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Segreti di Stato

di Roberto Zavaglia - 03/08/2020

Segreti di Stato

Fonte: L'intellettuale dissidente

A quasi quarant'anni dalla strage di Bologna, la rivista Nova Historica pubblica un ottimo dossier sulle assurdità, le incongruenze, i permanenti segreti che caratterizzarono le indagini sorte a seguito di quel tragico evento.

“Io so”: cominciava così un celebre articolo di Pierpaolo Pasolini pubblicato sul Corriere nel 1974. Di seguito lo scrittore enumerava le sue certezze sulle stragi, i conati golpistici, le trame della Cia nel nostro Paese. Diceva di conoscere la verità, ma di non possedere prove e nemmeno indizi. Le sue convinzioni derivavano dall’essere “un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace”. In realtà, Pasolini riproponeva le consuete supposizioni sulle trame nere, un genere all’epoca molto in voga. Con l’aggiunta di un’importante intuizione, ovvero dell’esistenza di una prima fase anticomunista della strategia della tensione (piazza Fontana) a cui avrebbe fatto seguito una seconda di segno antifascista (Brescia e Italicus).
Da più modesto scriba, io invece affermo di sapere che la sentenza che ha condannato come responsabili della strage di Bologna gli appartenenti ai Nar è un enorme falso giudiziario. E sostengo che questa mia consapevolezza non proviene da un’immaginazione di tipo pasoliniano, ma è una ovvia convinzione diffusa tra quanti hanno seguito senza pregiudizi l’inchiesta e il processo. Non a caso, nel comitato “E se fossero innocenti”, convergono personalità dei più vari orientamenti politici. Di più: sono persuaso che anche molti altri – magistrati, uomini politici, giornalisti – abbiano la stessa convinzione, ma non osino manifestarla per non incappare nel ben nutrito fuoco di sbarramento dei sostenitori della “strage fascista”: l’epitaffio con cui si è voluta imbalsamare una verità di Stato che faceva comodo allora (subito, il presidente del Consiglio Cossiga, che poi avrebbe drasticamente mutato opinione, e molti altri si precipitarono a incolpare i fascisti, prima ancora che l’indagine avesse inizio) ed evidentemente continua a fare comodo ancora oggi, come conferma la recente, incredibile condanna all’ergastolo di Gilberto Cavallini, un altro esponente dei Nar.
Chi abbia, anche solo in modo occasionale, conosciuto il mondo della destra radicale tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio seguente, sa che i Nar nacquero anche contro un certo tipo di neofascismo accusato di trescare con i servizi segreti italiani e stranieri e di essere disponibile a fornire la manovalanza a una ipotetica strategia stragista. Erano convinzioni granitiche per gli appartenenti ai Nar, una banda nata sulle strade di Roma, di gente pronta a uccidere quelli che riteneva i propri nemici (magistrati, poliziotti, “traditori”) ma non a colpire nel mucchio per creare terrore. A quale fine, poi, nel 1980, con un Partito comunista in arretramento elettorale e l’impossibilità, se mai ve ne erano stati i presupposti, di un colpo di Stato militare? Assassini spietati e determinati, con la sola giustificazione di essersi formati in anni di un’incandescente violenza politica, segnati in particolare dall’eccidio dei giovani militanti del Msi ad Acca Larenzia, ma non disponibili a servire da braccio armato per disegni altrui.
Nell’occasione dei quarant’anni da quella estate di sangue – il 27 giugno ci fu anche la strage di Ustica, pure quella ancora “misteriosa”, che forse, almeno sul piano dello scenario internazionale, potrebbe avere qualcosa a che fare con quella di Bologna – la rivista “Nova Historica” pubblica un ottimo dossier sulle assurdità, le incongruenze, i permanenti segreti di Stato, la volontà di non prendere in considerazione piste alternative che hanno caratterizzato le inchieste. Per comprendere il clima in cui furono avviate le indagini, bisogna ricordare che alcune riunioni dei magistrati inquirenti si svolsero addirittura nella sede del fortissimo Partito comunista bolognese. Vi furono poi dei ripetuti e ben strani tentativi di depistaggio, messi in atto dai Servizi italiani, a danno di personaggi più o meno ambigui ma tutti riconducibili all’area della destra radicale. E’ curioso depistare un’inchiesta diretta contro i fascisti incolpando altri fascisti; evidentemente i mostri neri non erano stati ancora definitivamente scelti nel catalogo a disposizione. Alla fine, l’unico importante elemento di accusa rimane la testimonianza di Massimo Sparti che incolpò Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, travestito per l’occasione da turista in costume tirolese ma con in tasca una patente falsa intestata a un uomo nato nel Salento (ottima scelta per sfuggire a un eventuale controllo …), di avere piazzato la bomba e di averlo saputo proprio da loro due.
