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Perché ci fa paura Gervasoni perquisito

di Alessandro Rico - 12/05/2021

Perché ci fa paura Gervasoni perquisito

Fonte: Nicola Porro

Dite quello che vi pare. Dite che definire il presidente della Repubblica “capo del regime sanitocratico”, come ha fatto Marco Gervasoni in un tweet, lede l’onore e il prestigio del capo dello Stato. Dite che allo storico, sui social, spesso scappa il dito sulla tastiera. Dite, come hanno fatto i veri odiatori del web, che è un “sedicente professore”, che ha subito “traumi infantili”, che è “feccia fascista” o un “criminale nazista” (qualcuno li manderà alla sbarra, questi miserabili smanettoni?). Dite persino – è l’ipotesi della Procura di Roma – che esiste una “elaborata strategia di aggressione alle più alte istituzioni del Paese”. Anche se, conoscendo Gervasoni, già collaboratore di questo sito, fa semplicemente ridere l’idea che egli cospiri contro il Quirinale insieme agli antisemiti dell’Est Europa. Magari, tirate fuori le sue offese a Elly Schlein (“pare n’omo”) o ad Angela Merkel (“Kulona”), che però non c’entrano niente con Sergio Mattarella e con il reato di cui è accusato il prof. Però, evitate di raccontarci che in Italia non tira una bruttissima aria.

Veniamo dai mesi in cui le forze dell’ordine multavano la gente “assembrata” in casa propria; da un anno in cui, su qualunque posizione critica rispetto alla gestione della pandemia, ha pesato la minaccia dell’etichetta di “negazionismo”. E andiamo verso l’approvazione di una legge, il ddl Zan, che espone al pericolo di finire alla sbarra chiunque esprima un’opinione che qualcun altro potrebbe considerare “atta a determinare il pericolo di discriminazioni o violenze”. Gli stessi sostenitori della norma, ormai, proclamano apertamente che essa serve per zittire chi osteggia l’utero in affitto, o le adozioni gay e persino i comici che fanno satira in tv.

In questo contesto, in un giorno di maggio, all’alba, accade che gli investigatori bussino alla porta di 11 persone. Tra esse c’è gente che – è intollerabile – inneggia alla morte di Sergio Mattarella e gli augura di fare la fine del suo povero fratello, Piersanti, ucciso dai mafiosi. Ma ci sono pure due giornalisti e il professor Gervasoni, uno che occupa una regolare cattedra all’Università del Molise, dopo averne persa un’altra alla Luiss, perché scrisse che bisognava affondare la Sea Watch – e aveva ragione. Ovviamente, intendeva senza nessuno a bordo.

L’ipotesi di reato è vilipendio al capo dello Stato. Tecnicamente, offesa all’onore o al prestigio del presidente della Repubblica. Invero, per andare dietro le sbarre con la stessa accusa, a Giovannino Guareschi, nel 1950, bastò una vignetta, pubblicata sul suo Candido e disegnata da Carletto Manzoni, in cui Luigi Einaudi veniva ritratto davanti a una doppia fila di bottiglie di Nebbiolo, sulla quali era evidenziata la sua carica pubblica di senatore. Però, per l’appunto, era il 1950.

vignetta candido Guareschi

Senza entrare nei dettagli tecnici, senza pretendere di stabilire se i tweet di Gervasoni ledano o meno l’onore e il prestigio di Mattarella, ci limitiamo a domandarci: è ancora accettabile, nel 2021, che si possa essere condannati da uno a cinque anni di reclusione per una critica, più o meno aspra, più o meno elegante, al presidente della Repubblica? Che i confini della liceità di queste contestazioni debbano essere decisi in un’aula di tribunale? Che non esista differenza tra scrivere “devi morire” e gridare al “regime sanitocratico”? Che la Consulta, su molte altre delicate questioni così attenta alla “giurisprudenza evolutiva”, in tema di vilipendio al capo dello Stato sia rimasta al 1950 e alla vignetta del Candido, avendo sempre confermato la costituzionalità del reato suddetto? E non è inquietante che, nel frattempo, una legge, nel nome della tutela di omosessuali e transessuali, voglia imporre lo scrutino giudiziario delle idee?