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Home / Articoli / Eliot: la liberazione poetica del pensiero dal sentimentalismo dell’umanesimo liberale

Eliot: la liberazione poetica del pensiero dal sentimentalismo dell’umanesimo liberale

di Roger Scruton - 19/05/2007

Una critica della modernità fatta dal suo interno, la liberazione

poetica del pensiero dal sentimentalismo dell’umanesimo liberale

Indiscutibilmente Thomas Stearns

Eliot è stato il maggior poeta di lingua

inglese del XX secolo, il critico letterario

anglofono più rivoluzionario dall’epoca

di Johnson e il più influente pensatore

religioso nella tradizione anglicana

dai tempi del movimento del metodismo

di John Wesley. La sua visione sociale

e politica è presente in tutti i suoi

scritti, ed è stata assorbita e riassorbita

da generazioni di lettori inglesi e americani,

sui quali esercita un fascino quasi

mistico anche quando sono spinti – come

lo sono in molti – a rifiutarla. Senza

Eliot la filosofia del conservatorismo

avrebbe perso qualunque forma di solidità

durante il secolo scorso. Sebbene

non fosse suo preciso intento, egli ha

elevato questa filosofia – sul piano intellettuale,

spirituale e stilistico – a un livello

superiore, mai raggiunto prima

dall’idea socialista.

Nato nel 1888 a St Louis, nel Missouri,

Eliot studia a Harvard, alla Sorbona e al

Merton College di Oxford […]. Nel 1914

conosce Ezra Pound, che lo incoraggia a

trasferirsi in Inghilterra. L’anno dopo si

sposa, ed esce il suo primo componimento

poetico di successo, “Il canto d’amore

di J. Alfred Prufrock”, che, con altri

poemetti pubblicati insieme nel 1917

con il titolo “Il canto d’amore di J. Alfred

Prufrock e altre osservazioni”, ha

profondamente cambiato il corso della

letteratura di lingua inglese. […]

Poco dopo, Eliot pubblica un libro di

saggi – “Il bosco sacro”, che avrebbe

avuto la stessa influenza delle sue prime

poesie – nei quali sosteneva la sua

nuova e impegnativa teoria sul ruolo

della critica, anzi della necessità della

critica se vogliamo che la nostra cultura

letteraria sopravviva. Secondo Eliot non

è un caso fortuito che critica e poesia

spesso si accompagnino nello stesso intelletto,

come nel suo caso o in quello di

Coleridge, che egli ha eletto a migliore

dei critici inglesi. Come il poeta, il critico

si preoccupa di sviluppare il “buonsenso”

(sensibility) del suo lettore, un

termine con il quale Eliot intendeva

una sorta di intelligente osservazione

del mondo umano. I critici non procedono

per astrazione o generalizzazione:

osservano e registrano ciò che vedono e,

così facendo, comunicano anche un senso

di ciò che conta nell’esperienza umana,

distinguendo l’emozione falsa da

quella genuina. Anche se a Eliot sarebbero

occorsi molti anni per spiegare

con precisione – gradatamente e, a tratti,

in modo oscuro – cosa intendesse

esattamente per “buonsenso”, il suo alto

concetto del ruolo del critico aveva

comunque fatto presa su molti dei suoi

lettori. Per di più, “Il bosco sacro” conteneva

saggi che avrebbero rivoluzionato

il gusto letterario: in alcuni di essi, il

tono autorevole e il rifiuto del romanticismo

sentimentale proprio di numerosi

suoi contemporanei fecero nascere

l’impressione che il mondo moderno

stesse finalmente facendo sentire la sua

voce nella letteratura e che tale voce

fosse quella di T.S. Eliot.

“Il bosco sacro” ha distolto l’attenzione

del mondo letterario dalla letteratura

romantica e l’ha focalizzata sui “poeti

metafisici” del XVI e XVII secolo e sui

drammaturghi dell’epoca elisabettiana

– predecessori minori o eredi di Shakespeare

– il cui lessico crudo, che ben comunicava

la sensazione della cosa descritta,

forniva un contrasto efficace con

il sentimentalismo melenso che Eliot

condannava nei suoi immediati contemporanei.

