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Tortura

di Livio Cadè - 22/08/2021

Tortura

Fonte: Ereticamente

“Il silenzio aiuta il carnefice, mai il torturato”.
(Èlie Wiesel)

Universalità della tortura

Gli indiani d’America venivano abituati fin dall’infanzia a sopportare il dolore fisico e a infliggerlo. Sappiamo da fonti affidabili che era usanza comune in certe tribù, come tra i famigerati Apaches, sottoporre a sofferenze inenarrabili i prigionieri, spesso inermi coloni. Questa crudeltà, priva di alcuno scopo pratico, costituiva parte integrante della tipica fierezza, o ferocia di quella gente. L’uomo ‘civilizzato’ trova difficile giustificare costumi tanto barbari. La tendenza comune è di condannarli con raccapriccio. Oppure di spiegarli razionalmente con l’idea del ‘selvaggio’ o della condizione psicopatologica.
Questo è in fondo un tentativo di negare la natura universale della tortura, la sua regolare presenza nella storia dell’uomo e della civilizzazione. E forse anche di negare quelle componenti della psiche umana che oggi si definiscono ‘sadiche’ e che convivono in ogni uomo a stretto contatto con le più nobili istanze etiche e religiose. Lo stesso cristianesimo ha incarnato questa drammatica e paradossale ambiguità. È noto che la Chiesa, per difendere la purezza di una dottrina d’amore e di perdono, ha per secoli accettato la tortura come strumento di indagine nella valutazione di sottili questioni metafisiche e teologiche. I tribunale dell’Inquisizione e figure come Torquemada (nomen omen, visto che la parola ‘tortura’ deriva dal latino torquere) stendono un’ombra sinistra sulla storia del cristianesimo. E gli invasori cristiani, quando sbarcarono nel Nuovo Mondo, portavano con sé la loro raffinata arte dei tormenti.
Si sa che i soldati messicani o anglo-americani, in perenne conflitto con i nativi, non lesinavano le atrocità e le torture. Fin dal XVI secolo gli Spagnoli perpetrarono atti di violenza orripilanti contro le popolazioni occupate. È difficile dire se gli ‘indiani’ appresero da loro gli efferati metodi di tortura che applicavano ai nemici o se li avessero sviluppati autonomamente già prima della colonizzazione. Su tale questione si può solo congetturare ma è indubbio che i conquistadores furono grandi maestri della tortura.
Le ‘tribù’ cattoliche degli eruditi gesuiti, degli eloquenti domenicani (domini canes) e degli umili francescani, tutti esperti inquisitori, avevano familiarità con l’applicazione dei tormenti. Gli interrogatori cui erano soliti partecipare non avevano nulla da invidiare alle più strazianti pratiche delle tribù indigene. La razza bianca, del resto, ha sempre praticato la tortura. Ma credo che lo stesso si possa dire di ogni civiltà in generale. Perché è la violenza che regola le relazioni tra gli uomini, e la tortura è semplicemente l’esito estremo di una normale consuetudine.
La tortura può avere caratteri fisici, mentali, morali. Può avere finalità pratiche, politiche, giuridiche, religiose, o esprimersi in forme di piacere morboso. Tutti torturiamo e veniamo torturati. I genitori torturano i figli, gli insegnanti torturano gli allievi, gli amanti si torturano reciprocamente, Dio tortura chi ama e predispone per i peccatori impenitenti eterni supplizi, la natura ci infligge infiniti dolori, e ogni uomo passa gran parte della sua vita a tormentare sé stesso.
