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La Turchia ostaggio dei militari

di mazzetta - 04/05/2007

 

L’attuale crisi turca ha le sue radici a Şemdinli, nella provincia curda di Hakkari, dove il 9 novembre del 2006 è avvenuto un fatto destinato ad influire pesantemente sugli assetti istituzionali del paese. Successe allora che una folla di abitanti della cittadina catturò un commando di bombaroli che avevano appena piazzato e fatto esplodere un ordigno per colpire la libreria di un attivista turco. Mentre i cittadini di Şemdinli trattenevano i tre responsabili, da un’auto in corsa ignoti spararono sulla folla uccidendo una persona e ferendone altre.Gli attentatori erano due membri della polizia turca ed un curdo arruolato per l’occasione; l’auto sulla quale sono stati fermati conteneva armi, esplosivo e un foglio con il piano dell’attentato ed era registrata a nome della polizia turca. Anche l’auto dalla quale spararono sulla folla risultò poi appartenere alla polizia. I documenti degli autori, il libretto dell’auto e il foglio con il piano dell’attentato furono copiati e messi a disposizione di chiunque su internet nel sito turco di Indymedia. A seguire ci furono numerose proteste ed altrettanti interventi da parte dell’esercito, che lasciò sul terreno sette morti solo nella provincia di Hakkari.

Le indagini, da un lato facilitate dalle circostanze, furono rapide e portarono il procuratore locale ad accusare il generale Buyukanit (all’epoca numero due dell’esercito) di essere al comando di una struttura segreta simile a Gladio, che avrebbe tra i suoi compiti l’assassinio politico e la pratica della strategia della tensione; quindi di compiere attentati da attribuire ai curdi e in seguito da sfruttare per ottenere la legittimazione alla loro continua repressione. Ali Kaya e Ozcan Ildeniz, i gendarmi colti sul fatto, dovrebbero essere processati il 4 maggio, ma pare difficile che si riuscirà a pervenire ad una loro condanna. La questione curda è uscita da tempo dall’attenzione europea, ma questo non significa che i militari turchi abbiano nel frattempo cambiato atteggiamento.

Al contrario, approfittando dell’avvento della “War or Terror” i generali turchi si sono dati mano libera, giungendo ad organizzare operazioni congiunte anti-curde con l’Iran (che quando bombarda i villaggi curdi non viene rimproverato da nessuno) e minacciando addirittura di invadere il Kurdistan iracheno se la provincia di Kirkuk (e il suo petrolio) dovessero essere inclusi nella regione irachena controllata dai curdi. Tutto questo ha inquietato al più gli americani, che di fronte alla minaccia di un intervento turco in Iraq si sono abbastanza alterati.

Le indagini sull’attentato di Şemdinli e le accuse a Buyukanit non sono però finite in gloria. I militari si sono inalberati accusando il procuratore Ferhat Sarikaya di irregolarità, fino a che questo non è stato messo sotto inchiesta e poi costretto a dimettersi ("Non ci lasceremo processare da un procuratore che, tra l'altro, non rispetta le procedure"). Il procuratore fu lasciato solo anche dai deputati del partito di Erdogan, lesti a ritirarsi a seguito delle accuse dell’esercito. Buyukanit è diventato poi capo dell’esercito turco ed oggi é l’autore delle minacce di golpe apparse sul sito dell’esercito che hanno fatto preoccupare mezza Europa e tutta la Turchia.

Sotto questa luce la crisi istituzionale turca si presta ad una lettura che vede l’esercito, arroccato a difesa dei suoi poteri e privilegi, che gioca di sponda con i partiti di minoranza contro il partito al governo e contro la stessa UE (che chiede vigorosi “passi indietro” ai militari). In questo quadro entrano alla perfezione anche i recenti omicidi politici portati a termine da formazioni di estrema destra con la compiacenza di militari e polizia, da Hrant Dink fino a Don Santoro e ai quattro evangelici sgozzati pochi giorni fa. Episodi che consentono ai militari di suonare la grancassa del “pericolo islamico” e di ergersi a difensori di una “laicità” e della “turchità” che non sono per nulla minacciate nella realtà.

L’uso sapiente dei media ha fatto breccia in buona parte della popolazione - in particolare in quella femminile - ma non tra politici, giornalisti ed intellettuali turchi che, al contrario, sono molto preoccupati del “pronunciamento” da parte dell’esercito. Accuse che ripete anche Oran Pamuk, premio Nobel turco costretto ad abbandonare il paese a seguito della minacce ricevute. Per il momento la crisi si mantiene in ambito istituzionale, anche se l’esercito non ha rinunciato alla tradizionale prova muscolare in occasione del primo maggio, bastonando i manifestanti e arrestandone oltre seicento anche se non avevano dato luogo a disordini e sebbene il motivo della manifestazione non fosse in relazione all’operato dei militari.

A seguito del boicottaggio dell’opposizione (che ha fatto mancare il numero legale) la Corte Costituzionale ha invalidato l’elezione del ministro Gul a presidente della Repubblica e il premier Erdogan si è visto costretto ad indire nuove elezioni, pur non rinunciando ad avanzare la provocatoria proposta di un cambiamento della costituzione turca in senso presidenziale. Erdogan ha poco da temere dalle elezioni, il suo AKP (di ispirazione islamica) non dovrebbe faticare nel riottenere la maggioranza, confrontandosi con partiti che portano il peso del fallimento di decenni di politiche fallimentari; ma anche la vittoria elettorale non sarà una panacea per i mali del paese.

L’ombra dei militari, che sono anche una potente holding economica intrecciata con la mafia turca ai più alti livelli, sembra destinata a gravare a lungo sul Bosforo e, probabilmente, la sua permanenza è destinata ad impedire l’ingresso del paese nell’Unione Europea, che ha già richiamato i militari turchi alla prudenza e ha fatto sapere che l’Unione non può accettare al suo interno un paese governato da una giunta militare.