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Russia ed Europa

di Alberto Figliuzzi - 24/07/2022

Russia ed Europa

Fonte: Italicum

L’esasperata criminalizzazione della Russia, esecrata come barbara realtà di un altro mondo, in seguito al suo intervento militare in Ucraina, da parte di una politica europea appiattita sulle interessate posizioni americane e non propensa perciò a riconoscere effettive cause e responsabilità di questo evento, rende difficile, ma per fortuna non impossibile, far trapelare, da una informazione e da una opinione intellettuale in larga parte altrettanto schierate, una lampante verità, cioè lo stretto e antico rapporto tra Russia ed Europa, il fatto che (come di recente si è espresso, ad esempio, Massimo Cacciari) “la Russia è da secoli parte integrante della politica e delle guerre europee”. Quella Russia di cui per secoli, si può aggiungere, ha anche fatto parte in vario modo la storicamente mutevole e composita fisionomia geografica dell’Ucraina. Un incontrovertibile dato oggettivo che, a lume di logica, ieri avrebbe dovuto suggerire (una volta finita l’Unione Sovietica ed il suo comunismo, che potevano giustificare, in chi li temeva, la scelta di stretti legami con l’America) una pacifica e feconda convivenza tra mondo europeo (allargato ai paesi una volta del blocco orientale) e Russia, nel quadro di chiari e leali accordi sulla reciproca sicurezza; un incontrovertibile dato oggettivo ancora oggi, che dovrebbe indurre l’Europa non già, come purtroppo accade, ad una sia pure ambigua e retorica partecipazione alla guerra a difesa del “paese aggredito”, bensì ad una imparziale valutazione delle ragioni delle due parti in conflitto, senza la quale poco credibile e di fatto molto difficile se non impossibile si palesa una sua azione diplomatica, come dovrebbe essere, a favore del dialogo e della pace.

    Sulla base di questa consapevolezza risulta interessante ricordare alcuni aspetti della sua storia recente che, contrariamente a quanto nel clima di contrapposizione si tende a fare, rendono eclatante la dimensione europea della Russia; sebbene essi si pongano in uno scenario più ampio e variegato di quello liberaldemocratico che caratterizza l’Europa di oggi e che erroneamente viene presentato come la sola imprescindibile premessa perché, con la sua generale condivisione, si possano affermare civili rapporti, pur in presenza di eventuali contrasti, tra paesi e genti.

    Il primo riferimento è all’Illuminismo russo, espressione tutt’altro che minore, nella seconda metà del Settecento, del più generale movimento illuminista europeo capace di influenzare profondamente le monarchie assolute dell’epoca. Così, Caterina II non è da meno, rispetto a Federico II di Prussia o a Maria Teresa d’Austria o a Carlo III di Spagna e ad altri sovrani guidati dai “lumi” della razionalità, nell’azione politica riformatrice in campo economico-sociale, amministrativo, culturale e educativo, liberando da impedimenti feudali di vario genere, o almeno regolandone oculatamente certi rapporti con l’aristocrazia, il mondo contadino.

    Pienamente inserita, in maniera pragmatica e con orientamenti internazionali mutevoli, nelle dinamiche dell’Europa soggetta all’egemonia napoleonica, è la Russia che determina la fine delle fortune dell’imperatore francese che le muove guerra; interpretando, nella persona del suo zar Alessandro I, da una parte, sia pure in maniera modesta e paternalistica, quei principi moderni e riformatori che in precedenza avevano già suggestionato Caterina e di cui Napoleone era portatore, dall’altra, da un certo momento in poi, la reazione assolutista monarchica in procinto d’essere riproposta in quasi tutto il continente con la Restaurazione.

Un vertice politico russo aperto, come si vede, in un ampio arco di tempo, alle più diverse influenze culturali, da quelle vagamente liberali, di provenienza sia francese che inglese, a quelle reazionarie espresse nei propositi ideali della “Santa Alleanza”, promossa proprio dallo stesso Alessandro; comunque nell’ambito di una audace e costante strategia politica volta a far essere la Russia centrale nella vita politica europea, sebbene attenta nella valutazione delle influenze occidentali a cui in varia misura aprirsi o invece restare impermeabile.

