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Home / Articoli / Sigfrido Bartolini. Il suo è stato uno stile di vita unico in un’epoca senza più stili

Sigfrido Bartolini. Il suo è stato uno stile di vita unico in un’epoca senza più stili

di Stenio Solinas - 02/05/2007

La prima volta che ho

visto Sigfrido Bartolini

dev’essere stato intorno

alla metà degli anni Settanta,

a un convegno

romano della Fondazione

Gioacchino Volpe.

C’erano fra palco e platea illustri cattedratici,

onusti di anni, signore e signori della

buona borghesia, alcuni esemplari perfettamente

conservati di quella che una volta era

stata l’aristocrazia papalina e ora sbrigativamente

si vedeva derubricata alla voce

«nobiltà nera», dove il colore non stava più

a indicare la vicinanza all’abito talare, ma

una più sospetta e dannata connotazione

ideologica, qualche intellettuale dissidente

fuggito dal comunismo dell’Unione Sovietica

e quei pochi intellettuali dissidenti dell’Italia

laica, repubblicana e antifascista che

si rirtrovavano nella condizione di esuli

senza nemmeno aver avuto bisogno di

andare all’estero, esuli in patria, appunto.

E poi c’era Sigfrido che, dritto come un

fuso, era senza cravatta, teneva il colletto

della camicia bianca impeccabilmente

abbottonato sotto un pullover blu con la

zip, un superbo basco nero inclinato sulla

testa, una forte rassomiglianza con l’attore

francese Gerard Philippe... Il tema del convegno

era la libertà dell’arte e quella dello

storico, o qualcosa del genere, Bartolini

aveva già tenuto la sua relazione, era arrivato

il momento del dibattito, ma i lavori

languivano, perché il tono generale era un

po’ troppo da «illustre collega», «esimio

maestro» e si capiva che i baroni universitari,

per quanto emeriti, in pensione o fuori

ruolo ci avevano messo il cappello sopra e

non intendevano più levarlo. Il pubblico si

annoiava, gli esuli russi e quelli italiani

alzavano gli occhi al cielo… Così Sigfrido

chiese di nuovo la parola, marciò verso il

palco e senza togliersi il basco fece un

paradossale, ma convincente elogio delle

Brigate rosse... «Lo devo assolutamente

conoscere» mi dissi mentre i lavori venivano

chiusi in tutta fretta.

Chi fosse Bartolini naturalmente lo sapevo.

Avevo cominciato a leggerlo sul Borghese

alla fine degli anni Sessanta. Pittore, incisore,

illustratore, non era quel che si dice una

firma prolifica, un pugno di articoli l’anno,

ma ogni volta lasciava il segno. Aveva esordito

con un’inchiesta straordinaria, La truffa

nell’arte, dedicata alle falsificazioni nel

campo dell’opera incisa, l’orgia di riproduzioni

meccaniche che uccide la stampa originale,

e poi erano venuti i ritratti di Sironi

e quelli di Maccari, le polemiche sull’arte

d’avanguardia e sul business della modernità.

Non erano mai scritti d’occasione, articoli

«alimentari» o per onore di firma: si

capiva che scriveva quando aveva qualcosa

da dire e su ciò che veramente lo interessava.

Possedeva anche una vena ironica, squisitamente

toscana: pochi mesi prima di quel

convegno, sempre sul settimanale diretto da

Mario Tedeschi, aveva pubblicato un pezzo

in cui raccontava di aver fatto affiggere

all’Istituo d’arte dove insegnava, il regolamento

scolastico allora vigente nell’Urss

spacciandolo per un testo ottocentesco di

Dickens. Molti degli studenti e non pochi

dei suoi colleghi erano usciti da quella lettura

rafforzati nella convinzione che il capitalismo

e l’imperialismo britannico fossero

la sentina di tutti i mali...

Io non ho il «feticismo degli incontri» e

non vado in giro a collezionare nomi. Spesso

una conoscenza diretta degli autori che

ami è fonte di disillusione e i romanzieri, i

poeti, gli artisti, persino i giornalisti, è

meglio conoscerli attraverso le loro opere e

non di persona: ciò che lì è illuminato e rifinito,

plasticamente reso, faticosamente, ma

compiutamente realizzato, nella quotidianità,

negli accidenti e negli incidenti della vita

si perde, se ne scorgono le crepe, vengono

alla luce debolezze e compromissioni, c’è

uno scarto fra ciò che la tua fantasia, e

anche la tua intelligenza, ha loro prestato e

ha da loro ricavato, e ciò che la realtà ti consegna

davanti. Sigfrido Bartolini è una delle

rare eccezioni a questa regola, e il rimpianto,

adesso che se

n’è andato a 75

anni, non è l’averlo frequentato, ma l’averlo

fatto meno di quanto avrei potuto e forse

dovuto fare. Un artista libero, un uomo semplice,

ovvero sano, una persona per bene.

Se dovessi riassumere con una frase la sua

attività giornalistica, direi che Bartolini è

sempre stato dalla parte di una minoranza e

nel segno di un’amicizia. Per tutti gli anni

Settanta la sua firma è più collegata a nomi

di colleghi-amici che non ad una testata.

