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Democrazia, pluralismo e intercultura

di Paolo Scroccaro - 04/12/2005

Fonte: filosofiatv.org

 

 

Testi da leggere: una griglia di lettura, alla luce della non-dualità

 

-         Giovanni Sartori: Pluralismo multiculturalismo e estranei (BUR, 2002)

-         Renzo Guolo: L’Islam è compatibile con la democrazia? (Laterza, 2004)

-         Massimo Fini: Sudditi. Manifesto contro la democrazia (Marsilio, 2004)

-         Armando Gnisci: Biblioteca interculturale (Odradek, 2004)

-         Amartya Sen: La democrazia degli altri (Mondadori, 2004)

-         Raphael: Quale democrazia? (Āśram Vidyā, 2003)

 

 

Il tema che funge da titolo è uno dei più importanti della nostra epoca: lo confermano le numerose pubblicazioni di saggi che, anche quando non dedicati espressamente all’argomento in questione, risultano comunque correlati ad esso in modo significativo; perciò proponiamo all’attenzione degli interessati alcuni testi, di diverso orientamento, che possono stimolare e sorreggere una serie di validi approfondimenti.

 

 

Giovanni Sartori: Pluralismo multiculturalismo e estranei

L’autore, considerato il più importante politologo italiano, è un sostenitore della società democratica, tollerante e aperta (quella teorizzata anche da K. Popper): egli ritiene che tale società, affermatasi in Europa (e negli Stati Uniti) nel corso della modernità, abbia tra le altre cose il merito di rispettare il dissenso e la diversità, mentre “fino al XVII secolo si era sempre ritenuto che la diversità fosse causa della discordia e dei disordini che portavano gli stati alla rovina”(pag. 21). Secondo Sartori, solo la democrazia moderna è multicolore, mentre gli imperi antichi e le autocrazie erano monocromatici. Si può non condividere questa sommaria ricostruzione storica (cfr. A.Sen- M.Fini- A.Gnisci…): in ogni caso, il testo di Sartori ha il pregio di contribuire a focalizzare il tema molto attuale del pluralismo. Il problema è particolarmente scottante, poiché in un contesto di globalizzazione l’Occidente liberaldemocratico deve per forza di cose confrontarsi con le culture degli immigrati e delle varie popolazioni con cui entra in contatto o in urto, Islam in primo luogo. Poiché la liberaldemocrazia dichiara di voler rispettare le diversità, si tratta di delineare gli orientamenti di fondo che guidano o dovrebbero guidare le relazioni tra il “nostro” Occidente e le altre identità. L’autore si sofferma su due strategie, entrambe votate, così sembra, alla difesa del pluralismo: la strategia multiculturale e quella interculturale.

Il multiculturalismo, come è noto, è ben determinato a salvaguardare le differenze culturali, contro i tentativi assimilazionisti: esso però può condurre alla “secessione culturale” e alla “tribalizzazione della cultura”, e quindi alla negazione di fatto del pluralismo effettivo, nella misura in cui viene a mancare il “riconoscimento reciproco” da parte delle varie identità in gioco (v. pag. 30-31). Tale riconoscimento, oltre ad assicurare il pluralismo, conduce alla “fertilizzazione reciproca”(pag.145): e quando questo accade, siamo già in presenza di un evento “interculturale” e non semplicemente “multiculturale”. Sartori dichiara di approvare la prospettiva interculturale, poiché questa comporta il dialogo tra culture aperte che si rispettano.

Egli denomina “estranei” (all’Occidente, all’Europa) coloro che, proveniendo da altre culture, in esse si identificano (ciò è nel loro diritto), e però rifiutano i valori della società aperta e pluralistica, nei cui spazi di tolleranza pretendono di insediarsi, non per contribuire ad una civiltà pluralistica, ma con lo scopo principale di utilizzare tali spazi per imporre principi antidemocratici negatori della tolleranza e del pluralismo. Così dicendo, Sartori si riferisce in particolare all’Islam fondamentalista, ed anzi all’Islam in generale, dato che, “anche quando non c’è fanatismo, resta che la visione del mondo islamica è teocratica e non accoglie la separazione tra Stato e Chiesa, tra politica e religione...Del pari, la legge coranica non conosce i diritti dell'uomo come diritti individuali universali e inviolabili”(pag. 49). In definitiva, l’immigrato musulmano in Occidente è valutato da Sartori come un “estraneo”, se non come un nemico culturale che si contrappone ostilmente alla tolleranza liberaldemocratica di cui però profitta a suo uso e consumo, per costruire in Occidente aree franche islamiche (con la benedizione dei multiculturalisti!) che potrebbero portare alla frantumazione, se non alla balcanizzazione, della società occidentale: in questo senso vanno lette le ipotesi di scuole private islamiche in Europa, ipotesi pericolose, cui ha fatto da battistrada in Italia l’analoga richiesta di scuole private cattoliche, riconosciute e cofinanziate dallo stato!

In alternativa a questo scenario inquietante, si potrebbe pensare ad una progressiva democratizzazione e laicizzazione dell’Islam, come si è cominciato a fare soprattutto in Turchia: ma circa questa possibilità Sartori è pessimista, considerando che oggi, nel mondo islamico, “la componente aperta e occidentalizzante è in deflusso, mentre la sua componente fideistica e integralista ne costituisce la marea montante” (pag. 119-120).

 

Renzo Guolo: L’Islam è compatibile con la democrazia?