È significativo che proprio uno strumento di tortura, la croce, sia il simbolo della civiltà occidentale. Tale fatto ci ricorda per altro la crudeltà dei supplizi in vigore nella nobile civitas romana. Il diritto romano prevedeva la tortura (quaestio) negli interrogatori. Secondo alcuni tale procedura era riservata ai soli schiavi. In realtà, anche se in misura minore, gli stessi liberi ne facevano le spese, nonostante si sollevassero a riguardo alcune controversie giuridiche. Ma nelle moderne democrazie, dove vige l’égalité,  tali difficoltà non hanno più ragion d’essere, e ognuno ha lo stesso diritto d’esser torturato. Di fatto, non v’è dubbio che anche in quegli Stati in cui è stata teoricamente abolita, ancor oggi si ricorre alla tortura. Come direbbe il Beccaria, “è una crudeltà consacrata dall’uso”.
Bisogna porre tuttavia una netta distinzione tra l’uso della tortura come atto rituale o come strumento giuridico. Nel primo caso può rispondere a una finalità sacra. Nel secondo si riduce a forma violenta di persuasione per estorcere una confessione e giungere alla ‘verità’ in un procedimento giudiziario. Il rapporto tra la tortura e l’affidabilità di una confessione è materia complessa. Già Quintiliano, molto prima di Beccaria e degli illuministi, riconosceva l’incertezza di tale procedura: “mentietur in tormentis qui dolorem pati potest, mentietur qui non potest”. Chi sopporta il tormento mente, e chi non lo sopporta mente lo stesso. La tortura sembra quindi pregiudicare a priori l’accesso alla veritas cercata, anche se, in realtà, la relazione tra il tormento e la sincerità di una confessione è più sottile e complesso.
Il testo del Beccaria sui delitti e sulle pene, nega l’utilità della tortura come strumento d’escussione. De Sade, suo contemporaneo, ne riscopre l’utilità come strumento di piacere. Ma, prescindendo da calcoli utilitaristici, si può rifiutare la tortura a priori, semplicemente per ragioni etiche. Tranne accorgersi poi che può tornare utile in certi casi. Per esempio, per cavare da un terrorista informazioni utili a sventare un attentato e salvare così la vita di tanti innocenti. Allora capita che anche l’uomo ‘mite’ non sappia resistere alla tentazione di giustificare una pratica così disumana. E a poco serve ricordargli che tali sistemi lo rendono simile al male che vuole combattere.
Di fatto, a molti di noi sembra giusto che, laddove non sia turpe sfogo di passioni, la tortura venga ammessa per un senso del dovere, per difendere un ‘bene comune’, per un ideale ‘altruistico’. Queste ragioni ci autorizzano a sacrificare i nostri scrupoli morali. Siamo pronti, per assolvere la nostra missione di bravi cittadini, a trasformarci in carnefici e in torturatori. E in occasione di guerre o rivoluzioni, è sconcertante vedere quanto rapidamente, come per un eccezionale processo alchemico, persone ‘normali’ si trasmutino in assassini e ‘giustizieri’.
Perché si realizzi questo processo di trasmutazione interiore è necessario cristallizzare in sé un’immagine del Nemico, fare di qualcuno lo spettro oscuro che incombe su di noi e ci minaccia, entità astratta in cui confluisce l’intima essenza del Male. L’attività psichica che porta alla cristallizzazione del nemico è in fondo il rovesciamento speculare di quel fenomeno che Stendhal pone all’origine dell’amore erotico. Miscuglio di fantasie, paure e rappresentazioni fallaci. Una volta realizzata quest’opera di cristallizzazione, ogni violenza nei confronti del Nemico verrà giudicata necessaria, giusta, doverosa, e riscuoterà l’approvazione della comunità.
La violenza sul Nemico viene percepita come fondamento del benessere sociale. La tortura stessa diviene rimedio legittimo e purificante. Si può usare qualcuno come capro espiatorio o sacrificarlo per ricavarne un vantaggio comune. Così, i soggetti sospettati di praticare ‘magia cattiva’ venivano bruciati a fuoco lento dagli indigeni americani per espellere da loro quegli spiriti malvagi che potevano nuocere alla tribù. Per lo stessa ragione la Chiesa mandava al rogo streghe ed eretici. I dissidenti politici venivano mandati dai comunisti in Siberia. I non vaccinati vengono oggi lasciati senza lavoro. A prescindere dalle varie forme ufficiali che può assumere, la tortura viene interpretata come misura necessaria a difendere gli interessi di una maggioranza.