Quando i primi lasciano la seconda, lui va

via con loro. Fu così per Il Conciliatore,

mensile legato al Borghese di cui era direttore

Piero Capello, per il Roma di Piero

Buscaroli, per il trimestrale Elementi che

diressi io, per Il Settimanale al tempo di

Alfredo Cattabiani, per le edizioni Volpe...

Quando, per un motivo o per un altro, cambiavano

le direzioni dei giornali o dei rispettivi

servizi culturali, lasciava anche Bartolini:

le sue erano scelte basate più sulla

comunanza di idee o su una simpatia intellettuale

e/o amicale che su una logica professionale

e/o materiale. Questo spiega

anche il tipo particolare di periodici che

negli anni hanno visto la sua firma, il continente

sommerso di un giornalismo di destra

sempre più ridotto nelle sue dimensioni, e

sempre meno in grado di modificare i propri

confini, chiuso a sinistra, nel nome dello

scontro ideologico, respinto dal centro per

paura delle contaminazioni. Il risultato sarà

il deserto degli anni Ottanta, nei quali infatti

il Bartolini pubblicista farà altro, le monografie

dedicate a Lega, Boldini, Stanghellini,

Rosai, l’uscita della monumentale edizione

nazionale del Pinocchio di Collodi

illustrato. Su quest’ultima vale la pena soffermarsi

un momento, perché l’aver dedicato

vent’anni della propria esistenza, in una

società che della rapidità e dello spreco fa la

sua ragion d’essere, a illustrare un solo

libro, trecento xilografie in bianco e nero e a

colori che non sono solo un capolavoro

d’arte, ma un’operazione filologica di recupero

del nostro passato qual è raro vedere,

dà la dimensione perfetta del tipo umano da

lui incarnato.

Alla metà degli anni Novanta, quando Vittorio

Feltri andò a dirigere Il Giornale e il sottoscritto

le pagine della cultura, Sigfrido

Bartolini fu naturalmente della partita. Nei

quattro anni di quell’esperienza, scrisse più

di cento articoli: dalla tradizione figurativa

italiana ai grandi nomi della pittura e dell’incisione

europea (da Dürer a Goya, da

Matisse a Utrillo, a Corot), ai fatti e misfatti,

nomi, miti e equivoci, dell’arte contemporanea.

Un corpus critico di prim’ordine,

un motivo d’orgoglio per il quotidiano che

glieli pubblicò, una grande soddisfazione

del sottoscritto, la consapevolezza che in

quel campo era la persona giusta, uno stile

chiaro e piacevole, un’assoluta padronanza

della materia. Per me l’arte di Bartolini ha

sempre avuto un aura malinconica e severa.

C’era questa sua abilità di incisore, acqueforti,

xilografie, la leggerezza degli acquerelli,

la profondità degli olii. Sigfrido ha

attraversato l’avventura astratta, o informale,

con tutto il suo corteo di cordate, compiacenze

critiche, mode, scandali e quattrini,

tenendosi coerente al suo figurativo,

casali, marine, nature. Ma era un figurativo

assolutamente anomalo, ovvero senza figure,

senza volti, una specie di mondo ai confini

del mondo, dove l’essere umano era

scomparso e rimanevano le vestigia del suo

passato, case che sembravano fortezze,

spiagge solitarie, paesaggi con rovine. La

sua bellisisma casa di Pistoia era una specie

di officina delle meraviglie, scandita

intorno alla sua persona, al suo lavoro, la

biblioteca dove leggere, la stanza dove

incidere, quella per dipingere, il grande

salone, con una copia della Venere di Milo

sullo sfondo, dove chiacchierare. Credeva

nel lavoro Sigfrido, non nel colpo di genio,

vedeva nell’artigianato la base della pittura,

della scultura, il pittore e lo scultore come

uomini della manualità, pennelli e scalpelli

la loro felicità e la loro condanna da sempre.

«Le arti figurative - diceva - da sempre

si studiano e si giudicano per la qualità di

mezzi espressivi tutti propri che niente

hanno in comune con la letteratura. Senza

voler fare l’elogio dell’astrattismo, immagini

e simboli sono appunto valori estranei

ai valori pittorici».

La sua critica all’arte contemporanea non

nasceva insomma da moralismi o ideologismi:

affondava le sue radici nell’essenza

stessa dell’arte, del suo significato, della

sua ragion d’essere. Era la critica di un artista

che si interrrogava anche su se stesso,

sul senso del proprio lavoro, sulla validità

o meno delle scelte fatte. Nato in un tempo

che non era il suo, e quindi condannato alla

solitudine, una solitudine, credo, che neppure

l’amore per la moglie, figura chiave

nel permettergli di stare al mondo senza

doverne fare parte, l’affetto per due splendidi

figli, sono mai riusciti a sconfiggere, a

quel tempo Bartolini ha cercato comunque

di imprimere il segno di una differenza,

spesso sofferta, mai rinunciatrice, sempre

libera. Uno stile di vita in un’epoca senza

più stili. Ci mancherà un uomo così. Mi

mancherà