L’interrogativo lasciato in sospeso da Sartori è affrontato da Guolo in modo alquanto articolato e documentato, considerando che l’autore si occupa, tra l’altro, proprio dei fondamentalismi contemporanei, e quindi anche di quello islamico. Partiamo da qui: sono ormai abbastanza note le critiche dell’Islam radicale alla democrazia, alla sovranità popolare ed al laicismo occidentale, in nome del Corano e della legge islamica (shari’a) che ne discende. Utilizzando questi due punti di riferimento quale criterio per individuare l’autentico Islam, gli Islamisti condannano non solo l’Occidente “crociato”, degenerato e infedele, ma anche quei governi formalmente islamici che, di fatto, non applicano con fermezza la legge coranica, ed anzi manifestano cedimenti nei riguardi del mondo occidentale (v. Egitto, Pakistan, Arabia Saudita…). Secondo il jihadismo islamista, le debolezze del mondo islamico sarebbero dovute proprio alle contaminazioni occidentali, e al venir meno dei valori originari dell’Islam, cui occorre ritornare per rifondare la grandezza dell’Islam. In questa prospettiva, è d’obbligo combattere non solo l’Occidente, ma anche i governi pseudo-islamici “amici” dell’Occidente, i quali non per caso si trovano oggi in grande difficoltà, nel contenere l’espansione aggressiva dell’Islamismo radicale, che considera se stesso come l’essenza più vera dell’Islam e vuol arrivare alla resa dei conti con l’Occidente. Curiosamente, questa è anche la tesi dei teorici occidentali dello “scontro di civiltà”: infatti Samuel Huntington “sostiene che il fondamentalismo islamico non costituisce una deviazione dall’ortodossia o il prodotto di un’interpretazione minoritaria della tradizione religiosa ma l’essenza stessa di quella tradizione”(pag. 12). Stando così le cose, “il problema per l’Occidente non è il fondamentalismo islamico ma l’Islam in quanto tale. E, viceversa, il problema dell’Islam è l’Occidente, una civiltà a sua volta convinta del carattere universale della propria cultura” (pag. 17).

Come si vede, le tendenze più aggressive e rumorose, quelle che puntano sullo scontro di civiltà, sull’incompatibilità estrema tra Islam e Occidente, mirano apertamente all’egemonia nei rispettivi schieramenti, emarginando altre ipotesi e predisegnando così un panorama a tinte fosche. Possono darsi altre possibilità?

Guolo propone una panoramica sui contesti islamici, per selezionarvi alcuni motivi di compatibilità con l’Occidente, tra i quali ricordiamo:

-         il faticoso processo filodemocratico, in paesi come Turchia, Libano, Indonesia, Marocco (che pur conservano governi autoritari);

-         l’elettività della maggior parte delle cariche e il suffragio universale in Iran (sia pure con vincoli di vario genere);

-         la presenza, sia pur alquanto minoritaria, del cosiddetto “Islam liberale”, composto da intellettuali (tra questi, Khaled Fouad Allam) i quali ritengono possibile un avvicinamento tra Occidente e Islam, a partire da un’interpretazione più libera del Corano e delle norme religiose (v. pag. 114);

-         l’Euroislam immaginato da Bassam Tibi: egli punta sulla flessibilità e sulla creatività di cui è stato capace l’Islam in certi momenti storici, per ipotizzare un ruolo originale e costruttivo dell’Euroislam. Tibi ritiene possibile che l’Islam europeo, inserito in un contesto liberaldemocratico, possa evolversi secondo modalità interculturali (in alternativa alla frammentazione multiculturale, v. Sartori); l’asse portante di questa evoluzione sarebbe la conservazione dell’identità islamica, all’interno di una cornice liberaldemocratica quale cultura di riferimento che l’Euroislam dovrebbe pienamente rispettare.

 

Guolo, dal canto suo, insiste sulla crescita, all’interno dei paesi islamici, “di élite politiche e culturali liberali, sostenute dall’Occidente, e di politiche di governance mondiale che favoriscano la trasformazione e la modernizzazione di quelle società” (pag. 135); per quanto concerne l’Islam europeo, egli ritiene che molti immigrati mussulmani, mancando in Europa la pressione conformistica di un contesto islamico strutturato (come invece accade nei paesi d’origine), siano condotti ad un’adesione religiosa di tipo personale, privatizzato, “del tutto compatibile con l’aspirazione a un’integrazione non solo socio-economica” (pag. 106). In definitiva, l’adesione all’Islam non sarebbe frutto di un automatismo comunitario, come avviene nei paesi islamici, ma di una scelta personale. In aggiunta, essendo l’Islam minoritario in Europa, è sperabile che l’esperienza dell’esser minoranza conduca ad una sensibilità maggiore verso i diritti delle minoranze. Quanto sopra “prepara, oggettivamente, un terrewno favorevole alla democrazia” (pag. 107). Detto questo, non è però possibile dare una risposta certa alla domanda che funge da titolo del libro: molto dipenderà dagli sviluppi relativi alle diverse e contrastanti linee di tendenza sopra delineate.

 

Massimo Fini: Sudditi. Manifesto contro la democrazia

Di un tenore completamente diverso, rispetto a Sartori e Guolo, è il testo di M. Fini, provocatorio già nel titolo: e il contenuto non è da meno. L’ideologia liberaldemocratica viene demolita proprio nelle sue convinzioni di fondo. In sintesi:

-         l’individualismo moderno non comporta affatto maggiore autonomia della persona: al contrario, l’individuo è stato separato dalla comunità, privato della sua protezione e quindi reso impotente e inoffensivo di fronte alle nuove oligarchie che di fatto spadroneggiano, manipolando o aggirando impunemente la legalità “formale” degli stati liberaldemocratici; da qui una nuova sudditanza, mascherata da cittadinanza;

-         la nascita della moderna proprietà privata, iniziata con la violenta recinzione dei preesistenti “campi aperti”, fece precipitare nella miseria milioni di contadini europei, cui vennero negati i supporti materiali per l’autosussistenza. Essi divennero “carne da macello pronta per le fabbriche”, cioè disperati destinati al lavoro salariato. Nel corso del processo di modernizzazione e liberaldemocratizzazione, varie libertà preesistenti vennero meno: a conferma della tesi di Bernard de Jouvenel, il quale osserva come “il passaggio dalla monarchia alla democrazia sia stato accompagnato da uno sviluppo prodigioso degli strumenti coercitivi” (pag. 112);