La storia tramanda innumerevoli esempi di brutalità compiute con le migliori intenzioni, a fin di bene. Prima che il cristianesimo ne abolisse i costumi pagani, varie popolazioni europee praticavano regolari forme di supplizio per ingraziarsi gli Dei o gli Spiriti della natura. Gli antichi Celti costruivano gigantesche sagome umane in vimini, vi rinchiudevano persone e animali e accendevano grandiosi falò. Mentre gli sventurati venivano arsi vivi, la popolazione danzava festosa e copriva le urla disperate con canti di gioia. Tale consuetudine, che a occhi moderni può apparire barbara, si è persa nel tempo. Le feste di primavera che ancora pochi secoli fa si svolgevano nelle zone rurali del Nord Europa si limitavano ad arrostire gatti vivi chiusi in un sacco, pallido residuo della maestose celebrazioni del passato.
I sacrifici umani, volti a propiziare il raccolto, erano comuni a tutte le arcaiche civiltà contadine. Le persone venivano maciullate e sparse come concime sui campi, impalate, tagliate a fettine e mangiate vive. Il supplizio doveva essere lento e terribile. Le lacrime della vittima erano infatti auspicio di pioggia. Si direbbe che tali riti rispecchino la crudeltà della natura, la sua indifferenza al dolore e alla morte. O che, come rimedi omeopatici, tentino di esorcizzare con l’orrore ataviche paure.
La fede in un rapporto simpatetico tra simbolo e realtà sostiene tali cerimonie e ne promette l’efficacia. Seppellire vivo un uomo, come il seme del grano, decapitarlo come una spiga matura, scuoiare una vergine e indossarne la pelle, allegoria di una natura intatta che muore e rinasce, sono atti con cui si fa pressione sulla realtà. Questa visione permea anche il pensiero religioso. Nell’offerta di carne e sangue del banchetto eucaristico, nella crocifissione e resurrezione, si scorgono i riflessi di quei primordiali rituali magici.
Credenze magiche si traducono in ossessioni nevrotiche, in gesti scaramantici, in formule apotropaiche e preghiere di uso comune. Ogni epoca ha le sue superstizioni, anche la nostra era scientifica, che spiega gli eventi naturali non con l’arbitrio degli Dei ma con cause fisiche e leggi meccaniche. Eppure, anche in questi giorni, vediamo persone camminare da sole sotto la canicola o restar chiuse in macchina col volto coperto da una maschera, per paura di fantomatici virus, come di misteriosi demoni dell’aria.
Non so se spargere il sangue o le lacrime di qualcuno rendesse il terreno più fertile. Non discuto il valore di simili credenze, che mi paiono né più né meno razionali delle nostre. Ma se penso alle vittime di quelle antiche superstizioni, sono scosso da uno sconcerto di raccapriccio e da pietà. Tuttavia, non abbiamo il diritto di giudicare abominevoli quei costumi. I druidi agivano a fin di bene, convinti di assicurare il cibo alla comunità. Come dice il sommo Sacerdote: “voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo”.
Di questa efferatezza con intenti umanitari è piena la storia. La gente veniva data in pasto alle belve per offrire al pubblico un piacevole diversivo, gli eretici erano condannati al rogo per estirpare le false dottrine, i magistrati torturavano gli indiziati per conoscere la verità e la folla sgomitava nelle piazze per godersi lo spettacolo di individui squartati o arrotati. Noi sganciamo bombe e bruciamo intere città coi loro abitanti per portar pace e democrazia.