C’è anche un saggio su Dante

che tratta di una questione che avrebbe

spesso angustiato lo scrittore: la relazione

fra poesia e credenza religiosa. Fino

a che punto si può apprezzare la poesia

della “Divina Commedia”, se si rifiuta la

dottrina che l’ha ispirata? Questo interrogativo

era profondamente sentito da

Eliot, e per diverse ragioni. Anzitutto

(come i suoi contemporanei modernisti

Pound e Joyce), era profondamente influenzato

da Dante, la cui limpida forma

in versi, lo stile colloquiale e la filosofia

sublime avevano creato una visione

dell’ideale poetico. Al contempo, tuttavia,

Eliot rifiutava l’ottica teologica

della “Divina Commedia”, un rifiuto

permeato da un profondo senso di perdita.

Eppure, nella poesia di Eliot, la voce

di Dante sarebbe costantemente risuonata,

offrendogli giri di frase, fulminei

lampi di pensiero e una visione del

mondo moderno da un punto di vista al

di fuori di esso, un punto di vista scaturito

da un’esperienza di santità – che,

per altro, era un’esperienza che Eliot allora

non condivideva. E quando, infine,

giunse a condividerla – o, almeno a riconoscere

la propria conversione al cristianesimo

– nell’ultimo dei “Quattro

quartetti” scrisse la più elegante delle

imitazioni di Dante in lingua inglese,

anzi qualcosa di infinitamente più bello

di una imitazione, in cui la visione religiosa

dantesca è trasferita e tradotta

nel mondo della moderna Inghilterra.

Un altro dei saggi in “Il bosco sacro”

merita di essere citato: “Tradizione e il

talento individuale”, nel quale Eliot introduce

il termine che meglio sintetizza

il suo contributo alla coscienza politica

del nostro secolo: “tradizione”. Nel saggio,

si sostiene che la vera originalità è

possibile solo all’interno di una tradizione

e che ogni tradizione deve essere

ri-costruita dall’artista mentre crea

qualcosa di nuovo. La tradizione è qualcosa

che vive e, proprio come ogni scrittore

viene valutato paragonandolo a chi

lo ha preceduto, così il significato della

tradizione cambia man mano che vi

vengono aggiunte nuove opere. In poche

parole, sarebbe stata questa idea letteraria

di una tradizione viva che avrebbe

gradualmente permeato il pensiero

di Eliot e costituito il fulcro della sua filosofia

sociale e politica.

“Prufrock” e “Il bosco sacro” già ci

aiutano a capire il paradosso di T.S.

Eliot: i nostri maggiori modernisti dovrebbero

essere i nostri maggiori conservatori

moderni. L’uomo che ha rivoluzionato

una letteratura che era ancora

d’impronta ottocentesca e ha dato vita

all’epoca del verso libero, dell’alienazione

e dell’esperimento è stato anche

l’uomo che, nel 1928, si sarebbe definito

“un classico in letteratura, un monarchico

in politica e un anglo-cattolico in

religione”. Questo apparente paradosso

contiene l’indizio che indica la statura

di Eliot come pensatore sociale e politico:

egli si è reso conto che è proprio nelle

condizioni moderne – di frammentazione,

eresia e scetticismo – che il progetto

conservatore acquista il suo senso.

Il conservatorismo è esso stesso un modernismo,

e qui sta il segreto del suo

successo. Ciò che distingue Burke dai rivoluzionari

francesi non è il suo attaccamento

alle cose del passato, ma il suo

desiderio di vivere pienamente il presente,

capendolo in tutte le sue imperfezioni

e accettandolo come l’unica realtà

che ci viene offerta. Come Burke, Eliot

ha colto la distinzione tra una nostalgia

volta al passato – che non è altro che

un’altra forma di sentimentalità moderna

– e una tradizione genuina che ci dà

il coraggio e l’ottica giusta con i quali vivere

nel mondo moderno.

Nel 1922 Eliot fonda una rivista letteraria

trimestrale, The Criterion, che doveva

continuare a curare fino al 1939,

quando dovette chiuderla sotto la pressione

di “anime depresse” a causa dello

“stato attuale degli affari pubblici”. Come

fa intuire il titolo [Il Criterio], il progetto

era animato dal suo senso dell’importanza

della critica e della futilità degli

esperimenti modernisti quando non

siano confortati da giudizio letterario,

da serietà morale e dal senso dell’importanza

della parola scritta. La filosofia

proposta dalla rivista era di orientamento

conservatore, anche se per definirlo

Eliot preferiva il termine “classicismo”.

