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Il tallone di Achille. L’offensiva della Nato raccontata da chi la subisce

di Enrico Piovesana - 02/05/2007


L’offensiva della Nato nel sud dell’Afghanistan raccontata da chi la subisce



Dell’operazione ‘Achille’, la più grande offensiva della Nato contro la guerriglia talebana, si parla assai poco. Dal 6 marzo scorso, 5.700 soldati della Nato assieme a un migliaio di forze speciali afgane stanno combattendo per strappare al controllo dei talebani i distretti settentrionali della provincia di Helmand, soprattutto quelli di Kajaki e Sangin, strategici perché vi si trovano rispettivamente il bacino idroelettrico e la centrale elettrica che danno energia a tutto il sud dell’Afghanistan.
Nonostante i quotidiani e massicci bombardamenti aerei della Nato, le zone di montagna attorno alla diga di Kajaki sono ancora saldamente in mano ai talebani – così come i distretti di Musa Qala, Naw Zad e Baghran, ancora non interessati dall’offensiva.

Sangin: i talebani non se ne sono andati. L’unico risultato raggiunto finora dall’operazione ‘Achille’ – oltre all’uccisione di centinaia di presunti talebani – sarebbe stata la “riconquistata” del distretto di Sangin ai primi di aprile, dopo un mese di bombardamenti a tappeto.
Risultato smentito dai fatti – il 30 aprile la Nato ha iniziato l’operazione ‘Silicon’ proprio per conquistare Sangin – e dalle testimonianze raccolte in loco dai giornalisti dell’Institute for War and Peace Reporting, secondo le quali i talebani si erano ritirati da Sangin-città, non da tutto il distretto, solo perché glielo avevano chiesto i capi tribali pashtun della zona, interessati a tenere lontana la guerra nelle settimane del raccolto dell’oppio.
“Ci hanno detto che non potevamo più combattere a Sangin perché era arrivata la stagione del raccolto – racconta un capo talebano – e noi abbiamo accettato di ritirarci fuori città, dove ci siamo riposizionati in attesa di tornare a combattere appena il lavoro nei campi sarà finito”.
Molta gente di Sangin si è però pentita di aver chiesto ai talebani di andarsene, perché appena sono usciti loro sono entrati i militari della Nato e quelli afgani.

Villaggi distruggi e saccheggiati. “Alla Nato non basta uccidere e terrorizzare la nostra gente bombardando i nostri villaggi e distruggendo le nostre case”, si lamenta Haji Abdul Qadir, un anziano del luogo. “Dopo l’uscita dei talebani, sono arrivati i militari stranieri e quelli governativi afgani: sono entrati nelle nostre case e le hanno saccheggiate e poi sono andati nei negozi del bazar e hanno razziato tutto”.
“Avevo un negozio”, racconta Ahmad Nisar. “Era l’unica fonte di reddito della mia famiglia. I militari sono entrati e si sono portati via tutto, roba per oltre 20 mila dollari!”.
“E’ al prima volta che vedo gente in divisa che saccheggia i negozi”, dice Gul Agha, che possedeva un negozio di stoffe e vestiti. “Sono entrati nel mio negozio armi in pugno e si sono portati via i pezzi migliori”.
Questi fatti sono stati confermati sia dal governatore di Helmand, Asadullah Wafa che dal generale afgano Lawang, il quale ha spiegato che la maggior parte di questi episodi sono stati opera delle forze speciali della polizia afgana, ma che anche i soldati governativi e quelli stranieri hanno fatto la loro parte.
“Se questo è quello che fanno il governo e gli stranieri per noi, ci conviene davvero sostenere i talebani”, conclude un altro residente di Sangin.

Musa Qala: la gente è contenta dei talebani. Una conclusione a cui sono giunti ormai da tempo gli abitanti di Musa Qala, poco più a nord sulle montagne. Dopo mesi e mesi di combattimenti e bombardamenti aerei – costati la vita a centinaia di civili – lo scorso inverno le forze britanniche della Nato si sono ritirate da questa zona e i talebani ne hanno preso il pieno possesso. “Ora qui tutto va per il meglio”, spiega Zahir Jan, residente di Musa Qala. “Siamo potuti tornare qui per lavorare tutti insieme a ricostruire le nostre case che erano state rase al suolo dalle bombe della Nato. Ora è tornata la pace e noi stiamo tornando a vivere”.
“Il governo e la Nato dicono che l’Operazione Achille sta avendo successo: tutte bugie!”, si sfoga Qudrat, un abitante di Lashkargah. “Pochi giorni ho visto i soldati della Nato che sparavano a una macchina alla periferia della città, con attorno decine di bambini che giocavano tra le case, senza preoccuparsi di poterli ferire o uccidere. A me non piacciono i talebani, ma le truppe straniere mi piacciono ancora di meno”.

Quante vittime civili? Una domanda che non avrà più risposta. Quanti di quei 400 “talebani” uccisi nell’Operazione Achille sono in realtà bambini, donne, anziani, civili inermi? Fino a pochi giorni fa bastava entrare nell’ospedale di Emergency a Lashkargah per vedere con i propri occhi la risposta a questa domanda: tanti, troppi. Ora che quell’ospedale è chiuso, i civili afgani continueranno a morire per le bombe e le pallottole della Nato. Ma saranno tutti “talebani”.