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Salviamo il pianeta: stop ai bio-carburanti per cinque anni

di George Monbiot - 03/04/2007


I combustibili generati dalle piante spingono verso una competizione per le risorse alimentari tra uomini e macchine. Una competizione che l’uomo – e l’ambiente – sono destinati a perdere

Di solito si trattava di buone intenzioni andate per il verso sbagliato, ma questa volta ci troviamo di fronte ad una pura e semplice frode. I governi che ricorrono ai bio-carburanti per fronteggiare il riscaldamento globale, infatti, sono consapevoli che questi provocano più danni che benefici. Ciononostante, proseguono imperterriti per la loro strada. In teoria, in effetti, i carburanti ottenuti dalle piante riducono l’ammontare di biossido di carbonio emesso dai veicoli: le piante, crescendo, assorbono il carbonio, che viene nuovamente rilasciato quando il combustibile brucia. Così, da una parte all’altra dell’Atlantico, i governi dichiarano di occuparsi della ‘decarburazione’ delle nostre reti stradali, incoraggiando le società di combustibili a passare dall’uso di piante fossili a quello di piante viventi.

Un paio di settimane fa, durante una presentazione di bilancio, il ministro del Tesoro britannico Gordon Brown ha annunciato l’intenzione di estendere fino al 2010 il rimborso d’imposta per i bio-carburanti. A partire dal prossimo anno, inoltre, tutti i fornitori del Regno Unito dovranno assicurare che il 2,5% del combustibile da loro venduto venga prodotto dalle piante; in caso contrario, saranno costretti a pagare una multa di 15 pence al litro. Nel 2010 la percentuale salirà al 5%, finché nel 2050, secondo le speranze del governo, il 33% del carburante sarà ottenuto dalle colture. Il mese scorso George Bush ha annunciato l’intenzione di quintuplicare l’obiettivo statunitense per la produzione di bio-carburanti: entro il 2017 gli Stati Uniti dovrebbero coprire il 24% del fabbisogno nazionale di carburante.

Dunque cosa c’è di sbagliato in questi programmi? Semplicemente, il fatto che costituiscono la ricetta perfetta per una catastrofe ambientale ed umanitaria. Sempre su questo quotidiano [il Guardian, NdT], nel 2004, avevo già avvertito che i bio-carburanti avrebbero spinto ad una competizione per le risorse alimentari tra uomini e macchine. E, per forza di cose, sarebbero stati gli uomini a perdere: chi può permettersi di guidare una vettura è sicuramente più ricco di chi rischia di morire di fame. Ciò, inoltre, avrebbe portato alla distruzione delle foreste pluviali e di altri fondamentali habitat naturali. Di tutti gli editoriali che ho scritto, nessuno mi ha mai guadagnato tanti insulti (tranne quello in cui attaccavo i cospiratori dell’11 settembre). Mi è stato detto che le mie tesi erano assurde, ridicole, impossibili. In effetti, da un certo punto di vista, mi ero sbagliato: pensavo sarebbero passati molti anni prima di iniziare a vederne gli effetti, e invece si stanno già concretizzando.

Dall’inizio dello scorso anno, infatti, il prezzo del mais è raddoppiato. Anche quello del frumento è salito, raggiungendo il livello più alto registrato negli ultimi dieci anni; nel frattempo, le riserve mondiali di entrambi i cereali hanno raggiunto il minimo degli ultimi venticinque anni. In Messico ci sono già state rivolte per le questioni alimentari, e, a livello mondiale, i poveri sono sempre più sotto pressione. Il Dipartimento per l’Agricoltura degli Stati Uniti ha avvertito che «in caso di siccità o di un raccolto molto scarso, il paese potrebbe trovarsi di fronte ad un periodo di instabilità simile a quello degli anni ’70; in ogni caso, se non si verificherà quest’anno, una riduzione delle riserve è prevista per il prossimo». Secondo la FAO, la ragione principale è la crescita della domanda di etanolo, un alcol utilizzato come carburante ottenuto da mais e grano.

Gli agricoltori risponderanno espandendo le coltivazioni, ma non è detto che saranno in grado di coprire la domanda. D’altra parte, anche se ci riuscissero, potrebbero farlo solo intaccando il terreno vergine di habitat naturali.

Sappiamo già che per il nostro pianeta il bio-carburante è più dannoso del petrolio. Secondo un rapporto recentemente pubblicato dalle Nazioni Unite, il 98% della foresta pluviale naturale indonesiana verrà deteriorato, o scomparirà, entro il 2022. Solo cinque anni fa, le stesse agenzie avevano predetto che questo non sarebbe accaduto prima del 2032. Ma non avevano pensato alle nuove piantagioni di palme da olio, necessarie per la produzione di biodiesel per il mercato europeo. Attualmente, questa è la causa principale della deforestazione in Indonesia, ed è probabile minaccerà la sopravvivenza dell’orango-tango allo stato brado.