Sparti, un delinquente comune, è dunque colui che ha scritto la storia ufficiale del più grave eccidio italiano del secondo dopoguerra. Questi era un ladro che, essendo in grado di procurare documenti falsi, intratteneva rapporti anche con i Nar. Grazie al suo “pentimento” si fece solo pochi mesi di carcere dei molti anni che avrebbe dovuto scontare per reati contro il patrimonio, tornando in libertà perché “gravemente malato”. La diagnosi non lasciava speranze: adenocarcinoma del pancreas con metastasi in tutto l’ambito peritoneale. Come egli sia riuscito a sopravvivere per ben 23 anni a una tale sentenza di morte si deve al fatto che le sue lastre vennero dolosamente scambiate con quelle di un malato effettivo. Ulteriori radiografie, che accertarono come lo Sparti fosse sanissimo, scomparvero poi in un “strano” incendio… Non basta: il figlio, la moglie e la suocera che il miracolato aveva coinvolto per accreditare la sua accusa, lo smentirono. Il figlio dichiarò anche che, in punto di morte, il padre gli aveva confessato di avere sempre mentito riguardo alla strage.
Sulla presenza di Fioravanti e Mambro alla stazione di Bologna ci sono solo le parole di un tale personaggio, mentre è attestato che intorno alla scena dell’orrendo delitto si aggirasse una nutrita schiera di esponenti del terrorismo mediorientale e di estremisti di sinistra italiani disponibili a fiancheggiarli, sui quali o non si è indagato o lo si è fatto in modo superficiale. Per esigenze di brevità, ne citiamo solo alcuni,  incominciando dal tedesco Thomas Kram, legato alla rete terroristica di Carlos, lo “sciacallo”, un gruppo  conosciuto per i suoi rapporti con i Servizi di alcuni Paesi dell’Europa dell’Est e con movimenti radicali e Stati del mondo arabo. Venne segnalata anche la presenza di Francesco Marra, un brigatista che il capo delle Br Franceschini sospettava fosse però un infiltrato. C’erano insomma elementi più che sufficienti per indagare su quell’intreccio tra gruppuscoli dell’estrema sinistra italiana e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, legato all’Urss, il cui capo, George Habash, si era dimostrato infuriato per la carcerazione del suo rappresentante in Italia il 13 novembre 1979, in conseguenza delle indagini seguite all’arresto di tre  autonomi del Collettivo romano di via dei Volsci, sorpresi a trasportare due missili terra-aria. Fu l’evento che segnò, agli occhi di un certo mondo radicale palestinese, la fine del cosiddetto lodo Moro.
Negoziato alla fine del 1973 dall’allora ministro degli Esteri Aldo Moro, questo patto segreto, che i giudici di Bologna ciecamente si ostinano a negare, in buona sostanza comportava una sorta di immunità per le azioni di organizzazione logistica e di trasporto di armi del Fpl di Habash in Italia, in cambio della loro promessa di astenersi dall’effettuare attentati sul nostro territorio. Il colonnello Stefano Giovannone, capo del Sismi a Beirut e profondo conoscitore delle dinamiche dei vari gruppi armati arabi, aveva inviato a Roma rapporti allarmati sulla volontà del Fronte popolare di vendicarsi di quello che riteneva un tradimento. La verità effettuale non la possiede nessuno, ma è certo che se i magistrati avessero indagato anche intorno a questi scenari, invece di scegliere “politicamente” solo la pista fascista, oggi ci saremmo comunque molto vicini.
Quello che resta è l’immagine desolante di un Paese che, a distanza di decenni, si nasconde ancora dietro a segreti di Stato e a un’autoconsolatoria fiction incentrata sui “mostri neofascisti”. Sappiamo bene che la sovranità italiana, dopo la sconfitta della Seconda guerra mondiale, è sempre stata debole e intermittente, e non ci scandalizziamo per accordi inconfessabili miranti a proteggere il nostro Paese; lo stesso Mitterrand sembra avere siglato un patto simile con i palestinesi. Ci dà fastidio, e ci fa anche un po’ schifo, la retorica dell’impegno di cui gran parte della cosiddetta società civile continua ad ammantarsi. Facile, per grandi e piccole celebrità, inginocchiarsi in nome di George Floyd, un po’ più impegnativo battersi per rimuovere quella menzognera targa alla stazione di Bologna in ricordo della strage. Che è un insulto perenne ai caduti.