Non chiudiamo più dodici gatti in un sacco per cuocerli vivi in piazza a primavera, ma ogni giorno in un laboratorio, indossato un camice bianco, seviziamo migliaia di cani e gatti con metodico sadismo. Se le grida turbano il nostro animo sensibile, tagliamo loro le corde vocali. Possiamo così brevettare farmaci che servono a incrementare gli utili di qualche multinazionale. E siamo convinti che gli orrori degli allevamenti e dei mattatoi valgano il piacere di una bistecca. Mi chiedo dove sta la differenza, se non nella nostra più evoluta tecnologia.
Alla fine, dietro le nostre nefandezze immaginiamo sempre una buona causa. Il cinico dirà che questa umanità, stirpe di carnefici e di macellai, è incurabilmente egoista e malvagia. Troverà una giustificazione politica ai massacri, una spiegazione antropologica agli stupri di guerra, metterà la sua brutalità nel conto dell’evoluzione. Ma se guardiamo la storia umana, questa sequela di follie e violenze, se la osserviamo e lasciamo che il cuore sia giudice, sentiamo che tutto questo è disumano.
L’anima che in noi si ribella e rifiuta i furiosi inferi della nostra natura, coglie un’istintiva verità: questo uomo non è più umano. Qualcosa ne ha alterato lo stampo originale. Avidità, collera e paura, senza i freni dell’istinto, diventano nell’uomo demoni che lo spingono a eccessi brutali. Questo essere debole e inerme, che non ha zanne né artigli, né forza, né velocità, è diventato il più spietato e temibile dei predatori. Egli preda ogni cosa, compresi i suoi simili e sé stesso.
L’uomo ha eretto una società da incubo, basata sul culto della forza e di idoli feroci, dove il più debole è sopraffatto e freddamente immolato. La luce della sua coscienza è stata incatenata, la sua parte oscura prevale. E chi, guardando alla società attuale, dicesse che ci siamo liberati di quei fantasmi maligni, cadrebbe vittima di un grossolano trompe-l’œil, della pomposa e vuota retorica sui valori democratici e liberali della nostra società.
Se guardasse più a fondo, vedrebbe che siamo circondati dalla violenza oggi come sempre. Non ce ne accorgiamo perché colpevolmente la rimuoviamo dalla coscienza. Ma la nostra crudeltà fa brace come il fuoco sotto la cenere, aspettando un pretesto per divampare. Aspettiamo solo che una nobile causa, un ideale, un valore, ci permetta di scatenare le nostre forze infere, di liberare quelle pulsioni che l’ipocrisia della nostra società cerca di nascondere con operazioni di cosmesi morale o religiosa.

La tortura a Vaccilandia
Per conferire al discorso un carattere d’attualità basterebbe guardare al nostro Paese, l’ex Repubblica italiana, oggi annessa al Regno di Vaccilandia. È infatti evidente che il montante fanatismo vaccinale ci spinge ormai non solo a vertici assoluti di stupidità ma anche verso nuove forme di tortura e di persecuzione. Vaccilandia è infatti un luogo dove ti possono regalare un gelato, un biglietto per la ruota panoramica o il labirinto degli specchi, purché ti vaccini. Ma dietro questa sorridente bonomia allignano la falsità e la violenza. E non puoi farti scudo della legge, perché a Vaccilandia la legge stessa è fonte di illegalità.
Non esiste più una Repubblica fondata sul lavoro, dove il popolo è sovrano, ma un Regno fondato sul vaccino, dove il popolo non conta nulla e la vecchia Costituzione viene calpestata con assoluta noncuranza.  Il valore del ‘lavoro’ come fondamento della società è stato sostituito dal valore della ‘vaccinazione’, al punto che si impedisce di lavorare o di avere una vita sociale a chi non si vaccina.