-         la democrazia moderna dice di essere il governo del popolo: ma allora bisognerebbe ammettere che ce n’era molto di più nei villaggi medievali, là dove si praticavano forme di democrazia diretta, che gli stati moderni hanno via via eliminato, in nome di quel surrogato che sarebbe la democrazia rappresentativa (v. pag. 46-47);

-         le cosiddette “libere elezioni” non vanno sopravalutate: spesso sono uno stanco rito burocratico, escogitato allo scopo di esibire verniciature democratiche in contesti politici in realtà condizionati dalla prepotenza economica, militare e mediatica. A decidere dovrebbe essere il fantomatico “popolo”, che di fatto è ridotto a “opinione pubblica”, cioè a un qualcosa che viene continuamente fabbricato e rimodellato dal potere dei media: se poi questi sono egemonizzati, come in Italia, da qualche potentato oligarchico…(v. pag. 74-75);

-         rispetto alle dittature e alle monarchie, la liberaldemocrazia reale non può nemmeno vantarsi di assicurare una maggiore giustizia in senso socioeconomico o giuridico: infatti Bill Gates, Soros e compagni, sono più ricchi di qualsiasi nobile dell’ancien régime (pag.26), e le diseguaglianze socioeconomiche sono aumentate a dismisura, grazie alle “libertà”(per le oligarchie) assicurate dagli stati liberaldemocratici. Per quanto riguarda l’uguaglianza formale di fronte alla legge, anche questa viene raggirata, dalle oligarchie politiche ed economiche, tramite guarentigie, depenalizzazioni e impunità escogitate ad hoc, come è successo in Italia e altrove (v. pag. 84-85); ciò vale soprattutto per i reati finanziari e amministrativi, che sono diventati una costante delle vicende economiche e politiche attuali. C’è da credere ad Enrico Cuccia, quando “affermava di non aver mai visto in vita sua un bilancio che non fosse falso”…

 

Stando così le cose, come osiamo pretendere di esportare la democrazia, con il pretesto ipocrita di voler aiutare gli altri popoli? Come possiamo pretendere, con il delirante Fukuyama, che liberaldemocrazia e mercato costituiscano la fine della storia?? Questa democrazia “aggressiva”, “incoerente” e “fraudolenta”, costituisce oggi “la vera minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale e alla libertà dei popoli”; e si consideri inoltre che “l’America, campione mondiale della democrazia, è l’unico Stato moderno ad aver legittimato e praticato, al proprio interno, la schiavitù, fino al 1865”(pag. 15-16).

Mostrando tutta la sua delusione per la liberaldemocrazia reale, che non rispetta e non sarà mai in grado di rispettare i suoi roboanti principi (pag. 30), Fini non intende certo giustificare i nemici di essa, vale a dire i regimi apertamente autoritari; egli piuttosto pone a tutti una buona domanda, che è questa: si può uscire dall’aut-aut democrazia rappresentativa o dittatura? Sono esistiti, o possono esistere, sistemi diversi dall’una e dall’altra (pag. 24)? Forse possiamo trovare suggerimenti per una risposta in certe esperienze dei popoli premoderni, o delle culture non occidentali (si legga il bel capitolo sull’anarchia ordinata dei Nuer, che sarebbero riusciti a coniugare uguaglianza e libertà: impresa in cui l’Occidente liberaldemocratico ha fallito).

 

 

 

 

Armando Gnisci: Biblioteca interculturale

Questo testo ci permette qualche ulteriore sviluppo in direzione interculturale, contribuendo in qualche modo a trovare spezzoni di risposta all’interrogativo posto da M. Fini.

Gnisci si colloca nel contesto dell’ oltrepassamento dell’eurocentrismo, di cui Hegel è stato uno scandaloso rappresentante; egli non crede nella positività dell’Occidente, e a questo riguardo cita il poeta caraibico Aimé Césaire:”Una civiltà che si dimostri incapace di risolvere i problemi che produce il suo stesso funzionamento è una civiltà in decadenza…la civiltà così detta europea, la civiltà occidentale…è incapace di risolvere i due maggiori problemi generati dalla sua stessa esistenza: il problema del proletariato e il problema coloniale…L’Europa è indifendibile” (pag. 50).

Di fronte alle pretese imperialistiche dell’Occidente, che continua ad autovalutarsi come il fulcro della civiltà mondiale, con tutte le derive neocoloniali del caso, si tratta di lasciar parlare anche gli altri popoli, le altre culture; si tratta cioè di “spostare il centro del mondo” e di “lottare per le libertà culturali”(pag. 83), espressioni riprese dal testo omonimo dello scrittore kenyota Ngugi wa Thiong’o. Mettendo in sospensione il punto di vista eurocentrico, a torto considerato l’unico o quello principale, è possibile sperimentare altri angoli visuali, dando voce alle altre culture: affinché questo accada, è preventivamente necessario “decolonizzare la mente”(altro titolo di  Ngugi)), cioè togliere le sovrapposizioni categoriali di stampo eurocentrico. Questo esercizio catartico (che ha qualcosa in comune con la “decostruzione culturale” proposta dalla pedagogia interculturale) apre la strada ad un effettivo pluralismo e ad una rispettosa comunicazione tra le culture, al di fuori di qualsiasi pretesa etnocentrica. Quali sono queste culture che non si lasciano omologare e che possono diventare punti di riferimento per una vera e propria “rieducazione interculturale” ?

