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L’ idea di decrescita, la crisi della sinistra e l’autonomia del politico

di Carlo Gambescia - 04/05/2007

 

Prologo. La crisi della sinistra

La sinistra marxista è in crisi conclamata da quasi un trentennio. Eventi come la dissoluzione del keynesismo, l’ascesa vittoriosa delle politiche neoliberiste e la fine dell’Unione Sovietica ne hanno costituito l’impressionante sfondo storico. Naturalmente il dilacerante dibattito sui percorsi del socialismo viene da lontano. Il confronto sulle diverse "vie" da perseguire (democratiche o rivoluzionarie) risale alla Prima Internazionale (1864), per poi sfociare nella Seconda Internazionale (1889). E ravvivarsi al fuoco della Rivoluzione d’Ottobre e del successivo dibattito sulla "transizione" (al socialismo), che più o meno durerà, con alti e bassi intellettuali, fino al malinconico tramonto dell’Unione Sovietica. Nel bene e nel male, punto di riferimento geopolitico e ideologico, anche per contrasto, dell’intero comunismo novecentesco per 74 anni.

Dopo di che, nell’ultimo quindicennio ha avuto libero corso un vago riformismo post-socialdemocratico, legato in Italia al lento ma progressivo diffondersi dell’opera di Norberto Bobbio: un pensiero neo-illuminista, il suo, più liberale che socialista, attento principalmente all’ "eguale" (e formale) sviluppo per tutti dei diritti civili e politici. E in particolare alla libertà economica, come parte integrante della libertà politica. Bobbio concepisce la politica come una specie di animale pericoloso da ingabbiare tra le procedure del puro dibattito pubblico, e per giunta ristretto ai soli addetti ai lavori e alle istituzioni liberaldemocratiche. Tutto sommato un pensiero "debole" (si pensi al suo "né con Marx né contro Marx") che però conquisterà gradualmente la sinistra di derivazione marxista, trovatasi dopo il 1989-1991 senza più referenti e priva, nonostante gli sforzi passati di una teoria non solo della Stato ma, cosa più grave, della politica. Come dimostrano i suoi attuali programmi di governo che recepiscono, quasi riga per riga, il riformismo post-socialdemocratico (più liberale che socialista) teorizzato dal filosofo torinese. Un credo politico che non poteva non identificarsi "saggiamente", per dirla con Bobbio, non tanto con la libertà dei "posteri" (quella predicata e promessa nel Manifesto) quanto con quella dei "moderni", procedurale e liberale.

Revelli e Negri (e Costanzo Preve)

Ma faremmo torto alla verità, se non ricordassimo che c’è anche un’altra sinistra ( a sinistra della sinistra, diciamo pure così, benché in modo riduttivo…), che resta fidente nella famosa "profezia" racchiusa nel Manifesto : "Dal regno della necessità al regno della libertà". E che non si arrende. Non possiamo qui descriverla nelle sue varie e spesso sottili sfumature ideologiche, per ragioni di spazio. Semplificando rozzamente: si tratta di una sinistra che crede nella futura realizzazione di una società dove potranno finalmente regnare pace, democrazia e giustizia sociale. Per limitarsi alla situazione italiana, può essere suddivisa, altrettanto grossolanamente, tra lo spontaneismo, a sfondo irenistico, di Marco Revelli e quello a sfondo economicistico di Negri. Il primo rifiuta qualsiasi idea di "corpo" politico, e dunque anche il rischio del conflitto politico organizzato (si pensi alla figura novecentesca del partito della classe operaia, criticata da Revelli)). Per confidare nella spontaneità e non violenza dei movimenti sociali, intesi come i naturali produttori di nuove forme orizzontali di socialità diffusiva. Il secondo, invece, confida nella creatività sociale di un capitale, che, a suo avviso, sviluppandosi non potrà non creare in futuro un nuovo soggetto antagonista. Quale? Quello costituito da una "moltitudine" di individui, duramente segnati dalla povertà, ma mossi, uno ad uno, da una tensione verso un comunismo, finalmente capace di soddisfare, in senso deleuziano, i bisogni dell’individuo desiderante.