    Ciò continua ad essere evidente, sotto tanti aspetti, se si considerano le complesse vicende interne ed internazionali che dall’ordine europeo deciso dal Congresso di Vienna portano alla sua progressiva destabilizzazione, favorita e accelerata dalla guerra di Crimea alla metà del XIX secolo. Mentre l’Europa vedeva accentuarsi in maniera sempre più deciso il carattere borghese della società, con tutto ciò che ne conseguiva sul piano della dottrina politica, dell’assetto istituzionale, in merito all’economia e a nuovi problemi sociali, la Russia non aveva certo perso, nonostante gli “illuminati” interventi di cui prima si diceva, le sue caratteristiche di paese diverso (con un mondo rurale ed un sistema agricolo di sussistenza locale, male gestiti da proprietari e nobiltà, prevalenti rispetto al mondo urbano e alle poche industrie statali).In queste condizioni, sia lo zar Nicola I che il suo successore, il figlio Alessandro II, pur attentissimi a quanto di seducente si poteva vedere all’estero, erano tuttavia assai cauti nel ritenere ogni novità, sia pure valida in quel contesto, degna di imitazione in patria; tanto più che ferma era la convinzione che la Russia dovesse preservare molte sue specificità nazionali, ritenute la sua grande forza. Ciò in concreto significava intervenire, con decisione e autentico spirito riformatore, in campo amministrativo, economico e sociale, ed anche militare (dopo l’esito infelice del conflitto di Crimea), senza tuttavia modificare l’assetto generale del paese e senza metterne in alcun modo in discussione il sistema autocratico che escludeva modifiche istituzionali in senso costituzionale e parlamentare (a parte il disegno di una minima forma di rappresentatività, interrotto dall’assassinio dello zar nel 1881).La modernizzazione, perciò, espressa in una serie di importanti riforme che tenevano anche presenti i sistemi di vari paesi europei (come l’abolizione della servitù contadina con l’assegnazione collettiva di terre, la creazione di organi amministrativi locali nelle campagne, l’istituzione del servizio militare universale, la revisione del sistema giuridico e giudiziario, l’illuminata revisione del sistema scolastico ed universitario, l’allentamento della censura, efficaci interventi in campo finanziario e fiscale), era pur sempre concepita e attuata dall’alto e assegnava allo Stato un centrale e fortissimo ruolo regolatore nei confronti della società.

Caratterizzava la Russia, quindi, non già la lontananza dall’Europa e la mancata conoscenza dell’evoluzione in senso borghese e liberale della società che lì, sia pure in vario modo e con diversa forza, inesorabilmente si andava sviluppando, bensì, al contrario, una ricca e articolata relazione con i paesi del continente, pur se accompagnata da sospetto e ostilità, sia negli ambienti conservatori (come per esempio nel circolo degli “Slavofili”) che in quelli riformisti, verso il modello di “progresso” (caratterizzato in primo luogo da una libera economia capitalistica) concepito in Occidente; pur non mancando coloro (per esempio, esplicitamente, gli “Occidentalisti”) che apertamente auspicavano invece il superamento delle strutture feudali e del potere assolutistico, la diffusione della cultura europea e lo sviluppo capitalistico.

Della grande varietà di posizioni rispetto all’Europa, se lo sguardo si sposta dal potere zarista nelle sue varie forme e nei suoi diversi orientamenti, fanno parte anche le sempre più incisive manifestazioni di analisi e di radicale critica dell’ordine esistente che tanti cambiamenti facevano scorgere, con favore o con timore, all’orizzonte: così, la contestazione del modello autocratico e del connesso sistema sociale da parte del movimento populista, la sua fiducia nella carica rivoluzionaria di una eventuale insurrezione contadina, non si possono intendere se slegate da ciò che andavano elaborando gli orientamenti democratici, anarchici, socialisti europei, antagonisti essi stessi, nei rispettivi paesi, proprio del modello borghese e liberale auspicato in patria dagli occidentalisti russi. E non prive di collegamento con la realtà europea erano numerose altre elaborazioni teoriche, non senza implicazioni sul piano operativo, come ad esempio l’anarchismo, il nichilismo, nella versione anche terroristica. Da sottolineare il rifiuto, da parte di tutto questo composito mondo rivoluzionario, in quanto giudicate mistificatorie e insufficienti, delle soluzioni di carattere liberale (nel senso di un formale costituzionalismo e parlamentarismo), e invece, in maniera apparentemente paradossale (come nel caso, per esempio, del grande intellettuale Aleksandr Herzen, esule volontario in Europa e amante dell’Italia) una certa sia pure instabile e provvisoria sintonia con l’orientamento slavofilo di difesa di tradizioni comunitarie e collettiviste contadine.