Gnisci sostiene che qualche linea di tendenza alternativa all’occidentalizzazione si può trovare anche in Europa, ma in forme alquanto fumose o intellettualistiche, che non sono in grado di sostanziare una valida contro-cultura anticolonialista; il movimento altermondialista  da noi non sembra per ora in grado di poter elaborare una via concreta verso un mondo nuovo. “Il movimento sembra averla invece in Brasile o in Messico, in India o in USA. Lì dove agiscono da più o meno tempo delle vere contro-culture anticolonialiste: da Malcom X e Spike Lee a Marcos e i suoi capi maya, dai contadini del Kerala e Arundhati Roy ai Sem Terra brasiliani, ai nativi mapuche…”(pag. 55). In questi contesti, al posto del cerebralismo accademico e salottiero in voga da noi, prevale un orientamento pratico volto alla realizzazione di “un altro mondo qui e ora” (pag. 56).  Secondo Gnisci, esso troverebbe un’adeguata rappresentazione teorica nel testo di un filosofo europeo, l’irlandese John Holloway, il quale, in sintonia con l’invito di Arundhati,”intellettuali europei, entrate nella resistenza”, “se ne è andato a lavorare nell’università autonoma di Puebla, in Messico”(pag. 55). Il libro di Holloway porta un titolo avvincente: ”Cambiare il mondo senza prendere il potere”(Univ. di Puebla / Ed. Intra Moenia, 2004). La sua portata “controculturale” consiste principalmente nel proporre, seguendo l’esperienza zapatista del Chiapas, una alternativa alle teorie occidentali del potere, le quali, di destra o di sinistra esse siano, puntano comunque sulla presa del potere (per via pacifica o rivoluzionaria, non importa) per poter cambiare il mondo. Qui invece si fa leva su qualcosa di diverso, cioè sulla formazione dal basso di uno spazio esteso di anti-potere, che avviene per via diretta, tramite la partecipazione attiva e non delegata. L’esperienza libertaria dell’antipotere, dovuta soprattutto alle culture indigene controcoloniali non piegate all’omologazione planetaria, costituisce dunque un’alternativa concreta alle dittature ed alle democrazie rappresentative. Essa mette in gioco valori radicalmente diversi rispetto a quelli proclamati dall’Occidente, soprattutto perché i rapporti tra gli esseri umani, e tra umani e non-umani, non sono più gestiti attraverso le categorie del Potere, con tutto ciò che ne consegue…Qualsiasi cosa se ne pensi, occorre ammettere che la panoramica pluriculturale proposta nel testo di Gnisci, ha il merito di dar voce ai popoli dimenticati, ai “dannati della terra”, mettendone in risalto la creatività e la valenza culturale alternativa, in un contesto planetario in cui la civilizzazione occidentale, pur egemone, suscita dubbi malcelati anche tra alcuni suoi sostenitori, che si affannano nell’escogitare correttivi di vario genere (v. il cosiddetto “sviluppo sostenibile”, ultimo escamotage degli occidentalizzatori). E’ doveroso rimarcare che l’esigenza di superare il carattere unilaterale dell’eurocentrismo (e di altre versioni dell’etnocentrismo) è sempre più diffusa negli ambienti che si occupano seriamente di intercultura: merita segnalare che l’IRRE(istituto regionale di ricerca educativa) delle Marche, ha attivato un progetto formativo per docenti, intitolato “Oltre l’etnocentrismo”, in cui proprio il prof. Gnisci figura come relatore.

Un punto importante deve ancora essere affrontato: una volta riconosciuta la dignità dei molteplici angoli visuali, requisito indispensabile per un salutare incontro interculturale (v. pag. 57), come intendere questo incontro? Una volta rimosso l’Occidente dal centro del mondo, come pensare il rapporto tra la cultura occidentale e le altre?

Il tema non è nuovo: vi sono pensatori importanti che, proprio muovendo da presupposti non etnocentrici, hanno teorizzato l’incontro interculturale alla luce del “perennialismo”: in sostanza sostenendo che le forme culturali e spirituali autentiche (quelle non degenerate), pur diverse esteriormente, avrebbero comunque qualcosa in comune che ne può sostenere il dialogo e la comprensione reciproca; questo qualcosa in comune si colloca sul piano dei principi, i quali permettono innumerevoli versioni, adattamenti e interpretazioni, cosicché il pluralismo non viene mortificato, bensì salvaguardato (durante il periodo umanistico-rinascimentale qualcosa del genere era sostenuto da Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Francesco Patrizi da Cherso…). Gnisci non ha simpatia per il perennialismo, che considera “la balla filosofica più maestosa e interculturale rispolverata nei nostri giorni” (pag. 69): a lui ricorda troppo “l’ecumenismo inter-religioso di moda tra i preti europei e il vecchio dio monoteista che sta in ogni luogo e in nessun luogo” (pag. 72), senza contare il noioso ritornello sulla “civiltà euroasiatica”…Se non abbiamo inteso male, la diffidenza di Gnisci nei confronti del perennialismo, nasce soprattutto dal fatto che, sotto tale maschera, verrebbe riproposta, in una versione più sofisticata, una concezione etnocentrica con pretese universalizzanti; e Gnisci qui avverte che, in pratica, “universale vuol dire che va in un unico verso: quello occidentale”(pag. 69). Non a caso, molti perennialisti di fatto escludono dalla loro visione, o comunque dimenticano colpevolmente, una parte tutt’altro che trascurabile delle tradizioni planetarie, basti pensare all’Africa e all’America precolombiana; in più, gli stessi finirebbero per privilegiare le tradizioni che si ispirano al monoteismo. Non è poco, per cui dovremo tornare sull’argomento.