È questa la tortura che si è deciso di infliggere ad alcuni soggetti la cui unica, presunta colpa, è di essere ‘asintomatici’. Lo scopo del supplizio pare sia procedere a una purificazione magica della società o alla creazione di una nuova razza umana. E la buona riuscita del rituale comporta nuovi olocausti e sacrifici, dolorose cerimonie propiziatorie, celebrazione di misteri e azioni apotropaiche di vario genere. La teatrale rappresentazione di una ‘pandemia’ ha fatto da sfondo e da pretesto ideologico per poter applicare i protocolli di una lunga e inesorabile tortura.
Non dobbiamo tuttavia nasconderci l’oscura complicità tra il carnefice e la vittima. Il torturatore ha convinto il torturato ad accettare la sua sofferenza come una necessaria catarsi. Da un lato ha stimolato in lui quel torbido masochismo che porta molti a godere nel sottomettersi e nell’ubbidire. Dall’altro, ha favorito l’adesione e il consenso della massa cristallizzando nel subconscio collettivo un valore supremo e indubitabile.
A tal proposito, ho ripensato alle parole di Nicolai Hartmann: «Ogni valore – una volta che ha acquistato potere su di una persona – ha la tendenza di erigersi a tiranno esclusivo dell’intero ethos umano, ed invero alle spese di altri valori, anche di quelli che non gli sono diametralmente contrapposti». Bisognava dunque indurre nella gente di Vaccilandia una cecità o indifferenza per i valori che non fossero direttamente connessi all’ordo vaccinalis.
Tali valori, come la libertà o il lavoro, andavano cancellati per non offuscare la totale supremazia del Valore Unico. E chi non ha accettato questa egemonia del ‘Vaccino’ nella gerarchia dei valori è stato additato come eretico, meritevole d’esser dato alle fiamme. Si spera per ora solo metaforicamente. Ma non è escluso che si arrivi prima o poi al “fiat vaccinus, pereat mundus”.
Perché il ‘Vaccino’ non è più semplicemente un farmaco finalizzato a una profilassi medica. Questa sua natura pragmatica, cioè la sua capacità di immunizzare le persone, di salvarle dal rischio di contagiare o di essere contagiati, la sua sicurezza e la sua utilità, sono state ampiamente smentite dai fatti. Ma la sua inefficacia o la sua dannosità non hanno rilevanza, perché il ‘Vaccino’ non è più un mezzo ma un fine. Si è saldamente insediato nella mente delle persone come entità metafisica. Non va giudicato dall’esperienza e messo alla prova dai fatti, ma è simbolo di una trascendenza in cui aver fede.
In quanto ‘Bene Sommo’, è ormai un’ammorbante illusione, uno di quei principi astratti in nome dei quali si commettono di solito orribili massacri. Taine osserva che fu proprio invocando valori come la libertà e la fraternità che i Giacobini instaurarono «un dispotismo degno del Dahomey, un tribunale simile a quello dell’Inquisizione, con ecatombi pari a quelle dell’antico Messico». Trovo quindi enormemente rischiosi per la pace sociale i continui e ossessivi panegirici sul Vaccino come Valore assoluto.
In tal senso reputo pericoloso e scandaloso che un sedicente Pontefice parli della ‘vaccinazione’ dapprima come di un ‘dovere etico’ e poi, inerpicandosi sulle vette di uno zuccheroso romanticismo, lo definisca addirittura “gesto d’amore … amore per sé, per i familiari, gli amici, per tutti i popoli della terra”. Quasi a unire tutte le genti in un amoroso ed ecumenico abbraccio vaccinale. “Modo semplice ma profondo di promuovere il bene comune, di prenderci cura gli uni degli altri … forma di carità personale che contribuisce a creare un futuro migliore”. Ricordo che non stiamo parlando delle opere di misericordia del Beato Cottolengo ma di un intruglio sperimentale dai dubbi effetti.
Parole apparentemente vuote, fumosità retoriche, che in realtà celano un altro e ben diverso messaggio. Ed è strano che nessuno colga nelle affermazioni di questo mellifluo figuro, subdolo più che ingenuo, i germi della falsità e della violenza che vi sono nascosti. D’altro canto, non stupisce che un gesuita sappia ben dissimulare le intenzioni e il senso delle parole che usa.