Risulta perciò evidente, come per Revelli e Negri, il politico, nella sua autonomia, come individuazione del nemico e possibilità del conflitto, non sia destinano a svolgere alcun ruolo. Entrambi, infatti, ritengono che il sociale (come creazione spontanea dei movimenti o del capitale) possa autoriprodursi per diffusività, senza mediazioni politiche. In questo modo Revelli e Negri finiscono così per mettere una bella pietra tombale non solo su ogni possibile teoria politica socialista dello Stato e della transizione, ma anche sulla teoria politica in quanto tale.

Va però ricordato anche Costanzo Preve. Che, in netta controtendenza, crede invece nell’autonomia del politico. O comunque non sottovaluta la necessità di affrontare "politicamente" eventuali future transizioni. Sottraendosi così a qualsiasi tipo di spontaneismo sociologico. Ma sulla posizione di Preve, ben conosciuto dai lettori di "Italicum", rinviamo al suo intervento, pubblicato in questo focus. (Probabilmente anche Mario Tronti, meriterebbe un discorso a parte, ma purtroppo per ragioni di spazio, siamo costretti a rinunciare).

Comunque sia, quel che ora ci interessa approfondire, almeno per accenni, è la questione teorica del difficile rapporto tra momento politico, sociale ed economico. All’interno di una sinistra che sembra puntare particolarmente, confidando nella sua presunta forza diffusiva, sull’ autonomia del sociale. Cosa che faremo analizzando, come case study, un’idea economica che oggi sembra esercitare grandissimo fascino su di essa: l’idea di decrescita.

L’idea di decrescita

Senza voler deridere nessuno, a Toni Negri, che da sempre ama volare alto si potrebbe rispondere, chiedendo scusa a Lorenzo il Magnifico, Quant’è bella concretezza/che si fugge tuttavia… Oppure ricordare, che nella Scienza Nuova, Giambattista Vico sostiene che "l’ordine delle idee deve procedere secondo l’ordine delle cose". Ma probabilmente, certi intellettuali, da buoni eredi dell’illuminismo, farebbero finta di nulla, pur di continuare a progettare bellissimi quanto difficilmente realizzabili Regni di Utopia, costruiti sul "comunismo desiderante"…

Certo, non è neppure accettabile l’elogio del realismo spicciolo, che alcuni conservatori, se non proprio reazionari, dalla sponda opposta, oppongono al certe fantasticherie progressiste. Dal momento che pensare "secondo l’ordine delle cose" non significa ignorare i problemi, ma solo cercare di risolverli adeguando le idee alle risorse. Senza per questo fare sconti a nessuno.

Ma veniamo al grande tema del momento: la decrescita economica. A dire il vero, si tratta di una strategia, piuttosto che di una vera e propria teorica economica. Di recente propugnata da un gruppo di intellettuali francesi, tra i quali spiccano gli economisti-sociologi Serge Latouche e Alain Caillé, fondatori del Mauss (Mouvement anti-utilitariste dans le sciences sociales). E in Italia da Francesco Gesualdi, già allievo di Don Milani, e ora coordinatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo. La tesi è di una radicalità preoccupante: l’Occidente, dando per primo il buon esempio, dovrebbe smettere di crescere. Dal momento che qualsiasi idea di crescita delle forze produttive sarebbe nociva per l’ambiente naturale. Di qui la necessità di produrre e consumare sempre di meno, fino a raggiungere lo stretto necessario. Allo sviluppo andrebbe perciò sostituito nel tempo un "desviluppo", basato su un sobrio, se non proprio spartano, tenore vita. Ma prendiamo in considerazioni alcuni testi in argomento.

Serge Latouche, molto attivo in Italia come guest della sinistra radicale, ha pubblicato Come sopravvivere allo sviluppo (Bollati Boringhieri 2005). Si tratta di un testo paradigmatico: aiuta a capire il determinismo di certi ragionamenti "desviluppisti". Infatti per due terzi del libro, Latouche critica, usando argomenti piuttosto scontati, qualsiasi concetto di sviluppo (sociale, umano, eccetera), e solo nelle ultime pagine affronta il problema di come "uscire dallo sviluppo". Ma non va più in là di un fin troppo prevedibile pauperismo gandhiano-tolstojano… Poche merci, pochi consumi, sviluppo locale (municipale e regionale), scambi di servizi, convivialità "vernacolare", (per non definirla "comunitaria", termine spesso sgradito a certa sinistra). In conclusione, molte critiche, troppe buone intenzioni, nessuna proposta concreta.

