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Oggi destra e sinistra sono divenute due facce del liberismo

di Carlo Formenti - 01/02/2020

Oggi destra e sinistra sono divenute due facce del liberismo

Fonte: Carlo Formenti

I. SULLE SINISTRE

Se oggi destra e sinistra sono divenute due facce del liberismo, non è perché le sinistre abbiano tradito. Questa evoluzione - certificata dalle ricerche di Thomas Piketty che dimostrano come oggi, negli Stati Uniti e in Europa, le sinistre raccolgano quasi esclusivamente i voti degli strati più elevati in termini di livelli di reddito e di educazione delle classi medie (i cosiddetti ceti medi riflessivi) – è piuttosto l’esito dei radicali processi di trasformazione che le società capitalistiche hanno subito nella fase della finanziarizzazione, globalizzazione e terziarizzazione dell’economia.
A incidere profondamente nell’antropologia degli strati sociali di cui stiamo parlando hanno contribuito, fra gli altri, fattori come i processi di scolarizzazione di massa degli anni Sessanta e Settanta, la terziarizzazione del lavoro, con l’emergenza di nuove professioni nei settori della cosiddetta economia della conoscenza e della net economy, l’immissione di larghe masse di forza lavoro femminile nel processo produttivo, i processi di deindustrializzazione, l’emergenza di valori e bisogni post materiali nelle popolazioni dei Paesi occidentali, lo spostamento dell’attenzione dei movimenti sociali dai temi della ridistribuzione economica ai temi del riconoscimento identitario.
Questi e altri fattori hanno fatto sì che al ricambio generazionale nelle file dei partiti e movimenti di sinistra si sia associato un radicale ricambio di principi e valori: dal solidarismo comunitario all’individualismo, dall’internazionalismo proletario al cosmopolitismo borghese, dall’egualitarismo alla meritocrazia, dalla rivendicazione del primato della politica sull’economia e del pubblico sul privato all’antistatalismo, dal realismo politico al moralismo. Sono i principi e i valori di quella cultura politica che Nancy Fraser ha battezzato neoliberismo progressista riferendosi, in particolare, all’involuzione del movimento femminista che, caduta l’alleanza fra lotta per la liberazione della donna e anticapitalismo, si è convertito in alleanza fra capitalismo ed emancipazione, rivendicazione di parità di diritti e potere nel pieno rispetto delle regole del sistema.
Oggi chi milita nelle e vota per le sinistre non condivide più le condizioni materiali (livelli di reddito, qualità dei servizi sociali, luoghi di vita, livelli di mobilità sociale e fisica) né la cultura dei ceti e delle classi popolari, i quali vengono disprezzati per il loro linguaggio politicamente scorretto.
Il conflitto di clase si è territorializzato, assumendo la caratteristica di scontro fra centri e periferie a livello cittadino (centri gentrificati contro banlieue), nazionale (regioni ricche contro regioni povere) e internazionale (Paesi ricchi contro Paesi poveri). I vincenti al gioco della globalizzazione contro i perdenti.
E’ un conflitto trasversale che attraversa i luoghi disegnando una mappa planetaria a pelle di leopardo: gli studenti e gli intellettuali che a Hong Kong, Mosca e Teheran manifestano con le bandiere americane e rivendicano la democrazia e il consumismo occidentali sono espressione degli stessi valori e interessi che ispirano le sinistre occidentali e la loro ostilità per le classi subalterne.
Prima di entrare nel merito delle forme che assume il rancore degli esclusi nei confronti di queste nuove élite intermedie alleate con il grande capitale, è però il caso di sottolineare che nella cultura tradizionale del movimento operaio, erano presenti contraddizioni che hanno agevolato l’evoluzione di cui stiamo parlando. Mi riferisco all’economicismo, all’esaltazione acritica dello sviluppo delle forze produttive come condizione necessaria per il superamento del capitalismo, all’esaltazione del progresso scientifico e tecnologico in quanto tali, in assenza di un ‘analisi critica sui suoi intrecci con gli interessi di classe; alla visione oggettivista del soggetto rivoluzionario, con il riferimento esclusivo al ruolo “naturalmente” antagonista della classe operaia; allo storicismo, inteso come fede nell’esistenza di un principio evolutivo immanente nel processo storico verso il progresso umano e civile; all’eurocentrismo, inteso come convinzione – mai ripudiata malgrado l’accumulo di smentite storiche – che la rivoluzione anticapitalista debba essere necessariamente guidata dalle nazioni “avanzate”. Si tratta di visioni compatibili con a quelle della cultura progressista-liberale, per cui la convergenza è apparsa logica dopo le trasformazioni epocali sopra descritte. (vedi, in proposito, i contributi di Preve e Losurdo).