The Criterion è stato il forum dove

venne pubblicata per la prima volta

molta della nostra letteratura modernista,

inclusa la poesia di Pound, Empson,

Auden e Spender. Il primo numero propose

il lavoro che ha eletto Eliot stesso

a maggior poeta della sua generazione:

“La terra desolata”. Il poemetto, ai suoi

primi lettori, apparve subito cogliere appieno

il disinganno e il vuoto seguiti alla

vacua vittoria della Prima guerra

mondiale, un conflitto nel corso del quale

la civiltà europea si era suicidata,

esattamente come era accaduto a quella

greca nella guerra del Peloponneso. […]

Dopo “La terra desolata” Eliot continuò

a scrivere ispirandosi a quella che

vedeva come la dissociazione dolorosa

tra il buonsenso della nostra cultura e

l’esperienza che si ha del mondo moderno.

Questa fase del suo percorso doveva

culminare in una profonda dichiarazione

cristiana: “Il mercoledì delle Ceneri”.

Qui il poeta lascia la connotazione

antropologica e annuncia la sua conversione

alla fede anglo-cattolica. Eliot

era ormai pronto a portare la sua croce

tanto personale quanto particolare:

quella del senso di appartenenza. Finito

il tempo dell’esilio spirituale e politico,

decise di condividere la sorte di

quella tradizione alla quale appartenevano

i suoi autori preferiti. Divenne cittadino

britannico, membro della chiesa

anglicana e scrisse il suo straordinario

dramma in versi, “Assassinio nella cattedrale”,

sul significato del martirio cristiano

e sul lunghissimo conflitto tra

chiesa e stato, a cui doveva porre fine la

nascita della chiesa d’Inghilterra. […]

“Quattro quartetti” esplora in profondità

le nostre possibilità spirituali e qui

il poeta cerca e trova la visione al di

fuori del tempo in cui tempo e storia sono

riscattati. E’ un’opera religiosa e, al

contempo, di straordinario potere lirico,

come il “Cimitero marino” di Valéry,

ma infinitamente più matura nel suo

spessore filosofico. […]

Ciò che Eliot rimproverava alla letteratura

neoromantica non si limitava al

campo letterario. Era convinto che l’uso

di uno stile poetico trito e di ritmi cadenzati

fosse spia di grave debolezza

morale: non riuscire a osservare la vita

come è davvero e a sentire quello che

deve essere sentito nei confronti di un’esperienza

che è inevitabilmente nostra.

Credeva che questo fallimento non riguardasse

solo la letteratura, ma pervadesse

anche l’intera vita moderna. La ricerca

di un nuovo idioma fa pertanto

parte di una indagine più ampia, volta a

capire la realtà dell’esperienza moderna.

Allora, e solo allora, possiamo affrontare

la nostra situazione e chiederci

cosa dovremmo fare in proposito. […]

Per Eliot, le parole avevano cominciato

a perdere la loro precisione, non

malgrado la scienza, ma a causa sua;

non malgrado la perdita di vere credenze

religiose, ma a causa sua; non malgrado

la proliferazione di termini tecnici,

ma a causa sua. Il nostro moderno

modo di esprimerci non ci consente più

di “prendere una parola e da essa

estrarne il mondo”; al contrario, le parole

lo celano, visto che non comunicano

a esso una risposta vissuta. Sono semplici

fiches di un gioco di cliché, preposte

a riempire il silenzio, a occultare il

vuoto che è sopravvenuto dopo che gli

antichi dei se ne sono andati dai luoghi

dove abitavano con noi. Ecco perché, di

norma, i moderni modi di pensare non

sono ortodossie ma eresie, dove con

“eresia” si intende quella verità che è

stata esasperata in menzogna; una verità

nella quale, per così dire, ci siamo rifugiati;

nella quale abbiamo investito tutte

le ansie che non abbiamo analizzato,

attendendoci da essa delle risposte a

quegli interrogativi che non ci siamo

preoccupati di capire. Nelle filosofie

che predominano nella vita moderna –

utilitarismo, pragmatismo, comportamentismo

– troviamo “parole che hanno

l’abitudine di cambiare il loro significato

[…] o altrimenti vengono brutalmente

condannate”. Eliot sottintende che lo

stesso sia vero ogni volta che subentri

l’eresia umanista, ogni volta che trattiamo

l’uomo come un dio e crediamo che

i nostri pensieri e le nostre parole non

debbano essere misurati con un altro

standard al di fuori di se stessi.

