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La riforma del Tfr fa schifo. Ci guadagnano solo le banche

di Stefano De Rosa - 17/04/2007

Nelle intenzioni del

legislatore, la rivoluzione

previdenziale

prevista dal d. lgs. 252/2005

dovrebbe permettere nei

decenni a venire l’equilibrio tra

contribuzioni e prestazioni erogate

dagli enti preposti ed una

maggiore soddisfazione dei

bisogni di milioni di dipendenti

privati al momento dell’uscita

dal mondo del lavoro e dell’entrata

nel regime pensionistico.

Una attenzione, quella dei reggitori

politici, orientata soprattutto

alle forze di lavoro più

giovani, quelle per intenderci

che a fine carriera tra nuovi

coefficienti, sistema di calcolo

totalmente contributivo e ridotte

prestazioni beneficeranno di

un reddito non superiore al 40-

50% dell’ultima retribuzione

netta che percepiranno, ad

esempio, nel 2035 o nel 2040.

La rivoluzione cui si accenna

consiste nella destinazione dal

1° gennaio 2007 del trattamento

di fine rapporto (Tfr) maturando,

cioè futuro, a fini pensionistici.

Fino al 31dicembre

2006 gli accantonamenti effettuati

dai datori di lavoro venivano

contabilizzati in apposite

voci del passivo dello stato

patrimoniale aziendale, così

indicando il debito dell’azienda

nei confronti dei lavoratori,

simmetricamente creditori verso

la stessa per la quota di tfr

di propria spettanza.

Dallo scorso 1° gennaio al

prossimo 30 giugno tutti i

lavoratori italiani del settore

privato dovranno scegliere

come utilizzare il Tfr: mantenerlo

in azienda (scelta che

nelle realtà produttive con più

di 50 dipendenti significa

depositarlo presso un fondo

speciale dell’Inps) o destinarlo

irreversibilmente alla previdenza

complementare. Non si vuole

qui illustrare la composita

casistica o le diverse opzioni

possibili. Dall’inizio dell’anno

ogni giornale ha dedicato

all’argomento servizi, inserti e

numeri speciali ai quali opportunamente

rimandiamo.

Non è nemmeno nostra intenzione

esprimere giudizi categorici

o fornire indicazioni su una

materia dove – oltre agli elementi

oggettivi che operano sul

versante dell’offerta – tanta

parte hanno le componenti

soggettive (età, sesso, anzianità

di servizio, progetti personali,

carichi familiari, reddito, patrimonio,

ecc.) che, specularmente,

agiscono e determinano la

composizione della domanda.

Quel che intendiamo offrire ai

lettori sono, invece, due spunti

di riflessione.

Il tfr, un tempo conosciuto

come indennità di anzianità,

fino allo scorso 31 dicembre ha

rappresentato una importante

fonte di finanziamento per le

aziende, le quali, oltre a ricorrere

al mercato dei capitali con

affidamenti o emissioni di prestiti

obbligazionari, potevano

far conto anche sulle rilevanti

somme accantonate in bilancio

per fronteggiare – dunque

coprire finanziariamente –

investimenti anche significativi.

La destinazione del tfr

maturando all’Inps, o alle varie

tipologie di fondi pensione,

priva le aziende di questa conveniente

fonte di approvvigionamento

– per così dire intraaziendale

– costituita da importi

stanziati di retribuzione differita

che fino al momento dell’erogazione

– è bene precisarlo

– appartengono al datore di

lavoro. È evidente, quindi, il

disappunto degli imprenditori

che ha accompagnato la riforma

in questione: un disappunto,

tuttavia – e veniamo al nocciolo

della prima riflessione –,

mitigato dal fatto che i numerosi

prodotti finanziari nati o

sviluppatisi per far fronte alle

novità legislative sono gestiti

da gruppi bancari ed industriali

di cui ben noti sono i reciproci

intrecci di governance (dai

pacchetti azionari ai consiglieri

di amministrazione) e, dunque,

i reciproci interessi economici

e reddituali, stanti le ingenti

commissioni percepite dai

gestori dei fondi.