 

Amartya Sen: La democrazia degli altri

In questo volumetto, il già premio Nobel per l’economia (1998) non intende contrapporsi all’Occidente, di cui riconosce i meriti e gli aspetti positivi quanto a democrazia e tolleranza: ciò concesso, egli mette in discussione l’etnocentrismo occidentale, cioè la pretesa da parte di quest’ultimo di essere il primo e più importante depositario di tali positività, cui le civiltà non occidentali sarebbero estranee, e perciò bisognose di processi di civilizzazione ad hoc. Questa impostazione unilaterale, ben presente nelle storiografie occidentali e perfino nella manualistica scolastica, è il frutto di miope arroganza accompagnata all’ignoranza culturale, deriva cioè “da una grave disattenzione per la storia intellettuale delle società non occidentali”(pag. 40), dice A. Sen con espressione eufemistica. Prima di mettere a fuoco la “democrazia degli altri”, occorre preventivamente intendersi però sul significato della democrazia: S. Huntington per esempio ha scritto che le libere elezioni aperte a tutti rappresentano l’essenza della democrazia (v. pag. 10), ma secondo A. Sen non è così, infatti “le elezioni da sole possono essere disgraziatamente inadeguate, come è stato più volte dimostrato dalle stupefacenti vittorie elettorali dei tiranni al potere nei regimi autoritari, dall’Unione Sovietica di Stalin fino all’Iraq di Saddam Hussein”(pag. 8-9). Occorrono ben altri requisiti, e cioè: la garanzia del libero dibattito pubblico, la libera circolazione delle informazioni, la salvaguardia del pluralismo…Così reimpostata la questione, ci si accorge che questi motivi filodemocratici sono presenti nella storia di varie società non occidentali; di conseguenza, esperienze del genere realizzate in diverse aree mondiali (l’autore cita fatti storici riguardanti India, Cina, Iran, Turchia, regioni dell’Africa…) “esigono un più concreto riconoscimento nella storia delle idee democratiche. Questa eredità globale è una ragione sufficiente per mettere in dubbio la tesi che la democrazia sia un’idea esclusivamente occidentale”(pag. 11-12).

Rivolgiamoci dunque ad alcune di queste esperienze, che costituiscono ottime esemplificazioni a sostegno della tesi di A. Sen. Partiamo da un dato di fatto contemporaneo: la più grande democrazia del mondo non si trova in Occidente, ma in Oriente; infatti è l’India la più grande democrazia esistente, e quando essa “raggiunse l’indipendenza nel 1947, le discussioni politiche che portarono a una Costituzione pienamente democratica…non si riferirono soltanto alle esperienze occidentali di democrazia, ma richiamarono anche le stesse tradizioni indiane”(pag. 19). Lo stesso J. Nehru “insistè soprattutto sulla tolleranza dell’eterodossia e sul pluralismo presente nei regolamenti politici di imperatori indiani come Ashoka e Akbar”…Perfino uno come B.R. Ambedkar, che era arrivato a disprezzare la democrazia diretta presente nelle vecchie “repubbliche di villaggio” indiane, “sottolineò la generale importanza della tradizione indiana nella discussione pubblica e, in particolare, richiamò l’attenzione sulla libera espressione delle opinioni eterodosse”(v. pag. 19-20). Qui l’autore vede una similarità con quanto affermato da Nelson Mandela, il quale giustamente rivendicò con forza i meriti “dell’eredità africana di discussione pubblica, riguardo alle democrazie pluraliste nell’Africa odierna”(pag. 20). Tornando ad Ashoka, Sen sottolinea che “una delle più antiche e ferme difese della tolleranza, del pluralismo e del dovere – da parte dello stato – di proteggere le minoranze, può essere letta nelle iscrizioni di Ashoka, il celebre imperatore della dinastia maurya vissuto nel III secolo a.C.”(pag. 72). Per quanto concerne Akbar, ci ricorda che “il grande imperatore moghul, con la sua fiducia nel pluralismo e nella funzione costruttiva delle discussioni pubbliche, proclamava in India la necessità della tolleranza e si impegnava a favorire il dialogo tra genti di fede diversa (compresi indù, musulmani, cristiani, jainisti e persino atei”, mentre “in Europa c’era ancora una severissima inquisizione. Giordano Bruno fu condannato al rogo per eresia e bruciato a Roma nel 1600, proprio mentre Akbar parlava di tolleranza ad Agra”(pag. 23).

Altri esempi A. Sen li ricava da certi aspetti significativi della storia dell’Islam medievale, osservando che, tutto sommato, vi era più libertà nell’Islam dell’epoca (senza per questo idealizzarlo a sproposito) che nell’Occidente europeo, in cui la libertà religiosa era negata non solo ai non cristiani, ma perfino alle correnti cristiane dissidenti!

A questo punto, rilevata la portata alquanto significativa del testo di A. Sen, ci preme porre una domanda altrettanto importante e significativa: poiché il pluralismo già presente in esperienze storiche non occidentali non può certo esser considerato il balbettìo ancora incerto di una futura ideologia liberaldemocratica, a quale logica ubbidisce il pluralismo descritto da A. Sen? Su quali visioni del mondo si radicano quelle esperienze contrassegnate dalla tolleranza, dal rispetto delle diversità, dal libero confronto interculturale? A questi interrogativi A.Sen non fornisce risposte esaurienti: occorre perciò cercarle altrove.

 

Raphael: Quale Democrazia? Riferimenti per un buon Governo

Nell’affrontare questioni di ordine socio-politico, Raphael si ispira alla metafisica tradizionale e principalmente ad alcuni rami di essa, quali per esempio l’Advaita Vedanta ed il Platonismo, adattandone alcuni insegnamenti alle problematiche del nostro tempo, senza che ciò comporti un'imitazione arida e pedissequa di filosofie premoderne. In via preliminare occorre precisare che Raphael si discosta da quel tradizionalismo pedante, che si limita a ripetere vecchi e nobilissimi insegnamenti, chiosandoli e virgolettandoli con spirito settario e dogmatico, così da svilirne il messaggio più essenziale. Il motivo per cui certe concezioni tradizionali sono viste con sospetto o peggio in alcuni ambienti culturali moderni, è dovuto anche al discredito caduto su di esse a causa di certi sostenitori superficiali e spocchiosi, votati al minoritarismo e alla ghettizzazione, che con i loro atteggiamenti controproducenti finiscono per alimentare un clima di ripulsa e ostilità.