Le stesse considerazioni valgono per Alain Caillé, autore di Dé-penser l’économique (La Découverte, 2005). Un testo, che nonostante le ambizioni teoriche, risulta disorganico e contraddittorio. Fino a che punto è possibile conciliare, come propone Caillé, "Reddito di Cittadinanza" per tutti e decrescita economica? Dove trovare, in un’economia a bassa o nulla produttività, le risorse per finanziare un progetto così ambizioso? Certo, va riconosciuto, che negli anni Ottanta, Caillé e il Mauss dettero un rilevante contributo alla critica dell’ economicismo. Come molti ricordano, Caillé, giovane e spigliato direttore della "Revue du Mauss", aprì un proficuo dibattito con Alain de Benoist. Oggi Caillé, è un togato professore che dirige il Géode (Groupe d’étude et d’observation de la démocratie), e pubblica libri con l’Unesco. E non dialoga più, almeno pubblicamente, con de Benoist. E purtroppo, anche la sua rivista ha perduto lo smalto di un tempo.

Deludente anche il testo di Francesco Gesualdi, Sobrietà. Dallo spreco di pochi ai diritti di tutti (Feltrinelli 2005). Punteggiato spesso espressioni, anche intriganti, come "consumismo che consuma" , "elogio della bicicletta", "collettivo è bello", "il mercato del baratto", eccetera. Che poi però non approfondisce. Quanto alla sobrietà, un’idea in sé rispettabile che vanta padri nobili (da Platone a Franklin), Gesualdi propone addirittura una società, che ricorda quella della decadenza sovietica… Soprattutto, quando a proposito dell’economia sociale, scrive che "il pubblico potrebbe limitarsi a produrre generi essenziali per tutti, lasciando via libera al mercato per produzioni personalizzate". E’ un po’ come dire che nella società della decrescita, ogni cittadino sarà lasciato libero di personalizzare il suo orticello…

La tesi di Alain de Benoist

Un buon antidoto è rappresentato dal libro di Alain de Benoist, Comunità e decrescita (Arianna Editrice 2006). In cui si "critica la ragione mercantile", ma non in modo aprioristico. Il pensatore francese, come suo costume, va subito al cuore del problema: "E’ possibile indurre alla ‘semplicità volontaria’ senza attentare alle libertà, né uscire da un quadro democratico? E se non si può né imporre la decrescita con la forza, né convertire la maggioranza della popolazione alla ‘frugalità’ con le virtù della sola persuasione, cosa resta? La teoria della decrescita - conclude de Benoist - resta troppo spesso muta su questo punto" (pp. 149-150).

Un silenzio preoccupante. Perché è proprio qui il vero problema: fin quando la sobrietà resta una scelta individuale, e dunque priva di effetti sociali, la libertà non è in gioco. Ma se invece la si vuole imporre dall’alto, si rischia una specie di nuovo totalitarismo, come dire, della decrescita: fondato sulla frugalità obbligatoria per tutti. E qui de Benoist fa un’ osservazione interessante: la deriva totalitaria può essere evitata, se in futuro la sinistra ecologista-movimentista riuscirà a rompere radicalmente "con l’ideologia dei lumi, ossia l’ideologia della modernità" (p. 154, corsivo nel testo).

A quest’ultima sfida, per ora, ha risposto uno scrittore italiano Bruno Arpaia, ma con scarsi risultati intellettuali. Arpaia, che si dichiara di sinistra, in suo libro fresco di stampa, parla addirittura di una sinistra che deve farsi reazionaria (Per una sinistra reazionaria, Guanda, Parma 2007), recuperando perfino alcune ragioni della destra. Ma come? Criticando l’idea di progresso e battendosi per una società capace di trovare il giusto equilibrio tra doveri e diritti. Quel che però manca nel libro, ricco solo di scontate e fumose accuse a burocrazie e monopoli economici, è la volontà di designare il nemico: in 186 pagine non c’è alcuna critica al processo di riorganizzazione imperiale, in atto, promosso dagli Stati Uniti. Il che indica il grave limite dei libro: quello di non prendere mai in considerazione la possibilità del conflitto. Del resto Arpaia, alla fin fine e malgrado i proclami, riesce soltanto a proporre l’ipotesi di una sinistra debole "senza più propositi palingenetici, ma in possesso di una forte carica simbolica (…) che scelga definitivamente e in maniera convinta l’immaginazione" (pp.172-173). . Arpaia, insomma, all’autonomia del sociale caldeggiata da Negri e Revelli, propone di sostituire, l’autonomia dell’immaginario, facendo così fare alla sinistra un altro passo indietro: non volendo ( o potendo) "possedere" la realtà sociale, né politicamente né socialmente, nella sua fisicità, Arpaia consiglia alla sinistra di appagarsi con la "masturbazione" intellettuale… Un’attività - ammesso e non concesso - che potrebbe tornare utile per allenarsi a fronteggiare in finte di battaglie di parole altri eterei filosofi e scrittori , ma non per sconfiggere nemici veri, ritti in piedi davanti a noi, e con la spada sguainata…

