel Random, Giappone. La strategia dell'invisibile, Luni, 2015.