    Se si passa, poi, al marxismo russo, nelle sue numerose e contrastanti interpretazioni, che da un certo momento in poi segna e orienta in maniera determinante lo spirito rivoluzionario che da tempo maturava nell’impero zarista, incontestabile è il fatto che la dottrina comunista e l’Unione Sovietica che (nel tragico contesto della Grande Guerra europea e di una terribile guerra civile) ne sarà ad un certo punto una particolare realizzazione istituzionale e statuale, ovvero i settant’anni più esaltanti o più tragici (a seconda dei punti di vista) della Russia del XX secolo, hanno radici profonde in capitoli fondamentali della cultura filosofica, storica, socioeconomica europea. A sua volta, in tutta Europa la seducente idea del comunismo e la potenza politica e militare dell’Urss avrebbero poi fatto sentire i loro profondi effetti, orientandone per decenni l’azione di movimenti operai e sindacali ed i partiti comunisti e socialisti; determinando persino, paradossalmente, favorevoli condizioni (col suscitare decise forme di reazione, o fluide e imprevedibili situazioni rivoluzionarie) all’affermazione delle esperienze politiche, originali e feconde di risultati in tanti campi ma altrettanto totalitarie o autoritarie, dei fascismi. In altri termini, contemporaneamente all’infelice esito, in Russia, con l’avvento del regime sovietico, delle approssimative esperienze di carattere liberale e democratico di sapore occidentale concesse dall’autocrazia zarista sotto la spinta di forze sociali e di movimenti riformatori e rivoluzionari, anche nei paesi europei le ben più anziane e apparentemente solide istituzioni di questo genere entravano in crisi, mostrando le loro insufficienze nel governare, specie nel tragico clima del dopoguerra, i nuovi fenomeni della società di massa.

L’esito della Seconda guerra mondiale, con l’apporto decisivo alla vittoria militare su nazionalsocialismo e fascismo di due grandi potenze continentali di opposta connotazione ideologica, come gli Usa e l’Urss, creava inediti scenari geopolitici a livello planetario, con la contrapposizione dei due rispettivi sistemi di alleanze della Nato e del Patto di Varsavia, in una situazione di permanente “guerra fredda”. Eppure, anche in un così delicato e pericoloso contesto, i rapporti tra la Russia (nella veste di paese egemone e guida dell’Unione Sovietica e dei paesi satelliti) e l’Europa (in primo luogo i sei paesi della Comunità Economica orientati secondo un disegno di integrazione) non erano caratterizzati da una netta contrapposizione; dato che anche in Europa l’idea sociale di marxiana memoria trovava modo di esprimersi (sia pure attenuata, moderata, realisticamente riconsiderata, libera da forme istituzionali autoritarie) in un consistente numero di progetti di orientamento socialista e socialdemocratico, non riducibili completamente, cioè, al disegno di Stato e di società liberale e liberista di tipo anglosassone. Il che significava anche (per esempio da parte dell’Italia) la possibilità di concrete politiche, tra Est e Ovest, all’insegna della prudenza, della mediazione, della saggia considerazione degli interessi nazionali, l’appartenenza al “mondo libero” atlantico non volendo perciò automaticamente dire prona acquiescenza alla potenza egemone americana, del resto essa stessa, per forza di cose, almeno sul continente europeo, incline a miti consigli. 

