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Lo sviluppo ovvero la corruzione dell’armonia in valore

di Ivan Illich - 07/12/2005

Fonte: digilander.libero.it/paolocoluccia

José Bové dice qualcosa di veramente semplice, quasi banale, che mi ha aperto gli occhi: «Ciò che era gratuito diventa a pagamento». Permettetemi di fare una variazione: ciò che era buono è stato trasformato in valore. Tutto ciò che José Bové dice molto chiaramente è una conseguenza logica, inevitabile, se non si rimette in questione l’idea di valore.

Quando ho fatto i miei studi, ho dovuto seguire per sette anni le lezioni e redigere in miei lavori in latino. Ciò mi ha facilitato la lettura delle prime discussioni universitarie, nel Rinascimento e dopo. Ebbene, non avrei in latino una parola per tradurre il concetto di valore.

Mi ricordo che Lester Pearson mi aveva invitato a discutere le tesi di Gunnar Myrdal, che citava il Vangelo dove si dice che «quelli che avranno vantaggio e quelli che non ne hanno, si prenderà loro anche ciò che hanno». Ero profondamente scandalizzato. Da allora, ho compreso la credibilità del Vangelo e la saggezza di questo Myrdal che, con Keynes, presenta alcune idee sulle trivialità economiche. Ma mi ricordo a qual punto la mia opposizione all’idea stessa di sviluppo mi isolasse in modo estremo. La ragione per la quale m’interessavo a ciò è che era l’epoca dell’invasione dell’America latina da parte dei volontari. Volontari che portavano con loro il modello, l’esempio dell’uomo evoluto. E da quel momento, probabilmente dopo aver compreso che ero esposto alla violenza estrema, Myrdal mi ha stimolato a distruggere lo sviluppo.

«Distruggere» non è il termine da utilizzare, questa sarebbe piuttosto un’idea da evitare. Ancora oggi la gente utilizza la violenza per testimoniare questo desiderio.

Ho tentato di dimostrare la controproduttività dello sviluppo, non quella della supermedicalizzazione o dei trasporti che aumentano il tempo che noi passiamo a spostarci, ma piuttosto la controproduttività culturale, simbolica. Dozzine di libri parlano oggi dei piedi come strumenti di locomozione sottosviluppati. È diventato difficile spiegare che i piedi sono anche strumenti di radicamento, organi sensitivi come gli occhi, le dita.

Majid Rahnema mi ha fatto vedere ciò che è accaduto. Forse vi ricordate che verso il 1980 si è scoperta l’aids. Un giorno hanno chiesto a Geremek, storico e politico polacco, se avesse qualcosa da dire sulla storia dell’aids. Ha risposto: «Io credo che l’aids non potrebbe esistere là dove ci fosse il permesso di morire per un’infezione». Per questa ragione egli non aveva niente da dire sulla storia di questo fenomeno. Qualche tempo dopo, Majid Rahema ha giocato sulla parola «aids», assimilando lo sviluppo all’aids. Ha parlato dello sviluppo – in America e altrove – come di una distruzione, di un’iniezione di cose e di pensieri che distruggono l’immunità di fronte al nostro sistema di valorizzazione delle cose.

La prima volta che ho letto questo testo non potevo immaginarmi fino a qual punto le alternative sarebbero state cooptate per diventare delle scelte, delle opzioni di contro-sviluppo, all’interno dello stesso concetto, della stessa banalità. Prendo l’esempio della medicina: mi ricordo molto bene dell’epoca in cui pratiche come l’agopuntura, la medicina araba o altro erano considerate come ciarlatanerie. Qualche anno più tardi sono diventate delle alternative per il malato. Qualche anno più tardi ancora sono diventate «complementari»; ed oggi, ci sono cure mediche integrali, nelle quali ogni sorta di tecniche e di tradizioni cantano la stessa sinfonia della salute. Sinfonia che bisogna accettare, dimenticando totalmente che per il signor Galeno, sulla scia di Ippocrate, era un comportamento estremo, per un medico, curare una persona che egli considerasse nell’anticamera della morte. Ho discusso questa questione per sei mesi nel 1972 in Pakistan e ho compreso perché la pratica dell’hakim nella tradizione islamica non era del tutto compatibile con quella della medicina moderna. È soltanto a partire dal XII secolo che la medicina non è stata più considerata come una specie di filosofia applicata, quando è apparsa la nozione, indipendente da una cura, di qualcosa che si chiama «salute». È soltanto nel XII e XIII secolo che le due nozioni si sono separate. Le ragioni di questa separazione sarebbero troppo lunghe da discutere.

