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Afghanistan: i nodi vengono al pettine

di Giancarlo Chetoni - 04/05/2007

 

 

Il 30 Aprile alle 8.35 (ora italiana), nel quadro dell’offensiva “attacca e distruggi” Achille, è scattata nella provincia meridionale di Helmand e nella provincia di Farah l’operazione Silicio.

Forze di Gran Bretagna, Olanda e Danimarca, coadiuvate dall’esercito di Kabul, per un totale di 2.000 militari sostenuti da una massiccia offensiva aerea, stanno rastrellando il territorio alla ricerca e alla distruzione di nuclei “terroristi”.

Alla 13.25 l’Ansa con un comunicato da Kabul ci ha fatto sapere che 87 talebani risultavano  eliminati  da reparti americani e afghani nella provincia di Herat, aggiungendo che nelle 48 ore precedenti erano stati annientati , sempre con appoggio dall’aria, altri 50 ribelli e 2 capitribù.

Le notizie contenute nel dispaccio di Agenzia sono risultate false. La smentita è arrivata da Peacereporter. A essere falciati dalle armi di bordo degli elicotteri Usa Black Hawk, Apache e cannoniere volanti sono stati uomini, donne, anziani e bambini dei villaggi nella valle di Sangin.

I reparti speciali dell’Isaf si sono limitati a bersagliare con mortai pesanti quello che è rimasto in piedi. Migliaia di afgani sono scesi in strada a Herat e a Shindand, al grido di morte agli Usa e alla Nato, per protestare contro un altro massacro della popolazione nella provincia.

Alle 13.02 sempre un Ansa, ma questa volta da Roma, riassumeva in 130, con una contabilità all’ingrosso, i “nemici” lasciati sul terreno, precisando che le truppe italiane, come quelle spagnole, non erano state coinvolte nei combattimenti.

Evidentemente a Palazzo Chigi e alla Farnesina c’è stata qualche preoccupazione per la piega presa dagli avvenimenti in un’area sotto il  “controllo” dell’Ovest Rest a guida italiana.

Parisi ha chiesto spiegazioni, ma nessuno allo Stato Maggiore ha saputo, o voluto, dirgli di più di quello che ufficialmente si è riusciti a sapere. Prodi dal canto suo  si è affrettato a  precisare che le regole d’ingaggio per il contingente italiano da quelle parti non sono cambiate. Ipocrisie in tutti e due i casi da Repubblica delle Banane. Nel resoconto stenografico dell’intervento al Senato del Sottosegretario agli Esteri Vernetti si precisa a pag. 19 che in applicazione alla clausola “extremis” il comandante in capo della Nato può ottenere la mobilitazione sul teatro di guerra delle truppe italiane senza specifico assenso di Palazzo Chigi. Ed è indubitabile che, prima o poi, lo farà.

La realtà e che la guerra scatenata dagli Usa e dalla Gran Bretagna in Afghanistan comincia a venirci incontro e ci farà pagare un prezzo salato, molto più salato di quello saldato a Nassiriyya e nella provincia di Dhi Qar.   

Da quelle parti, come ha affermato Parisi, si dovrà rimanere almeno fino al 2011. D’Alema quando parla della necessità di un maggior coordinamento del contingente italiano con Enduring Freedom e con Isaf per non essere “esercito di Franceschiello” è servito. E’ di queste ore la notizia del ferimento di 3 militari italiani a bordo di un VM colpiti da un esplosione sulla rotabile che porta a Camp Vianini.

La previsione che facemmo qualche tempo fa, sulla scorta delle informazioni raccolte, è stata facile.

Secondo quanto riferito dal Generale Satta, anche se non c’è da giurare sulla veridicità della versione trasmessa a Via XX Settembre e al Comando Operativo Interforze di Centocelle, Usa e “Alleati” si sarebbero limitati a comunicargli di essere impegnati in attività di “pattugliamento” nelle aree affidate al controllo del nostro contingente senza che ci sia stato richiesto, almeno per ora, un appoggio militare che non potremo rifiutare di dare per un sottoscritto e vigente accordo tra il Governo Prodi e la Nato.  

