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Oligarchie di partito

di Gianni Barbacetto - 03/04/2007

Fonte: pieroricca

 
Gianni Barbacetto ha appena sfornato il suo ultimo libro. “Compagni che sbagliano”, edito da Il Saggiatore, nel quale fa un’analisi disincantata della realtà politica italiana a partire dai fatti dell’ultimo anno. Sarà in libreria nei prossimi giorni. Eccone uno stralcio, in tema di oligarchie di partito.


“Già, i partiti. Vivono in Italia un momento strano: sono al minimo storico di credibilità e capacità d’egemonia culturale, ma non hanno mai avuto così tanto potere. Negli anni ottanta della Prima Repubblica, fino al cruciale 1992 di Mani pulite, si era tanto polemizzato sul loro strapotere e la loro arroganza. Ma allora, almeno, i partiti esistevano. Avevano un seguito di massa. Avevano identità, strutture, classe dirigente. La partitocrazia era certamente un’indebita occupazione di spazi di potere, ma a opera di formazioni con alle spalle migliaia di militanti e valori condivisi.

Oggi di tutto ciò è rimasto ben poco, a destra e a sinistra. Sono restati gli apparati. E la loro prosopopea. Qualcuno prova a sperare che la costituzione del partito democratico possa risolvere ogni problema: ma quale partito democratico? Come e con chi? Non è cambiando il nome della cosa che si rinnova davvero la cosa, non è sommando due élite politiche (quelle di Ds e Margherita, oltretutto divise anche al loro interno) che si crea un partito davvero nuovo. Quando Salvatore Vassallo, al seminario di Orvieto sul partito democratico, nell’ottobre 2006 ribadisce l’elementare principio di democrazia «una testa, un voto» e parla di «popolo delle primarie» e perfino di «gazebo», vede davanti a sé, nella platea, gli sguardi corrucciati e le smorfie di disgusto di Ciriaco De Mita e Massimo D’Alema.

«Gazebo»: evoca le interminabili file di cittadini corsi a votare alle primarie, ricorda il popolo del centrosinistra che si mobilita in tutta Italia. Una forza tranquilla, inaspettata, imprendibile, ingovernabile per i partiti: ecco perché «gazebo», per le élite politiche, è diventata una parolaccia. In attesa del nuovo partito, comunque, continuano a tenere la scena le formazioni esistenti: i Ds, la Margherita e tutti gli altri, con i loro gruppi dirigenti, le correnti interne, i capi e i capetti. E gli imbrogli. Nella Margherita per esempio esplode lo scandalo delle tessere. A Striscia la notizia sfilano uomini e donne che sventolano la tessera del partito ricevuta per posta senza averla mai chiesta. A Torino sono segnalati casi di tessere intestate a cittadini defunti. A Modena si triplicano miracolosamente in pochi mesi. A Roma crescono da 50.000 a 70.000, più delle preferenze ricevute alle elezioni. A Terni la Margherita ha 5.000 iscritti, quanti i voti. In Calabria ha più tessere che voti…

L’imbroglio falsa il rapporto tra i cittadini e la politica, mina le basi della democrazia. Ma, in fondo, nessuno si stupisce troppo. Lo scandalo passa senza troppe scosse. E il sistema dei partiti, di destra e di sinistra, prosegue la sua corsa. Il Sip (sistema informale dei partiti) continua a perdere consensi e accumulare poteri. È multiforme ma solidale, attraversato da grandi conflittualità che convivono con profonde solidarietà trasversali. È l’insieme di forze e debolezze intrecciate, una cosa mischiata al suo contrario. Sembra una specie di pantheon indù incrociato con Paperopoli: strane creature dalle cento mani protese, esseri con metà del corpo informe, bambini dalla testa d’elefante.

Con il saldo controllo degli apparati, dell’informazione televisiva, del destino di molti cittadini. E una struttura fortemente oligarchica, a dispetto delle regole apparenti e dei riti esibiti. Con la nuova legge elettorale, una decina di persone ai vertici degli apparati di partito impone i nomi dei candidati alle elezioni e il loro posto in lista, decidendo così chi sarà eletto e chi no. I nomi dei nuovi parlamentari sono noti, con limitatissime incertezze, già prima delle elezioni. Ogni capo d’apparato sa chi tra i suoi passerà: ormai non sono eletti, ma nominati; a scegliere non sono gli elettori, ma la nomenklatura dei partiti.

Certo, la legge elettorale che ottiene questo bel risultato l’ha voluta il centrodestra. Uno dei suoi padri, il leghista Roberto Calderoli, l’ha definita una «porcata». Ma il centrosinistra non l’ha subita, l’ha invece felicemente utilizzata per regolare i conti interni. Altrimenti, per scegliere i suoi candidati avrebbe potuto lanciare le primarie, che sarebbero state oltretutto un grande momento di discussione nel paese e, perché no, anche di campagna elettorale. Non avevano avuto questo effetto anche quelle per il candidato premier? Il 16 ottobre 2005 Romano Prodi le aveva stravinte con un risultato clamoroso e inaspettato: a votare erano andati volontariamente più di quattro milioni di cittadini, che avevano raggiunto i famosi «gazebo» e avevano dato il loro nome e almeno un euro.

Quanti saranno stati, tra i votanti, gli iscritti ai partiti? Mezzo milione, ottocentomila? Tutti gli altri erano cittadini, cittadini italiani che investivano, con nome e cognome e speranza, nel futuro del loro paese. Un anno dopo, a elezioni vinte, scoppia il giallo degli elenchi: dove sono i file degli elettori delle primarie, con nome, cognome, indirizzo, numeri di telefono, professione, cifra versata? È la più preziosa banca dati politica mai creata in Italia. Chi può legittimamente detenerla e utilizzarla? Ugo Sposetti, il tesoriere dei Ds, sbotta: «Ma le primarie le abbiamo organizzate noi!».

Prodi, del resto, la sua grande occasione l’ha persa il giorno dopo le primarie: avrebbe dovuto lanciare subito una sua lista di rinnovamento dell’Italia; o almeno dire chiaro e netto quali spazi d’autonomia si sarebbe preso. Non lo ha fatto: e da quel giorno le oligarchie di partito hanno lavorato per far dimenticare le primarie e per mantenere il loro potere”.