Eliot è cresciuto in una democrazia

e ha ereditato quel grande bene dello

spirito pubblico che è il dono della democrazia

americana al mondo moderno.

Ma non era democratico nei sentimenti,

poiché credeva che la cultura

non potesse essere affidata al processo

democratico, proprio per questa incuranza

nei confronti delle parole, questa

abitudine ai cliché ottusi, che sempre

si presentano quando si reputa che

chiunque abbia uguale diritto di esprimersi.

In “L’uso della poesia e l’uso

della critica” scrive: “Quando il poeta

si trova in un’età nella quale non c’è

aristocrazia intellettuale, quando il potere

è nelle mani di una classe così democratizzata

che, mentre rimane tale,

si pone come rappresentante dell’intera

nazione; quando le uniche alternative

sembrano essere il parlare a un cenacolo

o fare un soliloquio, le difficoltà

del poeta e la necessità della critica diventano

maggiori”.

Per Eliot nasce da qui l’accresciuto

valore dei critici nel mondo moderno:

sono loro che devono agire per recuperare

ciò che l’aristocratico ideale del

gusto generava altrimenti in modo spontaneo:

un linguaggio in cui le parole siano

usate in tutto il loro pieno significato,

per mostrare il mondo com’è, senza

appannarlo in una foschia di sentimento

oppresso da cliché. Chi è stato cresciuto

con sentimenti vuoti non ha armi

per affrontare la realtà di un mondo abbandonato

da Dio: cade immediatamente

dalla sentimentalità nel cinismo,

e così perde il potere sia di fare esperienza

della vita sia di viverla con le sue

imperfezioni.

Eliot aveva pertanto percepito un

enorme pericolo nell’umanesimo liberale

e “scientifico” proposto dai profeti

della sua epoca. Gli sembrava che questa

forma di liberalismo fosse l’incarnazione

del caos morale, poiché permette

a qualunque sentimento di fiorire e uccide

qualunque forma di giudizio critico

con l’idea di un diritto democratico alla

parola, che diventa inconsapevolmente

un diritto democratico al sentimento.

Sebbene “l’umanità non possa sopportare

troppa realtà” – come dice prima in

“Assassinio nella cattedrale” e poi in

“Quattro quartetti” – il proposito della

cultura è di conservare l’osservazione

intelligente del mondo umano, quella

cosa sfuggevole che è detta “buonsenso”:

l’abitudine al giusto sentimento. Il

barbarismo non scaturisce dalla perdita

delle abilità o della conoscenza scientifica

della gente, né lo si evita mantenendole:

nasce da una perdita di cultura,

visto che è solo attraverso essa che le

realtà importanti possono essere veramente

percepite.

Qui è difficile definire con precisione

il pensiero di Eliot e vale la pena di tracciare

un parallelo con un pensatore che

egli non amava: Nietzsche. Secondo il filosofo,

la crisi della modernità era sopravvenuta

a causa della perdita della

fede cristiana, inevitabile risultato dello

sviluppo scientifico e della crescita

della conoscenza. Allo stesso tempo,

però, per gli esseri umani è impossibile

vivere davvero senza fede e, per noi che

abbiamo ereditato le consuetudini e i

concetti della cultura cristiana, quella

fede deve essere il cristianesimo. Se si

toglie la fede, non si toglie soltanto il nucleo

della dottrina, né si lascia un paesaggio

disboscato e scevro da ingombri,

in cui la gente può essere finalmente vista

per quella che è. Si toglie il potere di

percepire altre e più importanti verità –

verità sulla nostra condizione che, senza

il beneficio della fede, non possono essere

affrontate nel modo giusto. (Per

esempio, la verità della nostra mortalità,

che non è un semplice “fatto” scientifico

da immagazzinare nella nostra conoscenza,

ma una esperienza penetrante,

che scorre e pervade tutte le cose e cambia

l’aspetto del mondo.)