Sempre secondo Satta, il contributo delle forze italiane schierate a Herat si è quindi limitato all’approntamento di un sistema di evacuazione medica d’urgenza per il personale dell’ISAF a mezzo “piattaforme ad ala rotante”, lasciando i feriti afghani, colpiti dai raid aerei, ma questo - è sottinteso - senza possibilità successive di ricovero e cura in strutture sanitarie.

La logica della guerra impedisce  di fatto a “nostri” militari di aiutare il “nemico”.  Lo sfratto imposto dal “governo” di Kabul a Emergency finirà per produrre nel tempo un’autentica strage di afghani.

Con i suoi 3 ospedali, 23 centri di pronto soccorso e 5 centri clinici nelle carceri, l’organizzazione di Gino Strada era diventata un riferimento sanitario indispensabile a rendere parziali gli effetti devastanti della “guerra permanente” avviata  nel 2001 in Afghanistan da Usa e Gran Bretagna, ma anche inevitabilmente punto di osservazione per fonti indipendenti di quello che succede e non deve assolutamente trapelare fuori dal Paese delle Montagne.  

Su “Repubblica” del 1 Maggio il Generale Mini osserva che l’Italia ha fatto credere all’opinione pubblica di avere il Comando Isaf su 300.000 Kmq di territorio e di poter stabilire una “cornice di sicurezza” su queste aree con non più di 200-300 militari da avvicendare a rotazione nella ricognizione armata. In Afghanistan, a partire dall’espansione della Nato - ha affermato l’alto ufficiale - non comandiamo più nulla, a dispetto di quanto stabilito sulla carta e nelle ricorrenti  cerimonie d’investitura.

Gli Usa sono “Isaf” ed “Enduring Freedom”. Hanno l’ultima parola su qualsiasi operazione militare in tutto l’Afghanistan e dettano legge a Karzai e agli “Alleati”, mentre l’esercito afghano va dove lo manda  il Pentagono solo perché ha sulla testa e alle spalle la protezione aerea a stelle e strisce. Le perdite che subisce sono proporzionate alla necessità di evitare la sua liquidazione come forza combattente, anche se ampiamente demotivata, a sostegno dell’ex consigliere della Unocal assediato nel Palazzo Presidenziale di Kabul.   

Il 29 Aprile, nel corso di un’intervista a Radio Parigi, Philippe Douste Blazy ha affermato che la Francia non ha intenzione di far restare ancora per molto i suoi scarponi in Afghanistan. “Non vi è alcun piano - ha affermato il ministro degli esteri transalpino -  per mantenere truppe francesi su quello che è diventato un disastroso teatro di guerra. Non vogliamo contribuire ad occupare questo Paese. Rimanere avrebbe per conseguenza il mancare di rispetto alla sua sovranità, alla sua indipendenza e alla sua  integrità territoriale e venir meno ai  valori  in cui ci riconosciamo”.

Dubitiamo che a Roma si sia preso voluto prendere atto di una presa di posizione lucida e coraggiosa.

Una dichiarazione rilasciata, non a caso, a pochi giorni dalle dimissioni del Governo De Villepin, che impegna la Francia anche con una Presidenza della Repubblica affidata a Sarkozy o alla Royal a seguire una direttrice di politica estera non modificabile e che rifila uno schiaffo bruciante all’Amministrazione Bush, ai suoi Alleati e alla multinazionale ipertrofica di Ban Ki Moon. Una multinazionale che produce in Afghanistan un vorticoso giro di affari per 60 miliardi di dollari all’anno in “interventi umanitari” che non lasciano tracce sul terreno e in  esportazione assistita di milioni di “profughi”.

Quando il Quai d’Orsay insiste sull’“integrità territoriale”, il messaggio che s’intende mandare all’esterno è esplicitamente chiaro: la Francia paventa la sparizione dell’Afghanistan dalla carta geografica dell’Asia e la sua frantumazione in feudi tribali e religiosi con assistenza militare, finanziaria e riconoscimenti diplomatici contrapposti nella “comunità internazionale”. A Parigi si teme che il Paese delle Montagne possa imboccare la stessa strada senza ritorno che si sta preparando per l’Iraq con gli “squadroni della morte” e gli attentati a mercati, moschee ed edifici pubblici. Un già visto in America Latina.