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L'Europa si beve la propaganda statunitense

di Roberto Zavaglia - 15/04/2007

Che tra Stati Uniti ed Europa vi sia competizione, economica in prima istanza e strategica almeno sul medio periodo, è un dato di fatto prima ancora di una valutazione politica, ma nel Vecchio Continente sono in pochi a rendersene conto. E’ stupefacente che sulla grande stampa nessuno osi mettere in discussione il dogma di un indistinto Occidente, che stabilisce come, al di là di qualche contingente frizione, gli interessi delle due sponde dell’Atlantico siano comuni e destinati a rimanere tali nei secoli. Eppure, l’Unione Europea e gli Usa, sul piano economico, si fronteggiano in quasi tutti i comparti significativi. Non era così alla fine della Seconda guerra mondiale: nel 1.950 il Pil degli Stati Uniti era il doppio di quello dell’Europa occidentale, mentre oggi è pari a quello della Ue. E’ ovvio che due sistemi politico-economici comparabili, i cui cittadini votano per due governi differenti dai quali si aspettano soluzioni per i propri problemi e non per quelli del supposto alleato, siano per molti aspetti rivali.

  Non ci vuole uno studio dei testi sacri del realismo politico per comprendere questa banale verità che, del resto, negli Usa viene percepita istintivamente dall’uomo della strada e viene teorizzata dalle teste d’uovo di tutte le tendenze ideologiche. In Europa, a parte l’antiamericanismo da parata dell’estrema sinistra arcaica, c’è ben poco spazio per chi reclama una strategia autonoma da Washington. Come ha scritto Marco Tarchi a proposito della Nato, sull’ultimo numero della rivista Diorama, è vietato “con una sorta di anatema morale, anche solo ogni dibattito sull’opportunità di appartenere ad un’alleanza che, oggi più che mai, si configura piuttosto come una sudditanza”. L’assenza, in Europa, di dibattito pubblico sulla persistente adesione a un’alleanza militare che ha stravolto completamente le sue funzioni è la prova di quanto farnetichino coloro che dipingono le società civili del Vecchio Continente in balia di un antiamericanismo pregiudiziale e incancrenito. Le destre filo Usa sfruttano l’inane schiamazzo antiamericano di stampo moralistico di neocomunisti e affini – pronti comunque al richiamo all’ordine della governabilità quando le parole conterebbero davvero- per nascondere l’acquiescenza a Washington della stragrande maggioranza di politici, giornalisti e intellettuali.

  Per comprendere quanto la nuova Nato sia tutt’altro che utile all’Europa non servirebbe nemmeno esaminare, sul piano teorico, la sua natura di strumento militare globale al servizio degli Usa. Basterebbe ricordarsi della funzione anticomunitaria da essa svolto durante la crisi precedente all’invasione dell’Iraq. Nel momento di maggiore tensione da oltre 50 anni fra le due sponde dell’Atlantico, il tradimento di alcuni Paesi della Ue, tra cui l’Italia di Berlusconi –sia ricordato a monito di quanti, di fronte alla mediocrità dell’attuale esecutivo, si possano fare venire delle nostalgie…- provocò la valanga dei Paesi dell’est Europa contro Francia e Germania che guidavano il fronte continentale. Le due lettere di solidarietà a Washington, di quella che gli Stati Uniti chiamarono con compiacimento la “nuova Europa”, furono firmate da ben dieci Paesi dell’Est già appartenenti alla Nato o in procinto di diventarlo. In quei giorni decisivi l’Alleanza Atlantica fu l’arma di Bush per dividere e indebolire l’Europa che si opponeva alla guerra.

  Le nostre classi dirigenti sembrano non ricordare nemmeno di come, quattro anni prima, il segretario di Stato dell’Amministrazione Clinton, Madeleine Albright, fece fallire la conferenza di Rambouillet, con la quale gli europei intendevano giungere a una soluzione pacifica in Kosovo, stringendo un’inaspettata alleanza con i guerriglieri albanesi. Ne risultò che la Nato ebbe il suo battesimo del fuoco bombardando case, ponti e fabbriche di una nazione europea e cristiana, con l’ovvio plauso dei farseschi teocon di casa nostra, strenui sostenitori delle radici cristiane del continente. In nome della fedeltà all’amico americano, furono in molti a dare credito persino alla penosa esibizione di Colin Powell all’Onu, quando il segretario di Stato agitò una fialetta di antrace e un modellino di camion per dimostrare l’esistenza, in Iraq, delle armi di distruzioni di massa. E’ possibile che nessuno, in Europa, avesse letto le tesi dei neoconservatori Usa che, prima dell’11 settembre, chiedevano l’invasione dell’Iraq affinché Washington si impadronisse di un’area strategica nella competizione con l’Europa e la Cina?

  E’ comprensibile che l’opinione pubblica europea meno avvertita, stordita da un’informazione a senso unico, non riconosca negli Stati Uniti una potenza rivale. Ma come fanno a credere alla perenne amicizia di Washington le classi dirigenti che dovrebbero disporre di conoscenze di prima mano? Non diciamo che bisogna vedere negli Usa necessariamente un nemico, ma che sarebbe ovvio aspettarsi un po’ più di fermezza con l’ “alleato” quando questi agisce, palesemente, in conflitto con i nostri interessi. Ovviamente, una parte della risposta sta nel conformismo e nel servilismo degli apparati di potere che, da decenni, sono abituati a ricevere legittimazione da Washington. Questa spiegazione, però, non basta. Va detto che l’immagine della nuova Gerusalemme statunitense come “potenza morale” e salvifica, al di là dei suoi peccati veniali, continua a predominare anche fra i colti. A vivificarla basta l’annunzio periodico di un nuovo demonio da cui guardarsi: appena ieri Saddam, oggi Ahmadinejad. La storia europea e quella del mondo vengono ridotte a un deserto su cui incombe l’eterno ritorno dell’Hitler metafisico con il quale mai più venire a patti. Una propaganda rozza ma, bisogna pur ammetterlo, ancora tremendamente efficace.