Così, nessuno trova strano che l’inocularsi un siero venga assimilato all’amore, cioè al valore fondante della dottrina del Cristo. Ma è evidente che identificare quest’atto farmacologico con la carità cristiana implica che chi non lo compie si esclude da sé dalla dimensione del Bene. Diventa un pagano, un infedele, un eretico. Le affermazioni di questo Papa posticcio, di certo non ispirato dallo Spirito Santo ma da qualche consorteria di malaffare, nascondono quindi l’appello a una Santa Crociata in nome dell’amore, ossia del ‘Vaccino’, contro chi ancora rifiuti i dogmi della Chiesa vaccinale e il suo messaggio di salvezza.
Non a caso il cosiddetto Pontefice evita ogni riferimento alle abominevoli leggi razziali con cui il regno di Vaccilandia vuol colpire i non vaccinati. Non una parola o una preghiera viene sprecata in favore di tutte quelle famiglie che resteranno senza lavoro, ridotte all’indigenza, solo perché non intendono far da cavie a una sperimentazione incerta e pericolosa. Evidentemente, nell’ottica del Santo (sic!) Padre, tali persone rappresentano una categoria cui non è dovuto rispetto o amore perché rifiutando il ‘Vaccino’ rifiutano il Bene, chiudono il loro cuore alla Grazia.
E dato che ogni valore proietta l’ombra di un disvalore opposto, le persone renitenti al ‘Vaccino’ finiscono con l’incarnare l’odio, la mancanza di carità, il Male. A questo punto, il richiamo all’amore rivela la sua vera natura di appello all’odio, alla lotta contro chi, sedotto dal demonio, rifiuta il sacramento vaccinale, cioè rinnega Dio. Perché Dio è amore, il ‘Vaccino’ è amore, quindi il ‘Vaccino’ è Dio. Prepariamo dunque le torture e i roghi. Facciamolo per amore, per carità, per un futuro migliore.
Dobbiamo per altro ricordare che nella dottrina cristiana l’amore non è smanceria sentimentale o desiderio erotico, ma atto di sacrificio per gli altri. Quindi, si può supporre che questa grottesca imitazione di Papa, benché digiuno di cose sacre, abbia implicitamente o inconsciamente, forse tradito dalla cattiva coscienza, alluso al fatto che accostarsi al santo ‘Vaccino’ comporta un reale pericolo per la salute e per la vita. Come si spiegherebbe se no la necessità  di evocare l’aspetto oblativo, quasi sacrificale del gesto?
Su questa falsariga si pone secondo me anche l’esternazione di un importante esponente delle istituzioni politiche, il quale non ha certamente qualità di statista né di uomo politico, ma neppure lo si può credere tanto analfabeta e sprovveduto da dire con convinzione quello che ha detto, cioè che “chi non si vaccina muore”. Nessun medico, neanche in stato di ubriachezza, direbbe una simile scempiaggine. Come può dunque un uomo dello Stato farne una dichiarazione ufficiale?
I membri della Santa Commissione Scientifica non hanno tuttavia creduto necessario rettificare un’affermazione così scientificamente ridicola. Perché? A questa incomprensibile omissione c’è una semplice spiegazione. È una pura questione esegetica. Anche il governante di Vaccilandia ha infatti radici gesuitiche. Sa che le parole usate non devono appellarsi alla ragione o alla verità. Devono solo persuadere, manipolare, suscitando in chi le ascolta le opportune reazioni emotive.
Così, il suo “chi non si vaccina muore” non ha affatto natura di affermazione scientifica, e sarebbe stato  incongruo interpretarlo in tal senso, ma è in realtà minaccia e ricatto sociale. Si potrebbe tradurre: “se non vi vaccinate, io (la Legge) vi farò morire (di stenti)”. In tal modo l’insensatezza dell’equazione tra il non vaccinarsi e il morire diviene perfettamente sensata e comprensibile. E tuttavia rimane sconcertante, perché pone sullo stesso piano due realtà assolutamente sproporzionate.
