Per la transizione ecologica non basta la decrescita
di Filippo Belloc - 31/05/2021
Fonte: Il Manifesto
La questione della transizione ecologica è tornata al centro della discussione politica nel mondo della sinistra. E con essa l’eterno dibattito sul ruolo dell’innovazione tecnologica. Chi sostiene la via della decrescita punta il dito su quanto produciamo più che sul come, e vede nel binomio ecologia e tecnologia una essenziale contraddizione in termini (si veda Paolo Cacciari sul manifesto del 15.5.2021).
Ci sono almeno due ragioni alla base della diffidenza verso le nuove tecnologie in ambito ambientale.
La prima è una certa generalizzazione per cui le innovazioni tecnologiche implichino sempre la distruzione di risorse al fine del soddisfacimento di un bisogno umano di cui forse si poteva fare a meno. Ma le innovazioni “verdi” sono funzionali proprio alla riduzione dell’uso delle risorse esauribili e consentono di associare un minore impatto ambientale a uno stesso, o anche maggiore, livello di benessere.
E’ vero che un’innovazione potenzialmente verde può all’inizio richiedere processi di lavorazione dei materiali dannosi per l’ambiente. Ma una volta che si sia accertato che una nuova tecnologia alla fine di tutto il suo ciclo di vita (produzione, adozione, smaltimento) avrà fatto bene, e non male, all’ambiente, rispetto alle tecnologie pre-esistenti, non c’è un interesse di tipo ambientale per cui ci si dovrebbe opporre alla sua adozione. A meno che non ci si attenda una sua rapida obsolescenza a fronte di una lunga vita attesa della sua infrastruttura fisica, rendendo difficile o molto costoso l’adozione di nuove tecnologie più efficienti presto disponibili (è il cosiddetto lock-in infrastrutturale).
La seconda ragione è la presunta incompatibilità tra ambiente e occupazione. Tuttavia, il lavoro umano, di per sé, non è un input inquinante, e non esistono meccanismi automatici per cui l’efficientamento energetico dei processi produttivi debba avvenire al prezzo di una contrazione dell’occupazione. Le tecnologie che consentono di risparmiare nell’uso di input inquinanti non necessariamente richiedono un minore impiego di lavoro.
Un’estesa documentazione empirica ci dice che spesso è vero il contrario. Tra altri, il famoso studio The future of employment dei due economisti di Oxford Carl Frey and Michael Osborne (pubblicato su Technological Forecasting and Social Change, 2017) mostra che le occupazioni associate alle innovazioni ambientali sono esposte a un bassissimo rischio di automazione. Semmai è la strada della riduzione dell’uso delle risorse a parità di tecnologia (la decrescita sic et simpliciter) a causare una distruzione di posti di lavoro.
Al tempo stesso, non bisogna certo cadere vittima della retorica di una visione deterministica secondo cui ce la caveremo sicuramente, e sarà stato grazie alla tecnologia. Se molte innovazioni verdi hanno anche il pregio di indurre un aumento della produttività (è quello che gli economisti chiamano “effetto efficienza economica”), per esempio perché consentono di risparmiare nel costo degli input energetici, molte altre non godono di questa caratteristica. E la loro adozione, se desiderabile per l’ambiente, non lo è per gli utilizzatori dell’innovazione quando questi cercano di massimizzare il proprio interesse privato.
Più a monte, la stessa produzione dell’innovazione potrebbe essere economicamente non attraente per le imprese, ad esempio a causa dell’elevato costo di sviluppo a fronte dell’impossibilità di prevedere se si raggiungerà un tasso di adozione della tecnologia (e quindi una corrispondente domanda) sufficiente a giustificare l’investimento privato. Infine, i processi di evoluzione tecnologica sono essenzialmente incerti ed inoltre possono alimentare meccanismi di diseguaglianza.
E’ cruciale dunque impiegare gli strumenti della politica economica, per deviare il percorso di evoluzione tecnologica verso l’esito che riteniamo più desiderabile per la collettività. Molte innovazioni verdi non generano alcun “effetto efficienza economica” (cioè non aumentano il profitto di chi le produce o l’utilità di chi le adotta), eppure sono desiderabili dal punto di vista ambientale, perché generano esternalità positive nella forma di un ridotto impatto ambientale. Senza un intervento pubblico, questi benefici vanno perduti.
Ripensare i nostri modelli di consumo è ineludibile, ma moderare i consumi lasciando poi al solo mercato la scelta di quale tecnologia produrre e adottare significa rinunciare a occasioni utili per migliorare la sostenibilità ambientale delle attività umane. Il progresso tecnologico non è un processo deterministico e la sua direzione ha un impatto cruciale sul rapporto tra uomo ed ecosistema: perché non occuparcene?
* Professore Associato di Economia Pubblica
Università di Siena