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Quando l’Impero tornò sui colli fatali

di Mario Cervi - 08/05/2007

 

 

Clicca per ingrandire «Dal consenso alla guerra d’Africa»: così s’intitola il nuovo volume della storia d’Italia che affronta due temi importanti del ventennio fascista. Anzitutto quello del consenso. Non c’è dubbio secondo me - ma anche Pietro Scoppola lo riconosce nelle sue intelligenti pagine - che Mussolini poté a lungo contare sul favore degli italiani. Dalla Conciliazione fino alle leggi razziali e all’intervento nella seconda guerra mondiale, il fascismo ebbe con sé la maggioranza del Paese. I cultori del mito retorico d’una Italia che gemeva sotto il giogo delle camicie nere ricordano quanto massiccio e opprimente fosse il dominio del regime sui mezzi d’informazione, quanto martellante fosse la sua propaganda. Tutto vero. Ma non basta per spiegare un’adesione così vasta.
Non v’era in essa nulla o quasi nulla d’ideologicamente motivato. È che tanti italiani trovavano abbastanza confortevole una dittatura che non pretendeva slanci di fede, e che s’accontentava di qualche segno formale d’obbedienza. La «mistica» che il Duce volle imbastire basandola su una dottrina inesistente, interessava poco i più: oltretutto interessava poco anche a lui. I ridicoli riti staraciani divertivano gli italiani più che indignarli. La bellicosità di parata, la romanità di cartapesta, l’orbace dei gerarchi non penetravano nel profondo d’un Paese scettico e a suo modo saggio, che ne aveva viste tante ed era disposto anche a vedere Benito che trebbiava il grano.
Si aggiunga che lui, il Duce, era un genio nel proporre la sua immagine. Oggi è facile ironizzare sulla faccia feroce, sulle pose maschie di Mussolini mentre pronunciava i suoi discorsi dal balcone di palazzo Venezia. Ma la sua voce era inconfondibile e magica, e i suoi atteggiamenti istrionici erano funzionali per uno che si rivolgeva a una folla distante. Se avesse avuto a disposizione un mezzo come la televisione Mussolini, siatene sicuri, avrebbe surclassato qualsiasi altro politico. L’apatia consenziente degli italiani finì per due fatti traumatici: la persecuzione antisemitica, che li mise a disagio, e l’entrata in guerra, che non volevano. Ma la guerra l’accettarono finché parve che la Germania, alleata antipatica, dovesse vincerla. Poi le si rivoltarono contro.Lo zenit del consenso il fascismo l’ebbe con la campagna d’Etiopia: applaudita con entusiasmo anche da personaggi che nel fascismo non s’erano intruppati. Era, quello mussoliniano, un colonialismo anacronistico, un Impero del quale veniva proclamata la fondazione mentre i veri imperi coloniali, l’inglese e il francese, già si stavano sfaldando. Ma rispondeva, l’impresa africana del Duce, all’idea che l’Italia ricca di braccia e povera di terra e di risorse, dovesse avere - come scrive bene Valerio Castronovo - un posto al sole. Quell’idea romantica, che prometteva terre fertili e sconfinate per l’operosità della nostra gente, aveva avuto già come cantore, al tempo della giolittiana guerra di Libia, il poeta Giovanni Pascoli che declamava «la grande proletaria s’è mossa».
Con una miscela storico-politica degna del suo sopraffino talento pubblicitario, il Duce intrecciò, nella conquista dell’Etiopia, la romanità - l’Impero che tornava sui colli fatali - alla lotta dei popoli poveri contro l’egoista Albione dai cinque pasti e alla ribellione a una Società delle Nazioni che aveva voluto punire ed umiliare l’Italia fascista, e aveva fallito. La coreografia delle donazioni di fedi nuziali alla Patria fu un altro tocco pittoresco di questo straordinario momento del fascismo, il suo migliore e maggiore momento. Gli italiani si illusero e furono illusi? Non c’è dubbio. Ma Mussolini aveva toccato corde profonde della loro sensibilità, aveva richiamato ricordi e nostalgie della loro storia recente. L’Impero fu effimero. Il consenso popolare non può essere un alibi per l’epilogo catastrofico del ventennio. Ma l’epilogo catastrofico non legittima la negazione del consenso. Per gli italiani, durante alcuni anni, Mussolini - come voleva lo slogan - ebbe sempre ragione.