Da allora ho seguito una strada che consisteva nell’allontanarmi nel tempo, poiché non riuscivo alla  mia età ad imparare il cinese, che mi avrebbe dato una base di indipendenza dallo sviluppo delle idee occidentali. Sono dunque andato nel XII secolo e là sono stato toccato da ciò di cui parla Serge Latouche: l’idea dell’orizzonte. Ho subito pensato a Pietro di Spagna, un Padre della Chiesa di quel secolo, che ha una bella definizione dell’orizzonte. Spiega che si tratta di una linea che passa tra le due natiche. Dal lato sinistro siamo in un tempo che non esiste più per noi. È una speranza eterna, ma che comincia un giorno (ciò non è l’eternità di Dio). Con il lato destro siamo seduti nel tempo. E bisogna fare tutto il possibile per tenere le due natiche ben insieme. Vi cito un Padre della Chiesa del XII secolo…

Avvicinandomi ora ai moderni ho osservato come la piccola parola «io», nel corso del XX secolo, abbia cambiato senso. In francese «je» è un pronome. Se io dico «Ivan vuole», si capisce che ancora non so dire «io», che sono troppo giovane. In inglese si dice «pronoun», ma questo non è un vero sostantivo – questa non è una lezione! In tedesco è ancora differente: «ich» ist eine Fürwort, e posso comprenderlo come qualcosa che rimpiazza una parola, für eine Wort, che non esiste, perché è qualcosa di supremamente concreto. Questo comincia con Freud, con la ricerca dell’Io, della personalità, dell’integrazione del Me. È questo senso che si perde attualmente. È un’altra ragione per la quale è talmente difficile, nel mondo contemporaneo, avere una linea d’orizzonte come ideale. Ciò vuol dire: ogni piede sulla natica destra. Io non so come dirlo altrimenti (filosoficamente, è un po’ più complicato).

Nella lingua malese non si può dire una frase senza ben distinguere tra il kita e il kami. Per esempio: «ci incontriamo questa sera», voi siete con la signora. In francese non sapete se questo si indirizza a voi o alla signora. È una cosa impossibile nelle lingue che hanno un plurale dell’«io» chiaramente fissato dalle parole.

Quando ho chiesto al mio amico Matthias Rieger: «come arrivare a spiegare in quali modi le banalità si sono trasformate?», egli mi ha inviato una lettera di cui vi leggo un passo: «La prima volta che ho letto il programma del Colloquio “Défaire le développement, refaire le monde”, il mio cuore è sobbalzato. Il tema di questo Colloquio mi ha dato l’impressione di essere stato invitato ad una riunione internazionale di dei. Mi sono detto che queste due idee – ri-fare il mondo e dis-fare lo sviluppo – non potevano concepirsi che nell’Olimpo. Questo può essere un Olimpo alternativo, ma è l’Olimpo. È globale».

Mi domando perché lo sviluppo abbia avuto un tale effetto trasformatore sui milioni e milioni di uomini che lavorano la terra con le mani, la maggioranza. Mi domando fino a che punto sono già modernizzati, sviluppati oggi.

L’altro amico che amerei farvi ascoltare, Samuel Sajay (indiano e professore negli Stati Uniti) mi scrive: «Ivan, avete parlato dell’effetto simbolico dello sviluppo della scuola che inevitabilmente classifica le persone e dà loro la responsabilità di appartenere alla loro classe d’origine; della medicina che crea nel mondo contemporaneo le patologie che essa stessa diagnostica…». Mi dice: «Nella misura in cui lo sviluppo associa ai suoi insuccessi tecnici effetti simbolici riusciti dal suo punto di vista, si può dire che lo sviluppo, il cui fine consisteva nello sviluppare gli umani, è un evidente successo».

Mi domanderete, che cosa vuol dire ciò? Trovo questa parola «umani» dis-gustosa! Di recente ho consultato l’Enciclopedia Britannica su cd-rom. Volevo conoscere la definizione della parola comunicazione. E che trovo? «Per gli umani, la comunicazione è… ecc.». Prima la parola «umano» è scritta in blu, poi c’è un’indicazione «guardate all’indice che cosa vuol dire». Lo sviluppo ha fatto di noi degli «umani».