Raphael ritiene invece che nelle dottrine tradizionali vi sia una grande potenzialità comunicativa, che può rivolgersi anche all’attuale umanità, la quale vive in uno stato di grande disorientamento ed alienazione.

In estrema sintesi: che cosa possiamo ricavare dalla “metafisica tradizionale”? Quali le possibili applicazioni nel mondo odierno?

Nel rispondere, mettiamo al primo posto ciò che possiamo chiamare “lo stile della non-dualità” (che è quello riproposto anche da R. Panikkar), espressione che compendia molto bene l’atteggiamento di fondo della saggezza tradizionale cui Raphael si riferisce. Il termine non-dualità rimanda ad innumerevoli significati: qui ci limitiamo a richiamarne alcuni, in funzione di questo particolare contesto espositivo.

La saggezza della non-dualità comporta un’apertura totale e senza riserve ai molteplici aspetti del Tutto: proprio per questo essa si sottrae ai riduzionismi tipici delle filosofie monistiche, nelle loro antitetiche versioni, per cui non possiamo “teorizzare un monismo assoluto materialistico (tutto è materia) o un monismo assoluto spiritualistico (tutto è spirito): l’uno nega la materia, l’altro lo spirito”(pag. 100).

La non-dualità, invece di ridurre ed escludere, accoglie; essendo ospitale, evita le contrapposizioni frontali, solitamente correlate alle assolutizzazioni dei vari dualismi, e svolge una funzione armonizzatrice e di integrazione; in nome dell’Essere integrale, “non è né contro il materialismo né contro l’idealismo spirituale. Essa considera entrambi come aspetti della realtà totale che è appunto l’Essere. I due punti di vista sono momenti dialettici del Reale assoluto”(pag. 99). Di conseguenza, “è una filosofia di non-contrapposizione, di non-guerra”(pag. 100); è una filosofia che riconosce la validità relativa dei vari punti di vista, i quali corrispondono a stati coscienziali diversi, che non possono essere alterati con interventi aggressivi. In linea con quanto sopra, non si deve direzionare “la mente verso scopi di attacco, di reazione, di acrimonia vendicativa”(pag. 166); occorre invece, anche quando si viene criticati con veemenza, evitare le reazioni scomposte e la dispersione di energie in diatribe sterili: ci si deve limitare ad esporre la dottrina con pacatezza, senza scadere nella polemica di basso profilo (v. pag. 170-171). Certe polemiche sconsiderate ed astiose non meritano neanche risposta, perché si condannano da sole: meglio esprimersi “mediante il Silenzio che vibra e risveglia”(pag. 171), invece di alimentare ulteriormente il fuoco dell’eccitazione mentale, attraverso la catena degli automatismi contrappositivi.

Tutto questo corrisponde allo stile della non-dualità: esso sgorga dall’interiorità di un’anima pacificata nel profondo del cuore, la quale ha superato gli attaccamenti alle forme limitative, o è comunque ampiamente disponibile al loro trascendimento. Qui la pace, il pluralismo, il rispetto delle posizioni altrui, la tolleranza, la libertà..(cose che solitamente vengono attribuite alla “democrazia”) non sono bandiere politicizzate che vengono sventolate e ostentate con tracotanza, e magari conficcate con prepotenza nel suolo altrui: sono prima di tutto espressioni di un’esperienza interiore, espressioni di un’anima che ha già sperimentato in sé e realizzato la pace, le conoscenze più o meno limitate, più o meno ampie, corrispondenti ai molteplici angoli visuali, la libertà che non nasce dai codici scritti, ma dalla capacità di spostarsi con “leggerezza” da un angolo visuale ad un altro…tale “leggerezza eterica” (v. il “pensiero alato” di Platone)

permette di trascendere le limitazioni insite nei vari punti di vista e di promuovere un’espansione coscienziale non rinchiudibile nella prigione concettuale o dogmatica di un particolare sistema chiuso (che può essere di natura filosofica, religiosa, politica etc.).

Cosa accade quando le appena richiamate parole d’ordine non si accompagnano ad una corrispondente realizzazione interiore? In tal caso, la soluzione dei problemi viene proiettata verso l’esterno, e si inventano “idoli” che di fatto dovrebbero sopperire alle nostre lacune interiori: gli idoli più fascinosi elaborati nell’età moderna e contemporanea sono quelli della Politica, della Scienza, della Tecnica, del Progresso materiale…(v. pag. 18, 19, 20, 21, 46…); essi però non possono garantire quanto promesso, perché non possono sostituirsi all’interiorità della persona. Solo per esemplificare: ”Non vi è ideologia politica che non presuma di stabilire pace, lavoro, giustizia sociale, ordine, ecc…; però, se prima di tutto non si trova la pace entro il proprio cuore, come si potrà pretendere d’instaurarla fuori di sé?”(pag. 94). Qui Raphael si ricollega esplicitamente a Platone, secondo il quale la società, nel bene e nel male, è la proiezione macrocosmica dell’anima individuale: anime scomposte e lacerate non potranno che proiettare nel corpo sociale disordine e conflitto; coloro che annaspano di continuo nelle dualità contrappositive, non potranno che alimentare relazioni sociali altrettanto dualistiche e contrappositive, anche se si identificano in ideologie politiche che nelle loro bandiere inscrivono astrattamente le migliori parole d’ordine…Ma “non c’è politica che dall’esterno possa ridare la pace, la giustizia e l’armonia  interindividuale”(pag. 202), e nemmeno la democrazia, il pluralismo, la libertà etc…

Nel mondo attuale non c’è bisogno di slogan, o al contrario di dibattiti noiosi e interminabili, e nemmeno di megaprogetti pretenziosi, bensì di testimonianze concrete, di saggezza vissuta: un solo esempio vale più di una cascata di chiacchiere, di cui c’è l’inflazione. “Il più delle volte si è inclini, più che a vivere, a parlare di certe cose, anche perché è difficile viverle”(pag. 32).