Una pausa di riflessione: sviluppo etico e crescita economica secondo François Perroux

E qui ritorna utile Vico: far procedere sempre l’ordine delle idee secondo l’ordine delle cose. L’idea di sobrietà, può essere valida come esperienza di arricchimento interiore. Ma va assolutamente respinta se presentata come destino collettivo. Perciò invece di celebrare la decrescita in quanto tale, come fanno Latouche, Caillé e Gesualdi, si potrebbe valorizzare la classica distinzione introdotta da François Perroux. Quale? Quella tra crescita economica e sviluppo ( si veda L’économie du XXéme siècle, Puf 1964). L’ economista francese, scomparso nel 1987, già consigliere di De Gaulle, per crescita intendeva la crescita economica (quella del Pil, ora criticata dai teorici delle decrescita), e per sviluppo, lo sviluppo etico e culturale dell’individuo: l’unico fattore capace di indicare il grado di progresso sociale realmente conseguito nel campo delle libertà etiche ( un aspetto non chiaramente affrontato dai teorici della decrescita).

Ora, secondo Perroux, senza crescita economica non c’è progresso etico, e viceversa: i due fattori procedono insieme: bisogno e perfino povertà, soprattutto se indotti, non possono favorire un corretto processo di apertura etica verso l’altro. Mentre possono favorire solo la regressione verso l’animalità, attraverso l’accentuazione dei conflitti politici - ecco come, paradossalmente, la politica, come la verità ignorata, rischia, quando la si sottovaluta, di prendersi la sua vendetta. Per contro, i teorici della decrescita credono realizzabile il progresso etico senza la crescita economica. Il che è falso, come dimostra l’esperienza sovietica (progresso economico senza progresso etico,) e come proverà, prima o poi, anche quella cinese. Perciò il vero punto in questione non è cessare di crescere economicamente, ma trovare il giusto punto di equilibrio tra crescita economica e progresso etico. E non è affatto detto, stando allo stesso Perroux, che una società di mercato eticamente progredita non possa, a un certo punto, autolimitare, in modo ragionato, certi consumi e favorirne altri, più socialmente importanti. L’economista francese amava parlare di "velocità socialmente ottima". Mentre i teorici della decrescita auspicano una società a velocità zero…

Per onestà va tuttavia riconosciuto che Perroux, quando teorizzava la distinzione tra crescita economica e progresso etico, aveva sott’occhio lo Stato Keynesiano, nel suo splendore dei "Trenta Gloriosi". Oggi giudicati obsoleto. Resta però il valore delle sue idee. A nostro avviso degne di essere recuperare e sviluppate alla luce di nuove ipotesi ( di cui parleremo in una successivo articolo).

Epilogo. Decrescita, autonomia del politico e democrazia

Resta poi un fatto: il significato di qualsiasi idea economica si universalizza, divenendo patrimonio di tutti, solo se preesiste un progetto, capace di essere recepito da tutte le classi sociali. E, soprattutto, se c’è una volontà politica e democratica in grado di incarnarlo. E, soprattutto, se si accetta e non si elude il politico: che come insegna Carl Schmitt ha nella possibilità del conflitto amico-nemico i suoi caratteri specifici ed autonomi. Perciò è totalmente sbagliato non tenerne conto, puntando solo sulle presunte potenzialità del sociale o dell’immaginazione. Dal momento che i cambiamenti radicali, insiti nell’idea di decrescita possono implicare, pesanti sacrifici, per tutti, anche in termini di libertà. Insomma, non si tratta di trasformarsi in "fanatici" del conflitto, ma di non disconoscerne il carattere di "costante politica". E lo stesso vale, sul fronte opposto, per l’idea di solidarietà ( o cooperazione sociale), che come il conflitto è un’altra costante politica: l’una non esclude l’altra. Anzi spesso l’una è in funzione dell’altra. Di qui la necessità di tenerne conto, proprio per favorire la maturazione etica dell’uomo. E renderlo così consapevole e partecipe di una visione eticamente severa, o comunque matura, della sua esistenza, segnata dal conflitto come dalla cooperazione con i suoi simili.