II. SUL POPULISMO
Private di rappresentanza politica le classi subalterne la hanno cercata nel populismo e nel sovranismo di destra e, in minore misura, di sinistra. Piaccia o no, dobbiamo riconoscere che il populismo è la forma che la lotta di classe ha assunto in questa fase storica, a prescindere dalle sue coloriture ideologiche. Inoltre è importante chiarire che il populismo di destra (il quale non è mai vero sovranismo, nella misura in cui non si dà sovranità popolare in assenza di socialismo) non ha nulla a che fare con il fascismo storico. Rappresenta piuttosto gli interessi di quei settori borghesi che sono stati messi in crisi dai processi di finanziarizzazione e globalizzazione ma, al tempo stesso, non possono fare a meno di mantenere rapporti con il capitale globale. Assume demagogicamente obiettivi storicamente tipici delle sinistre, per cui riesce ad egemonizzare settori proletari e di classe media proletarizzata. È dunque da respingere il frontismo “antifascista” delle sinistre che invitano all’alleanza con i liberali, perché la democrazia non è minacciata dai populismi, bensì dalle reazione delle élite liberiste contro questa insorgenza che ne mette in discussione l’egemonia ideologica e culturale.
In questa trappola sono caduti anche quei populismi di sinistra (Podemos, Mélenchon, Corbyn l’M5S, ammesso e non concesso che quest’ultimo possa essere definito di sinistra) che pure sembravano avere colto la necessità di superare la polarità fra destra e sinistra per costruire un terzo polo radicato nelle masse popolari. Così Podemos si è alleato con lo Psoe e l’M5S con il Pd., andando a ricostruire il bipolarismo classico fra forze che si alternano nella gestione della governance del sistema. Ma i populismi di sinistra non sono entrati in crisi solo per l’incapacità di sbarazzarsi dell’eredità ideologica delle sinistre, ma anche perché: 1) hanno costruito movimenti di opinione basati su una visione comunicazionista della politica (sopravvalutando il ruolo dei new media come strumenti di organizzazione e democrazia interna e non solo di mobilitazione e propaganda); 2) hanno adottato una visione governista della lotta politica, per cui scambiano l’andata al governo con la conquista del potere politico, la quale richiede non un semplice ricambio di élite (gli onesti al posto dei corrotti) ma una radicale riforma dello stato e delle sue strutture; 3) non hanno costruito strutture organizzative saldamente ancorate a territori e luoghi di lavoro e di vita; 4) non hanno assunto posizioni coerenti in tema di sovranità nazionale, in quanto incapaci di cogliere il nesso inscindibile fra conflitti di classe e conflitti fra nazioni evidenziato da Lenin, Mao, Samir Amin e i teorici della dipendenza. Non a caso anche una critica radicale del liberalismo progressista come Nancy Fraser è convinta che non si possano cambiare i rapporti di forza fra capitale e lavoro se non a livello globale, ricadendo in quella visione “globalista di sinistra” che si dipana dalla critica di Trotsky al socialismo in un solo paese, all’esaltazione negriana dell’Impero, alle utopie riformiste alter globali dell’ultimo Piketty.
Tutto ciò nulla toglie al fatto che una forza rivoluzionaria deve oggi trarre lezioni dal populismo nelle sue varie articolazioni. I temi della definizione del confine fra amico e nemico, della costruzione di un blocco di classe rivoluzionario e dell’egemonia che dev’essere garantita alle classi subalterne in tale blocco, ricevono luce dall’esperienza populista, la quale ci insegna, fra le altre cose, 1) che non possiamo più immaginare che possa esistere un soggetto privilegiato della rivoluzione; 2) che tale soggetto può nascere solo da una costruzione politica che assembli una rete ampia di soggetti sociali, politici e culturali accomunati da una contrapposizione antagonistica nei confronti del sistema; 3) che per far sì che all’interno di questa rete sia garantita l’egemonia delle classi subalterne occorre definire con precisione le linee oppositive che separano differenziali di reddito, di mobilità fisica e sociale, di appartenenza territoriale al centro o alla periferia, le linee insomma che separano vincenti e perdenti al gioco della globalizzazione.
In questa prospettiva occorre tuttavia evitare di nutrire eccessive aspettative nei confronti dei ceti medi, ancorché impoveriti e proletarizzati, in quanto essi conservano comunque velleità di riconoscimento di status che, al variare dei contesti, possono facilmente farli oscillare da una parte all’altra del fronte di lotta. Ce lo insegnano la tragica esperienza delle controrivoluzioni che hanno rovesciato i socialismi bolivariani, l’impossibilità di tenere assieme i blocchi sociali guidati dalla Lega e dall’M5S, le ritirate di Podemos, Mélenchon e Corbyn. Il punto è che, per garantire che l’egemonia resti nelle mani di chi sta in basso, occorre percorrere una strada stretta tortuosa e impervia che, da un lato, impone di cavalcare la tigre del populismo che è oggi l’unica in grado di garantire adesioni di massa, dall’altro di costruire i quadri e le strutture organizzative di un partito capace di trascinare l’onda populista oltre i suoi limiti fisiologici.