 

Le solidificazioni del mondo contemporaneo e la funzione della non-dualità

 

                                “con il lastricato delle nostre città soffochiamo…meravigliose      

                             primavere pronte a levarsi dai campi”  (R.M.Rilke)

In Occidente, dunque, si fa un gran parlare e scrivere di democrazia, libertà, pluralismo, dialogo interculturale…e si alza la voce credendo, su tutto ciò, di poter dar lezioni ad altri, solo perché erano (o sono), molto più discreti e non avevano la manìa dell’ostentazione pubblicitaria; l’Occidente è talmente impegnato nel sovrastimare le proprie  conquiste, i propri valori (che quanto alla loro positività, noi non intendiamo mortificare, ma caso mai incentivare), da non saper riconoscere i meriti altrui in ordine a tutto questo: cosicché ha i suoi buoni motivi Massimo Fini, che nonostante la ruvidezza della provocazione, antidemocratico non è, per denunciare i limiti della liberaldemocrazia reale, e per rivendicare la bontà, quanto a democrazia diretta, libertà e uguaglianza, di esperienze che non appartengono alla modernità occidentale; analogamente ha i suoi buoni motivi Armando Gnisci quando sostiene, con Ngugi wa Thiong’o, che “occorre spostare il centro del mondo”, e “decolonizzare la mente” occidentalizzata, per dar voce finalmente, in nome di un’autentica comunicazione interculturale, ai “dannati della terra” e alle loro saggezze violentate e occultate dalla civilizzazione; infine, ha del tutto ragione il bengalese Amartya Sen, che antioccidentale non è, a rivendicare anche lui la positività di esperienze che non appartengono alla liberaldemocrazia occidentale ed anzi la precedono!

Soffermiamoci una volta di più su quest’ultimo punto: le citate esperienze non solo si collocano “storicamente” al di fuori della storia della liberaldemocrazia euroamericana; ben di più, esse si ispirano a principi molto diversi, e per farsene un’idea sarà sufficiente confrontarle con le teorizzazioni di qualche illustre “padre” della liberaldemocrazia europea, per esempio Locke o Kant. Temiamo che questi ultimi potrebbero uscire alquanto malconci dal confronto. Basti ricordare che Locke, elogiato quale teorico della libertà e della tolleranza nella manualistica occidentale, in realtà:

a)giustificava lo schiavismo; b)giustificava la recinzione dei preesistenti campi aperti e la privatizzazione “borghese” della terra, che mandò in rovina la maggioranza della popolazione europea (e via via i popoli colonizzati); c)teorizzava il potere dispotico su coloro che erano privi di proprietà; d)escludeva la tolleranza per cattolici ed atei…

Quale abisso separa il liberale Locke dall’esempio luminoso di Akbar richiamato da A. Sen!

Quanto a Kant, basterà segnalare che: a)i cittadini sono quelli che hanno diritto di voto: tale diritto non spetta alle donne e a tutti quelli che sono privi di proprietà, i quali non sono nemmeno cittadini; b)il popolo non può avere alcun diritto di resistenza contro il sovrano, nemmeno con la parola; c)quanto all’apertura interculturale: i popoli non europei o comunque non modernizzati sono per lo più “selvaggi litigiosi, rozzi e barbari”, popoli che noi “riguardiamo con profondo disprezzo”, e bisognosi quindi di una adeguata civilizzazione…

Per quanto concerne altri limiti di Kant, su cui sarebbe utilissimo soffermarsi (limiti culturali, filosofici, morali) rimandiamo ai lavori critici di Schopenhauer, datati ma ancora validi (soprattutto Critica della filosofia kantiana, in appendice al Mondo come volontà e rappresentazione, e Il fondamento della morale).

Questi riferimenti, sia pur troppo sintetici, lasciano intuire che certi difetti dell’attuale civiltà liberaldemocratica, denunciati da critici di varia estrazione, non sono fortuiti, bensì ben radicati nelle filosofie dei padri fondatori. A maggior ragione, quindi, cercare di ricostruire e comprendere le logiche, per certi versi “libertarie e pluralistiche” che hanno agito all’interno di quelle antiche forme sapienziali che, in India come altrove, hanno orientato gli esperimenti civili positivi richiamati da A. Sen e altri, non è un passatempo per eruditi. L’importanza interculturale dell’operazione consiste nel fatto che, da lì, è possibile ricavare alcune indicazioni utili, se non indispensabili, per correggere o per superare certi limiti della liberaldemocrazia reale, sopra sottolineati  (ciò costituisce anche un’eccellente esemplificazione di ciò che significa la formula “ogni autentica cultura è sempre intercultura” – v. G. Pasqualotto, Intercultura e globalizzazione, in Incontri di sguardi, Unipress, 2002).

Risulta che le citate esperienze siano state nutrite e vivificate, alcune più altre meno, come è inevitabile che accada, non da una specie di Locke o di Kant liberaldemocratico ante litteram, ma, cosa ben diversa, dallo spirito della non-dualità, il quale si presta a innumerevoli versioni, secondo i diversi contesti storici e culturali. La saggezza della non-dualità, essendo in sé aformale, non è né d’Oriente né d’Occidente, e quindi riflessi o traduzioni di essa possono rintracciarsi ovunque, comprese ovviamente le saggezze dei “dannati della terra”, per non parlare di altre sapienze ancestrali di cui restano solo deboli tracce.

