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Noi e i talebani

di Umberto Vincenti - 24/08/2021

Noi e i talebani

Fonte: La Fionda

Noi, gli occidentali; ma soprattutto inglesi, americani, francesi, tutte potenze coloniali o (il riferimento è agli USA) neo-coloniali. Nell’Ottocento l’Inghilterra provava più volte a mettere gli afghani sotto il suo giogo imperialista; ma non ci riusciva. Nel Novecento ci hanno provato Russia e, poi, gli USA, con motivazioni diverse e false dichiarazioni funzionali a coprire la volontà di occupazione che potremmo definire come più ci piace, neo-coloniale o, alternativamente, imperialista.

 Sgombriamo il campo da un possibile equivoco perché taluno potrebbe essere tentato di accomunare in una prospettiva del genere anche noi italiani. Nei fatti l’Italia non ha mai contato nulla in quei territori da cui siamo stati praticamente assenti fino a quando, una ventina di anni or sono, gli USA ci comandavano di mandare i nostri militari per rendere più internazionale, e più neutra, la forza di occupazione: abbiamo semplicemente obbedito e non potevamo fare altro, anche perché i trattati li avevamo pur sottoscritti e c’eravamo impegnati (traendone, naturalmente, dei vantaggi).

 Sicché la responsabilità dell’Italia è marginalissima per quanto concerne l’occupazione e tutte le decisioni che ne sono conseguite. Ma siamo responsabili, anche se sempre un po’ meno degli altri più pronti, e attrezzati, a curare i loro interessi (nazionali), perché ci siamo uniti al coro cantante la bellezza dei diritti, il loro naturale carattere assoluto, la loro vocazione universalista, anzi il loro indiscusso universalismo.

 Forse in Italia si è anche creduto, e si crede, in questa narrazione. Ma si tratta di una narrazione, nobile e feconda in Occidente (che ha la storia che ha, cioè la sua propria), alla cui base vi sono delle scelte di ordine politico; e queste possono essere condivise o meno, condivise in toto oppure in parte ecc.  Chiariamoci le idee andando alla matrice, cioè alla Dichiarazione di indipendenza americana del 4 luglio 1776, di cui è autore Thomas Jefferson. Ebbene, leggiamo che quegli illustri rappresentanti delle tredici colonie nord americane credevano che gli uomini avessero certi diritti fondamentali: «Truths to be self-evident» sì; però la premessa sta in quel «We hold», cioè reputiamo, riteniamo, crediamo.

 È un discorso di verità: l’avvocato Jefferson era professionalmente abituato al conflitto competitivo delle opinioni e per questo gli doveva essere quasi naturale pensare che anche i diritti corrispondessero a un’opinione (in cui egli afferma di credere, anche se, occorre aggiungere, Jefferson, come tutti i Padri Fondatori, era proprietario di moltissimi schiavi).

 I diritti, non dovremmo dimenticarcelo, sono dunque il prodotto di un’opzione politica e sono stati inventati, conformati, positivizzati dal pensiero occidentale, anzi europeo. Qualche decennio prima della Dichiarazione americana Montesquieu aveva licenziato le sue Lettere persiane: nel serraglio di Ispaha – egli fa scrivere a Fatima, la moglie di uno dei due protagonisti, Usbek – le donne erano tenute come schiave («inutile ornamento di un serraglio, custodita per l’onore e non per la felicità del suo sposo!»), ma erano appagate perché convinte che il marito fosse l’unico uomo «al mondo che meriti di essere amato».

 Varrebbe la pena di rileggere questa lettera VII delle Lettere montesquieviane: il barone descrive bene la differenza tra occidentali e orientali con la cifra dell’ironia e non si capisce poi se Fatima fosse veramente felice di questa sua condizione, anche perché il suo stato d’animo è descritto da un campione dell’illuminismo. Noi possiamo, però, constatare che, ironia o meno, in Afghanistan la condizione delle donne non dovrebbe essere – o risultare – tanto diversa nella prospettiva dei Talebani.