    È solo con l’implosione ed il dissolvimento dell’Unione Sovietica e con la trasformazione della CEE in una Unione Europea progressivamente sempre più allargata (anche ai paesi una volta dietro la “cortina di ferro”) che l’idea “liberaldemocratica”, in una forma esasperata che non avevano mai conosciuto, va a contrassegnare (naturalmente non senza qualche espressione, qua e là, di efficace resistenza) le politiche degli Stati europei. Ciò in totale acquiescenza alla superpotenza americana che, non più contrastata, sul finire del XX secolo e agli inizi del nuovo fa della bandiera della liberaldemocrazia, quale sistema da trasferire in ogni altra area del mondo, il pretesto per asserire la sua completa egemonia.

    Ma tutto questo è l’altra faccia, sul piano politico-militare, di una globalizzazione economica capitalistica, nel nome del più “libero mercato”, che non si lascia spiegare, come talora si vuole dare a intendere, solo con le rivoluzionarie interconnessioni tecnologiche degli ultimi decenni, quasi ne fosse l’ineluttabile risultato; bensì chiama in causa una precisa volontà di uniformizzazione del mondo funzionale ad un determinato dominio unipolare; non esistendo, cioè, una globalizzazione automatica e neutrale, bensì solo quella favorita da complesse strategie geopolitiche. Ma se legittimo è un criterio interpretativo del genere, allora logicamente ne discende che ogni assetto istituzionale non uniformato alla proclamata perfezione di quello liberaldemocratico è passibile di anatema, potendo in parte o completamente porsi fuori dal detto disegno di dominio planetario. Il che è quanto in effetti accade!

    Non sorprende, allora, che l’“autocrazia” russa, così denominata nel non obiettivo giudizio occidentale (quando in realtà non è affatto difficile, piuttosto, constatarne e studiarne la natura di formula istituzionale complessa e in divenire), detestata più di quanto sia mai toccato allo stesso comunismo sovietico, venga vista dall’America come un ostacolo, quale in effetti è, ai suoi piani di egemonia unipolare; ma stupisce che a questa stessa valutazione si conformi anche l’Europa che, dopo il collasso dell’Urss, se libera dal vassallaggio americano, se più avveduta in virtù della ricchezza della sua cultura e delle sue esperienze storiche, avrebbe invece potuto e dovuto trovare con la Russia, in ogni campo, modalità d’intesa, proficui equilibri, forme di reciproca comprensione, rispettandone la particolarissima identità e le molte specificità. Un orientamento evidentemente possibile solo a condizione di deporre il fanatismo liberaldemocratico volto a imporre in modo obbligatorio un unico abito alla diversa fisionomia dei popoli. Così, ad una lungimirante politica europea almeno un poco autonoma da quella americana sarebbe innanzitutto apparso assolutamente paradossale che, proprio nel momento in cui la Russia (paese vicino, non al di là dell’oceano) deponeva il suo abito sovietico e vedeva dissolversi il sistema dei suoi paesi satelliti, non se ne favorisse con pacifici e amichevoli rapporti il nuovo cammino non comunista, e viceversa si approfittasse del suo sconvolgimento interno in ogni campo per metterne in discussione, con spregiudicate ostili ingerenze, storiche aree d’influenza, come l’attuale Ucraina (che avrebbe potuto prosperare come ponte politicamente neutrale tra Est ed Ovest) ed insidiarne, oggettivamente e non solo nella sua percezione, la sicurezza (con un vistoso allargamento, rapido e ingiustificato, dell’Alleanza Atlantica).

    Purtroppo, questa attuale Europa, ancora incapace, dopo quasi ottant’anni, di concepire alcunché di diverso dall’ordine geopolitico uscito dalla seconda guerra mondiale, adottando verso la Russia una posizione sostanzialmente identica a quella assunta per decenni (più comprensibilmente) verso l’Unione Sovietica, fino ad inventarsi persino l’argomento di una netta inconciliabilità e quindi di una impossibile convivenza tra “liberaldemocrazia” e “autocrazia”, potrebbe ottenere unicamente, come poco brillante risultato, una pronunciata caratterizzazione asiatica dell’immenso paese; se a vantaggio del “vecchio continente” è lecito esprimere non pochi serissimi dubbi!