Per quanto ci riguarda, non si tratta perciò di importare lo stile della non-dualità da un Oriente lontano, sulla scia di un esotismo alla moda: esistono, o sono esistite, come sostengono Raphael e altri, anche versioni “occidentali” di esso, basti pensare alle scuole platoniche. Chi non è disposto ad accettare il Platonismo in toto (e la cosa non è affatto necessaria), può comunque ripiegare sugli aspetti più evidentemente non-dualistici di esso, quale fonte d’ispirazione, o può rivolgersi ad altre espressioni della non-dualità a lui più congeniali. Invece di deprezzare l’Occidente in nome dell’Oriente, o di qualche altro esotismo, si vuole evidenziare che l’Occidente stesso ha, nel profondo della sua anima, potenzialità di rigenerazione che sarebbe stolto trascurare e lasciar sepolte sotto la cementificazione planetaria dovuta al fondamentalismo tecnologico e all’unilateralismo del pensiero oggi predominante. E’ auspicabile che queste energie profonde riaffiorino ed entrino in risonanza con la scorza dura del mondo occidentalizzato, aprendo nuovi spazi di libertà. E quel che si afferma per l’Occidente, ha un analogo in altre culture: la deriva fondamentalista, ben presente nell’Islam, ma anche in altre religioni, con il suo condensato di legalismo e dogmatismo, ha un rapporto preciso con il ritrarsi della saggezza della non-dualità, là dove essa, in altre epoche, ne aveva risvegliato le risorse migliori suscitando un livello elevato di apertura interculturale.

Abbiamo citato, in questa occasione e in altre, autori che in qualche modo si ispirano o si abbandonano agli influssi di tale saggezza, e invitano altri a fare altrettanto, applicando quell’antichissimo e semplicissimo principio che recita:”Correggere se stessi, è iniziare a convertire l’universo”(Kan-ing, Libro delle azioni e reazioni concordanti); si tratta di influssi che fluiscono in modo discreto, lungo vie appartate, e che non sono comprimibili nei canali fin troppo visibili dovuti alle ordinarie progettazioni umane, decantate dalla potenza dei media. La saggezza non-duale, nei cuori e nel mondo (nell’anima cosmica, si potrebbe dire), agisce non-agendo, cioè nel modo più lieve ed eterico che si possa immaginare; essa non ama le asperità e gli urti, e per quanto può li aggira…la sua sgusciante aformalità  è ben simbolizzata dall’acqua di Lao-Tzu: “Nulla al mondo è più duttile e cedevole dell’acqua. Eppure per dissolvere ciò che è duro e inflessibile, nulla è meglio di essa. Il duttile vince il duro; il delicato vince il rigido”.

Un commentatore taoista ha aggiunto: “Parimenti, è solo quando gli uomini agili animeranno con la loro flessibilità la rigidità degli uomini duri…che l’universo scorrerà secondo il Tao”.

Ogni epoca, per quanto carica  di sedimentazioni e solidificazioni capaci di ostacolare il regolare flusso cosmico, quasi per contrappeso ha ospitato in qualche modo, magari in forme riservate, anche la saggezza non-duale; talvolta, le sue irradiazioni benefiche hanno promosso la dissoluzione di certe durezze, che si sono sciolte, scorrendo via come l’acqua nel torrente…

Abbiamo preso a pretesto alcuni autori, per segnalare che anche il panorama culturale e civile odierno è lastricato di pietrificazioni invadenti (non solo in Occidente): esse sono il risultato di processi di irrigidimento, che danno luogo a restrizioni e chiusure di varia natura. Inevitabilmente o quasi, ogni epoca, ogni civiltà, essendo centrata su un qualche angolo visuale, che viene privilegiato, tende a scorgere le limitazioni altrui, e non le proprie: l’equanimità e l’apertura della saggezza non-duale sono qualità indispensabili per una visione equilibrata e non unilaterale, capace di soppesare i vari fattori contrastanti che di volta in volta entrano in gioco. Si è abbozzata così una breve rassegna di alcune delle principali solidificazioni del mondo attuale, che possiamo schematizzare come segue: da una parte i fondamentalismi religiosi, che pretendono di circoscrivere la verità, per sua natura incircoscrivibile, all’interno di particolari formule dogmatiche, contrabbandate per assolute e universali; dall’altra i fondamentalismi laici, che operano in maniera speculare, nella misura in cui assolutizzano i punti di vista della scienza, della tecnica, dello sviluppismo economico, della liberaldemocrazia reale…In entrambi i casi, i fondamentalismi di qualsiasi genere, essendo rivolti al proselitismo più sfrenato, mettono in mostra una propensione aggressiva ed espansionistica, che conduce a incomprensioni reciproche e a restrizioni più o meno sostanziose che toccano le libertà dei singoli e dei popoli, il pluralismo e il rispetto delle diversità culturali (elementi indispensabili ai fini di una armoniosa pacificazione).

Parallelamente, si è insistito sul fatto che ogni solidificazione esteriore è la manifestazione visibile, materiale, di un indurimento dei cuori e delle intelligenze che sopraggiunge nell’interiorità delle persone.

Rispetto a tutto questo, la saggezza della non-dualità opera per sciogliere certe pietrificazioni, aprendo la via a possibilità plurali e interculturali di pensiero ed esistenza, che erano state soffocate e compresse sotto il lastricato costituito dai “sistemi chiusi” degli opposti fondamentalismi…per alludere a tale funzione, abbiamo impiegato antiche immagini taoiste, che però hanno il loro pendant in Occidente. Una lirica pensosa di R.M.Rilke (uno dei poeti più saggi della modernità occidentale) insegna che, quando si scioglie il gelo, un’energia soccorrevole si stende sulla Terra, rianimando le cose…Ebbene, la saggezza non-duale è quel soffio soccorrevole, che rianima le cose e i cuori.