La soluzione che Nietzsche ha appassionatamente

proposto per questo dilemma

è stata la negazione della sovranità

della verità nel suo insieme; è stato

proclamare che “non ci sono verità”; è

stato costruire una filosofia di vita sulle

rovine di scienza e religione, in nome di

un ideale puramente estetico. Eliot ha

colto l’assurdità di quella risposta e il

deliberato autoisolamento dell’uomo

che l’ha fornita. Eppure, il paradosso rimane.

Le verità che contavano per Eliot

erano verità di intuizione, verità sul peso

della vita umana e la realtà del sentimento

umano. La scienza non rende

queste verità più facilmente percettibili,

al contrario: scatena nella psiche

umana una pioggia di fantasie – liberalismo,

umanesimo, utilitarismo, e tutto il

resto – che la distraggono con la futile

speranza di una moralità scientifica. Il

risultato è la corruzione del linguaggio

vero e proprio della sensibilità interiore,

una caduta dal buonsenso nella sentimentalità

e l’offuscamento del mondo

umano. Ecco quindi il paradosso: le

menzogne della fede religiosa ci consentono

di percepire le verità che contano;

le verità della scienza, investite di

autorità assoluta, nascondono quelle

che contano e rendono impercettibile la

realtà umana. La soluzione di Eliot al

paradosso era “obbligata” dal sentiero

che aveva imboccato per giungere alla

sua scoperta – il sentiero della poesia,

con i suoi tormentosi esempi di poeti la

cui incisività, percezione e sincerità erano

dovute alle credenze cristiane. La soluzione

era abbracciare la fede cristiana,

non come Tertulliano a ragione del

paradosso, ma, piuttosto, malgrado esso.

Questo spiega la crescente convinzione

di Eliot che cultura e religione siano,

in ultima analisi, indissolubili. Era persuaso

che la malattia della sentimentalità

potesse essere superata solo con una

grande cultura, in cui l’opera di purificazione

fosse incessante. Questo è il

compito del critico e dell’artista, ed è un

compito difficile:

E così ogni impresa/ E’ un cominciar

di nuovo, un’incursione nel vago/ Con logori

strumenti che peggiorano sempre/

Nella gran confusione di sentimenti imprecisi,/

Squadre indisciplinate di emozioni

e quello che c’è da/ conquistare/

Con la forza e la sottomissione è già stato

scoperto/ Una volta o due, o parecchie

volte, da uomini che non si/ può

sperare/ Di emulare – ma non c’è competizione

–/ C’è solo la lotta per ricuperare

ciò che si è perduto/ E trovato e riperduto

senza fine : e adesso le circostanze/

Non sembrano favorevoli…

Questo lavoro di purificazione è un

dialogo, attraverso le generazioni, con

chi appartiene alla tradizione: solo pochi

possono parteciparvi, mentre la massa

dell’umanità si smarrisce nelle retrovie,

assalita da “quelle indisciplinate

squadre di emozioni”. La grande cultura

dei pochi è, tuttavia, una necessità

morale per i molti, poiché consente alla

realtà umana di mostrarsi e quindi guidare

la nostra condotta. Ma perché mai

la massa dell’umanità, persa com’è nella

sua goffa discesa dal sublime al ridicolo

– “distratta dalla distrazione dalla

distrazione” –, dovrebbe essere guidata

da “color che sanno”, come dice Dante?

La risposta deve trovarsi nella religione

e, in particolare, nel linguaggio comune

che una religione tradizionale dona sia

alla grande cultura dell’arte sia alla cultura

di base della gente. La religione è

la linfa di una cultura. Permette di custodire

i simboli, le storie e le dottrine

che ci consentono di confrontarci sul nostro

destino; attraverso i sacri testi e le

liturgie, costituisce il punto fermo al

quale il poeta e il critico possono tornare

– con uno stesso linguaggio, quello dei

semplici credenti e dei poeti, che devono

affrontare le sempre nuove condizioni

di vita che seguono la conoscenza:

una vita in un mondo senza più valori.

 

dal “Manifesto dei conservatori” (Raffaello

Cortina Editore, 250 pagine, 22 euro)

in libreria da martedì 22 maggio.