Ma non finisce qui. Quando si bruciano le foreste, sia gli alberi sia la torba su cui essi crescono, si trasformano in biossido di carbonio. Uno studio condotto dalla società di consulenza olandese Delft Hydraulics rivela che ogni tonnellata di olio di palma prodotta ne scatena 33 in termini di emissioni di biossido di carbonio – una quantità dieci volte superiore a quella prodotta dal petrolio. Ciò significa che il biodiesel ottenuto dall’olio di palma contribuisce al cambiamento climatico in misura dieci volte superiore a quello dovuto al carburante ordinario.

In tutto il mondo si verificano analoghe ripercussioni: i produttori di canna da zucchero si spostano verso i rari habitat della savana brasiliana (cerrado), mentre i coltivatori di soia radono al suolo la foresta pluviale amazzonica. Inoltre, poiché Bush ha appena firmato un accordo con il presidente Lula sui bio-carburanti, è probabile si andrà incontro ad ulteriori infausti sviluppi. Le popolazioni indigene sudamericane, asiatiche ed africane cominciano a lamentarsi delle incursioni sulle loro terre da parte dei coltivatori di combustibili. Gli attivisti di duecentocinquanta gruppi hanno firmato una petizione lanciata da biofuelwatch (un gruppo che pone l’attenzione sull’impatto ambientale dei bio-carburanti) per chiedere ai governi occidentali di fermarsi.

Il governo britannico è ben conscio del problema. L’anno scorso il ministro dell’ambiente David Miliband ha annotato sul suo blog che ogni anno le piantagioni di palma da olio «devastano lo 0,7% della foresta pluviale della Malesia, riducendo una risorsa naturale di vitale importanza (e distruggendo al contempo l’habitat naturale dell’orango-tango). È tutto collegato». A differenza delle politiche di governo.

I governi, infatti, sono così entusiasti dei bio-carburanti perché grazie ad essi tengono calmi gli automobilisti: riducono l’ammontare di carbonio prodotto dalle nostre auto, senza esigere nuove tasse. Ma si tratta di una mera illusione, fondata sul fatto che nell’indice complessivo nazionale delle emissioni vengono considerate solo quelle domestiche. Così, la scomparsa della foresta della Malesia non aumenta di un grammo il nostro risultato ufficiale.

Lo scorso febbraio, la Commissione Europea si è trovata davanti ad una scelta obbligata tra il rendimento dei combustibili e i bio-carburanti. Bruxelles era intenzionata a comunicare alle compagnie automobilistiche che nel 2012 l’indice medio di emissioni di carbonio per le automobili di nuova produzione sarebbe sceso a 120 grammi per chilometro. Ma, dopo forti pressioni da parte di Angela Merkel mirate a ottenere leggi favorevoli per i propri produttori automobilistici, la Commissione ha ceduto e ha innalzato il limite a 130 grammi. Inoltre, ha reso noto che compenserà la differenza con l’aumento dei contributi per i bio-carburanti.

Londra ha affermato che «i fornitori di carburanti dovranno riferire sulla riduzione della quantità di carbonio e sulla sostenibilità dei bio-carburanti da essi forniti». In realtà, non sarà necessario fare nulla: si è già visto che se anche il governo Blair tentasse di imporre standard ambientali più elastici sui bio-carburanti, entrerebbe in collisione con le regole del commercio mondiale. Inoltre, i bio-carburanti “sostenibili” si limiterebbero ad occupare lo spazio di altre colture, causandone lo spostamento verso nuovi habitat. È stato promesso che un giorno si produrranno bio-carburanti di “seconda generazione”, ottenuti dalla paglia, dall’erba o dal legno, ma prima bisognerà superare ostacoli tecnici significativi. Inoltre, quando i nuovi carburanti saranno pronti, il danno sarà già stato fatto.

Abbiamo bisogno di una moratoria di tutti gli obiettivi di produzione e degli incentivi per i bio-carburanti, almeno fino alla creazione di quelli di seconda generazione, con un costo inferiore a quello dei combustibili derivanti dall’olio di palma o dalla canna da zucchero. E, anche allora, sarà necessario stabilire obiettivi bassi, da incrementare con cautela: personalmente, suggerisco un blocco di cinque anni.

Ciò richiederebbe un’enorme campagna di sensibilizzazione, ancora più dura di quella che, nel Regno Unito, ha portato al blocco delle colture geneticamente modificate per cinque anni. Quella era stata un’iniziativa davvero importante, soprattutto perché le coltivazioni geneticamente modificate forniscono alle grandi società un controllo sulla catena alimentare senza precedenti. La maggior parte degli effetti di questo tipo di colture, però, sono indiretti, mentre la devastazione causata dai bio-carburanti è immediata e già visibile.

Ed è proprio per questo che sarà ancor più difficile contrastarla: attualmente, grazie all’incoraggiamento da parte delle politiche governative, agricoltori e aziende del settore chimico stanno facendo enormi investimenti nel campo. Per fermarli sarà necessaria una lotta estenuante. Ma necessaria.

 

Fonte: The Guardian
Traduzione a cura di Alessandra Roana per Nuovi Mondi Media