Infatti, “o ti vaccini o muori di fame” è un ricatto tanto infame quanto assurdo. Perché uno, pur di non farsi una banale iniezione, dovrebbe essere tanto folle da scegliere di non aver più di che vivere, lui e la sua famiglia? E perché forzarlo a decidere in merito a un’opzione tanto paradossale? Non ha senso. Logico sarebbe dire: “vuoi morire di vaccino o morire di inedia?”. Questo è un ricatto abbastanza simmetrico. Non certo piacevole, ma logico ed equilibrato. Ma esporlo in tale forma esplicita presuppone l’ammissione che questo ‘vaccino’ comporta rischi gravi, forse mortali. Il che ovviamente va taciuto. Dunque, “chi non si vaccina muore” e “vaccinarsi è un gesto d’amore” sono entrambe formulazioni dettate dalla cattiva coscienza.
Alla luce di questa succinta esegesi, possiamo dunque supporre che i due notabili del regno di Vaccilandia, con la loro doppia ammonizione, abbiano interpretato i ruoli canonici dei due poliziotti, il ‘buono’ e il ‘cattivo’. Quello cattivo comincia minacciando di usare le maniere dure, o addirittura di spedirvi all’altro mondo, se non vi decidete a fare quello che vi chiede. L’altro interviene cercando di mitigare i toni, di condurre il reprobo al pentimento con parole più dolci, promesse di perdono, di clemenza. Perciò era necessario, dopo il bastone, la carota, dopo l’ombra della morte, il sorriso dell’amore.
E se né Thanatos né Eros riusciranno a convertire i cuori più induriti, si passerà alla violenza fisica, alla tortura. Non per estorcere la verità, che non interessa a nessuno, ma per piegare le menti al dogma vaccinale e costringere i corpi a cedere. Come si offriva un tempo ai primi cristiani l’alternativa tra il sacrificare agli idoli e il martirio. I più pervicaci verranno presi, deportati, forse chiusi in grandi sagome di vimini e bruciati, offerti in sacrificio di espiazione al Dio Vaccino.
Perché la nostra società si regge sulla violenza, non sull’amore e la pietà. La propaganda vaccinale ha iniettato nel cuore degli uomini il triplice veleno dell’odio, della paura e dell’ignoranza. Con l’avallo dell’autorità politica, religiosa e scientifica, con il servile aiuto dei media, si continuerà dunque a torturare. E la gente perbene approverà. Forse qualcuno, più delicato, si girerà dall’altra parte per non vedere.
Del resto, i benpensanti son sempre stati e sempre saranno conniventi con le scelleratezze del Potere, anche le più abiette. A maggior ragione l’uomo moderno, il più superstizioso e angosciato, probabilmente il meno libero tra gli uomini della storia. Uomo disumano, che non crede più all’onnipotenza e alla misericordia di Dio ma solo al potere della tecnica e del denaro, e ubbidisce ciecamente alle nuove, implacabili divinità. Non sa che essere uomini non è una questione di nascita ma una decisione.
L’uomo di vimini in cui veniamo immolati è la moderna società aggressiva e affarista. Legati mani e piedi, con il cuore e il cervello impastoiati, siamo chiusi nel gigante del Mercato, della Finanza, dei Poteri Occulti, e inceneriti. Ma è un sacrificio inutile. I grandi sacerdoti del Dio Profitto ingannano la gente promettendo rifiorenti primavere. Distruggono popolazioni intere per propiziare crescite o reset economici di cui pochi assaggeranno i frutti. Spremono lacrime a milioni di persone per far piovere denaro nelle tasche di pochissimi già vergognosamente ricchi. Più saggiamente, con onesta franchezza, i Celti bruciavano pochi uomini perché tutti avessero un po’ di buon grano.