III. SOCIALISMI DEL SECOLO XXI E SCENARI GEOPOLITICI
Si è detto che oggi non esiste un soggetto rivoluzionario definibile apriori, in base alla presunta contraddizione oggettiva fra i suoi interessi e quelli del capitale, che si tratta, piuttosto, di costruire un blocco sociale in cui far convergere l’insieme dei soggetti sociali più colpiti dal processo di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia, si è aggiunto che questa coalizione non è identificabile solo in base ai differenziali di reddito e di status ma anche a quelli di mobilità e appartenenza territoriale, e che la lotta di classe tende a fondersi con i conflitti fra nazioni dominanti e nazioni periferiche, Sud contro Nord, Est contro Ovest, Occidente contro Asia, Africa e America Latina anche se ogni Paese ha al proprio interno le sue periferie e i suoi centri, i suoi nord e i suoi sud, i suoi ovest e i suoi est.
Questo scenario complesso non giustifica esitazioni e ambiguità nel tracciare il confine amico/nemico sia a livello nazionale che a livello globale. Politica e geopolitica devono rispecchiarsi nello sforzo di definire uno schieramento mondiale delle forze che si oppongono alle élite mondialiste, sfruttando le contraddizioni interimperialistiche che aumentano a mano a mano che il processo di globalizzazione perde inerzia e crescono le controtendenze al conflitto fra potenze mondiali, regionali e locali. Questo vuol dire che chi si propone di lottare per il socialismo non deve solo ridefinire cosa significa socialismo nell’attuale contesto storico, ma anche prendere in considerazione la possibilità che, per vincere nella lotta contro il capitalismo, occorra allearsi con culture anche molto lontane dalla nostra. Provo a spiegarmi con alcuni esempi concreti.
Le rivoluzioni bolivariane (Venezuela, Ecuador e Bolivia) non sono state rivoluzioni socialiste, in quanto, pur avendo riconquistato il controllo sulle risorse naturali per finanziare politiche sociali avanzate, neowelfariste, nazionalizzato alcuni settori strategici, condotto politiche redistributive a favore delle classi subalterne e tentato di riconquistare la sovranità nazionale sganciandosi dai diktat del Washington consensus, non sono andate oltre un orizzonte riformista radicale che potremmo genericamente definire postneoliberista. Dalla loro esperienza, malgrado le recenti sconfitte, emergono tuttavia importanti insegnamenti. Da un lato, come spiega bene nei suoi scritti il vicepresidente boliviano Linera, la forza trainante di queste rivoluzioni sono state le comunità indigene, portatrici di una visione comunitaria che si è opposta alla colonizzazione capitalista in nome dei principi e valori di culture tradizionali e non di una modernizzazione di tipo occidentale. Dall’altro a condurre le controrivoluzioni sono stati quei ceti medi urbani (ivi compresi i movimenti orientati a sinistra) che, ancorché beneficiati dalle riforme dei nuovi regimi, hanno voltato loro le spalle non appena richiesti di affrontare sacrifici per sostenere le politiche sociali anche quando la pressione dei mercati globali sulla rivoluzione si è fatta più incalzante.