 Noi, quelli dei diritti dell’Occidente, li possiamo criticare, ma è un fatto che loro, probabilmente anche una parte delle donne, credono che sia giusto che così si atteggino i rapporti tra i due sessi.

 Si dirà, si è detto, si dice che noi siamo andati là per portare i diritti. Ma è proprio così? O è solo così? Oppure i diritti sono serviti quale nobile copertura di fini non dichiarati e molto, molto meno nobili? E poi, a parte tutto, è nobile voler portare a tutti i costi, diciamo un dono se coloro che dovrebbero riceverlo non lo vogliono proprio? Non leggiamo nelle fonti della nostra classicità che nolenti non fit donatio? Che è un principio, etico prima che giuridico, di non poco conto se sta scritto in tutti i codici civili europei.

 Ma poi questi occidentali perseguivano veramente l’obiettivo del dono agli afghani? Agli inizi del 1900 Sir Halford Mackinder, in una conferenza memorabile, aveva delineato una vasta zona dell’Eurasia definendola “il perno del mondo”, l’Heartland: l’idea era che la potenza che occupasse l’Heartland avesse qualcosa più di un vantaggio ai fini del dominio sul mondo (una prospettiva, questa, dismessa solo a parole, in omaggio, diremmo, del politically correct, cioè dell’ipocrisia globale).

 Quali i confini dell’Heartland? Non precisamente definiti: grosso modo il centro dell’Asia, dalle rive del Baltico al Tajikistan. Ma da tempo vi si include anche l’Afghanistan. Vero o falso che sia, le potenze mondiali hanno creduto che la Pivot Area fosse piuttosto una realtà; e ne hanno cercato il controllo. Si è già accennato ai tentativi – falliti – compiuti in questa direzione dall’Inghilterra nell’Ottocento. Nel Novecento si sono registrati il tentativo russo e, di questo si parla ora, il tentativo americano (in compagnia degli alleati). Tentativi tutti finiti male; e tutti funzionali alle ragioni dell’occupazione di terra, l’ultimo con la copertura del dono di democrazia e diritti, come si è appena osservato.

 I diritti sono uno strumento formidabile per la trasformazione delle masse in individui isolati; e dei cittadini in consumatori seriali. A ciò aggiungasi che l’Heartland è ricco di materie prime e qualunque grande potenza ha coerentemente il desiderio di mettervi le mani sopra. Ma, tornando ai diritti, essi si sono rivelati utilissimi al fine del trionfo del consumismo più becero in Occidente. In Afghanistan non è andata così. Magari era prevedibile: se la storia ci ha insegnato qualcosa, questo è (anche) che Russia e Afghanistan è meglio non invaderli. Almeno militarmente. Penetrazioni o controlli d’altro genere, astuti e densi di raggiri, forse, forse sarebbero stati possibili. E forse sarà questa la via che proveranno a percorrere la Russia e, soprattutto, la Cina: probabilmente l’unica via per esercitare una qualche influenza in funzione, naturalmente, anti-occidentale. E può anche essere che, vedendo noi attraverso i mezzi di comunicazione che anche gli afghani dispongono, loro cambino lentamente opinione; ma non è assolutamente scritto che le cose si evolvano progressivamente in questa direzione.

 Così noi rimaniamo con i nostri diritti e con la credenza che essi siano universali, senza tempo né luogo. Ma non è così. Dobbiamo domandarci se essi siano veramente graditi alla grande maggioranza degli afghani; e dobbiamo accettare che, per avventura, loro, non solo i Talebani, abbiano altri valori. Se così fosse, ed è una ricerca che avremmo dovuto fare nel nostro interesse tempo fa, allora saremmo di fronte non solo a una sconfitta, ma ad un imperdonabile peccato di presunzione: un segno, forse, che, per l’Occidente, il declino è veramente cominciato.