Ritorno al mio amico: «Lo sviluppo degli umani come funzione latente della tecnica è un evidente successo. Dappertutto nel mondo le persone ora credono sinceramente di essere umani. L’umano è diventato un essere riconosciuto legalmente, piuttosto che una creatura naturale». Inevitabilmente, ripenso al vecchio professore Tenembaum, che parlava in un bellissimo libro (ha quarant’anni) della differenza di trattamento degli schiavi tra il Nord e il Sud. Nel Sud, in Spagna, ci sono stati dei Concili nel XVI secolo, per verificare se gli schiavi erano veramente umani, degli Uomini. In America latina, se erano degli uomini, si doveva avere una ragione per metterli in schiavitù. Nel Nord, si aveva l’idea che si diventa umani diventando cittadini.

Samuel Sajay continua: «Il senso delle proporzioni, di ciò che è adeguato, appropriato e buono non può esistere in un mondo tecnologico, un mondo dunque non naturale. Se il mondo è “fabbricato” (“Rifare il mondo”), non sarà naturale, cioè non sarà un dato con cui devo vivere». È una base fondamentale del pensiero di tutte le tradizioni che conosco, della proporzionalità, dell’armonia, di ciò che si chiama «il bene». Evidentemente ridiamo se riprendo l’espressione di Aristotele, che dice che la pietra cade perché ha il desiderio per il posto «buono» al quale appartiene. Questo non può essere nello spazio, è pensare con i piedi per terra. Sajay conclude: «l’umano sarà cooptato per contribuire al self management, al management globale».

Ora, se i miei occhi si sono aperti su ciò che si subisce in questa disumanizzazione, in questa decorporalizzazione, lo devo a Silja Samerky, genetista diplomata e dottore i filosofia. Ella ha lavorato su una cinquantina di interventi di donne incinte realizzati in Germania. Mi ha mostrato in modo evidente come, in un’ora e mezza, in un rituale assurdo, una donna che attende normalmente il suo bambino è trasformata… in decision maker. La madre ha di fronte a sé il profilo di probabilità e di rischi, come un «decisore», e sulla cui base deve prendere la sua decisione. Una decisone che non viene presa con ciò che si è chiamato «volontà». Ritorno di nuovo ai miei cari dizionari: nel nuovo, enorme, dizionario di filosofia dell’editore Routledge, alla parola will (volontà) viene detto: «Una facoltà un tempo attribuita all’essere umano». C’è una premessa di un quarto di pagina, vi consiglio di andare a guardare, se siete interessati. Silja mi ha fatto capire ciò che si passa in quell’istante speciale, e che non mi sarà mai possibile veramente sentire nelle mie viscere, questo istante in cui la mamma pensa a ciò che nasce in lei, come un essere di valore al quale occorre applicare una riflessione sulle chances e sui rischi, un profilo dei rischi. Mi ha fatto capire fino a che punto è una transizione.

Penso che se volete riflettere sulla situazione in cui ci troviamo – chiamiamola il «grave dubbio» sullo sviluppo – bisogna interessarsi a questo concetto di «armonia». Mathias Rieger mi ha fatto capire che la musica era un arrangiamento di armonie e che è Heinhotz, l’Einstein del XIX secolo, che ha detto che «questo pensiero d’armonia non si applica ad un mondo dove ciò che era armonia è trasformato in valore».

Questo valore, che si esprime in Hertz, può diventare una lotta nel 1870 tra Berlino e Parigi, se la base di questo valore è per esempio 440 Hz piuttosto che 445 Hz. Per questa ragione, l’arte può diventare qualcosa di calcolabile. Amo questa musica, sono conquistato da questa musica moderna che è un’opera d’arte, indipendente da colui che ascolta, che esiste in sé, fatta con dei toni, calcolata, in opposizione a ciò che era l’ascolto dei vecchi: un’armonia, una relazione tra il flauto e l’orecchio.

 

(Parigi, UNESCO, 28 febbraio 2002)

Intervento al Colloque International sur l’aprés-développement

“Défaire le développement, refaire le monde”

Testo tratto dal volume degli Atti pubblicati a cura de La Ligne d’horizon – Les amis de F. Partant, edizioni Parangon-L’Aventurine, Paris 2003

 

Traduzione italiana di Paolo Coluccia