Passiamo all’esempio cinese. Gli studiosi marxisti hanno pareri discordanti sulla natura del regime cinese. C’è chi pensa si tratti di una Paese compiutamente tornato nell’ambito del sistema capitalistico, che compete con Stati Uniti, Giappone ed Europa per spartirsi il mercato mondiale, e c’è invece chi (Amin, Arrighi e altri) lo considera piuttosto come un sistema socialista con presenza di mercato o un’economia non capitalista con capitalisti. Senza addentrarci in questa diatriba teorica vediamo i dati di fatto: 1) per universale ammissione anche da parte degli economisti liberisti, il boom cinese non è frutto di una piena conversione al capitalismo quanto del persistente ruolo di intervento, coordinazione e organizzazione dei flussi di capitale da parte del partito-stato; 2) le privatizzazioni sono state graduali e parziali mentre lo stato mantiene il controllo su settori strategici e sistema bancario; 3) i servizi fondamentali continuano a essere pubblici; 4) le imprese statali non seguono le regole del massimo profitto ma tengono conto dell’esigenza di garantire elevati livelli di occupazione; 5) lo sviluppo e la crescita appaiono orientati in misura crescente a privilegiare l’espansione dei consumi interni; 6) malgrado la presenza di forti disuguaglianze i redditi salariali sono quelli che crescono più rapidamente; 7) anche dopo l’abolizione delle comuni l’accesso alla terra continua a essere garantito a centinaia di milioni di contadini; 8) la logica degli investimenti esteri è orientata alla creazione di infrastrutture che favoriscono lo sviluppo dei Paesi periferici e non alla speculazione finanziaria di tipo occidentale. Ma soprattutto: la borghesia cinese accumula ricchezze ma non è riuscita almeno finora ottenere il controllo sullo stato, che resta saldamente nelle mani del partito, per cui la politica continua a comandare sull’economia. Insomma, non socialismo secondo la definizione della tradizione occidentale ma una peculiare forma di socialismo che mescola principi e valori confuciani a quelli marxisti.
Potremmo aggiungere qualche riflessione sul ruolo dei valori egualitari della religione islamica – in particolare degli sciiti e dei fratelli musulmani – nell’ispirare la resistenza di alcuni Paesi del Medio oriente e dell’Africa settentrionale nei confronti della penetrazione dei valori occidentali. Il che ci riporta alle riflessioni critiche sui limiti del modernismo progressista che, come detto in precedenza, ha agito da canale di penetrazione dell’egemonia capitalista nella cultura del movimento operaio. Il che non significa che l’obiettivo sia quello di riesumare modi di produzione e di vita precapitalistici, ma piuttosto che è quello di immaginare un socialismo del secolo XXI che sappia favorire un progresso autentico, misurabile in termini di crescita civile e non di potenza tecnologica, economica e militare. Un socialismo che non pretenda di abolire il mercato, inseguendo utopie che si sono rivelate fallimentari, ma impari a farne buon uso (per usare un’espressione di Arrighi) imbrigliandone gli spiriti animali e tenendolo sotto stretto controllo politico. Un socialismo rispettoso dell’ambiente e orientato allo sviluppo basato sulla domanda interna e la piena occupazione. Un socialismo che miri alla creazione di un sistema economico mondiale equilibrato e rispettoso delle identità nazionali (comprese quelle culturali e religiose). Per avanzare in tale direzione credo occorra rispettare prioritariamente due imperativi: 1) sul piano interno, lavorare alla costruzione di un blocco sociale anticapitalista che eviti di sacrificare gli interessi degli ultimi a quelli delle classi medie, restando consapevoli che queste non ricambiano mai tali attenzioni con la moneta della fedeltà politica; 2) sul piano internazionale, imboccare la via di una politica estera che rompa la dipendenza da Berlino e Washington e privilegi i rapporti con Cina, Russia, Brics e Paesi mediterranei.