Pertanto crediamo che dietro l’idea di decrescita siano ancora vive le contraddizioni di certa sinistra di ascendenza marxista (piuttosto che marxiana), probabilmente ancora incapace di stabilire un rapporto equilibrato e realistico con la politica in senso schmittiano (al di là dei tanti convegni organizzati a sinistra sul grande pensatore tedesco…). E che oggi sembra portata a privilegiare la solidarietà diffusiva come ieri difendeva la solidarietà specifica di classe o di partito: passando così da una ipostasi all’altra. Forse dietro questo fenomeno c’è l’antica passione, più di derivazione positivista che marxiana, per la dinamica determinista delle grandi forze storiche, di volta in volta incarnate da soggetto diversi (la nostra è solo un’ipotesi). Comunque sia, la smodata passione per gli automatismi evolutivi, rischia sempre di sacrificare le concrete scelte, individuali e collettive, soprattutto di tipo politico. Una perdita che rischia, a sua volta, di essere liquidata, come spesso è avvenuto - si pensi alla collettivizzazione sovietica delle campagne - alla stregua di un danno collaterale di poco conto.

Per un verso infatti Caillé, Latouche, Gesualdi, immaginano una società civile in grado di autoriformarsi dolcemente per proprio maturo convincimento, senza ricorrere alle durezze del dirigismo (anche temporaneo) e del conflitto politico; dall’altro però questi studiosi avvertono la necessità (si pensi al problema del reddito di cittadinanza, o del controllo dei flussi di spesa dei cittadini) di interventi legislativi dall’alto. Ma come raggiungere il giusto equilibrio fra la trasformazione spirituale (che non implica coazioni dirette) e le leggi (che implicano sempre una coazione diretta)? Soprattutto quando si rifiuta l’autonomia del politico? O addirittura ci si impone perfino di non discuterne? Ignorando così un fatto molto importante sotto l’aspetto morale e psicologico: che dove si profila il rischio, si delinea anche la possibile via di salvezza… Ma Caillé, Latouche e Gesualdi, come Revelli, Negri e non rispondono. Probabilmente perché sperano in modo ottimistico che la solidarietà diffusiva, alla fine, in qualche modo, possa avere le meglio. Non ponendosi così il problema dell’ autonomia del politico. E dunque della gestione (non facile) di un’eventuale fase di transizione.

Ecco il vero punto del problema: le trasformazioni sociali non sono mai automatiche… Hanno sempre natura politica, e la politica è decisione, e la decisione è fonte di conflitto. Che non sempre può essere ignorato o "proceduralizzato" (quest’ultima, sia detto per inciso, è la soluzione dei riformisti alla Bobbio). Di riflesso, come convincere, ad esempio le fasce più "ricche" della popolazione a consumare di meno, o addirittura ad essere nel tempo espropriate delle loro ricchezza, magari proponendo una riforma monetaria geselliana? E come comportarsi con i "renitenti". Non è un problema da poco, perché riguarda le radici stesse della democrazia. Latouche, ad esempio, parla in modo generico di un "percorso morbido" che possa aiutare le fasce agiate, benestanti e ricche della popolazione a comprendere il valore della sobrietà e al tempo stesso, capace di introdurre per gradi le riforme "giuste", senza dover innalzare la bandiera rossa della "rivoluzione sociale" o ricadere nel piccolo cabotaggio del riformismo sociale. Ma siamo proprio sicuri che i consumatori impenitenti si lascino convincere senza reagire? E che i politici, così legati a doppio filo alla ricchezza, riescano a difendere i valori democratici? Su questo punto, come abbiamo già detto, Latouche e gli altri studiosi tacciono.

Come concludere? In modo lapidario: speriamo di avere torto.