Inoltre, in uno scenario di dialettica

sociale sindacato-impresa,

in cui le relazioni industriali

sono irrimediabilmente viziate

da connivenze e riconoscimenti

di comodo – dal livello delle

rappresentanze nazionali a

quello, meglio percepibile dai

lavoratori, delle rappresentanze

aziendali – risulta più comprensibile

lo zelo delle associazioni

sindacali nel farsi sponsor

dei fondi pensione, l’adesione

ai quali viene propagandata

come “previdenzialmente

corretta”, utilizzando le asettiche

argomentazioni dei maggiori

rendimenti, della diversificazione

degli investimenti,

del (finora) vantaggioso regime

fiscale o, laddove previsto,

il contributo aggiuntivo del

datore di lavoro. Tutte considerazioni

ineccepibili: peccato

che i dati di raffronto tra rendimenti

del tfr e dei fondi pensione

siano quasi sempre riferiti

ad anni recenti (2004, 2005,

2006) nei quali più visibile è la

maggior convenienza di questi

ultimi. Se, invece, si prendesse

in esame, ad esempio, il triennio

30.09.2001 – 30.09.2004

verrebbe evidenziata per i fondi

pensione aperti azionari una

perdita del 5,3%, per i bilanciati

un +0,3% e per il tfr, al

netto dell’imposta sostitutiva,

un +8,9%. Ampliando l’arco

temporale – dal 31.12.1998 al

30.09.2004 – risulterebbe un

rendimento del 14,7% per i

fondi azionari, del 14,0% per i

bilanciati, del 21,1% per gli

obbligazionari misti, del 18,4%

per gli obbligazionari puri e

del 18,8% per il tfr netto (fonte:

Covip).

Non saremmo certo noi a stupirci

se i dipendenti di aziende

con più di 50 addetti che decidessero

di destinare il proprio

tfr maturando all’Inps, subissero

ritorsioni di vario tipo (dal

demansionamento alle vessazioni,

dal mobbing discendente

alle penalizzazioni) pur nel

rispetto della forma, da imprese

toccate sul nervo più sensibile:

il conto economico. In

simili casi, al danno si accompagnerebbe

la beffa atroce consistente

nell’impossibilità di

denunciare eventuali presunte

discriminazioni – il cui onere

probatorio grava sul prestatore

di lavoro – ai sindacati, in questo

caso perfettamente allineati

sulle (a loro congeniali) comode

posizioni datoriali, i quali

sindacati avrebbero buon gioco

nel ribadire agli “improvvidi”

lavoratori la convenienza dei

fondi pensione. Il secondo

punto muove dalla considerazione

che l’attuale trattamento

di fine rapporto, sebbene modificato

nel meccanismo di calcolo

rispetto alla vecchia

indennità di anzianità disciplinata

dagli articoli 2120 e 2121

del Codice civile, mantiene (o

dovrebbe mantenere) una funzione

latamente previdenziale.

La conferma di ciò è rappresentata

dal fatto che l’importo

accantonato è erogato solo in

occasione della cessazione del

rapporto di lavoro o di bisogni

del lavoratore che giustificano

le anticipazioni indicate dalla

legge (ad esempio spese sanitarie

o acquisto della prima

casa).

Utilizzare, invece, il tfr come

possibile fonte di finanziamento

dei fondi pensione, secondo

le previsioni della riforma,

significa sostituire uno strumento

di risparmio per spese

consistenti relative a bisogni

essenziali del lavoratore e della

sua famiglia con una rendita

(supplementare alla pensione

pubblica) destinata, per definizione,

al consumo corrente. Gli

effetti che si produrranno sul

costume sociale, non adeguatamente

stimati (ma probabilmente

voluti) dal legislatore,

finiranno per esautorare la

auspicata funzione previdenziale

del tfr a tutto vantaggio di

una scellerata riduzione consumistica

del cittadino.

Sembrerebbe trattarsi, insomma,

di una sorta di regime di

“consumo forzoso” imposto

per legge ad un segmento della

popolazione tradizionalmente

poco incline (e funzionale) agli

imperativi della pseudo-civiltà

oggi dominante e che, senza

troppe dietrologie, appare un

gradito regalo alle lobby bancarie

e finanziarie.

Non si intende, per concludere,

ricondurre le due argomentazioni

esposte a posizioni rispettivamente

favorevoli e contrarie

alla destinazione del tfr ai

fondi pensione, ma soltanto

considerare alcuni risvolti –

irrilevanti per alcuni, significativi

per altri – degni, comunque,

di essere esaminati.