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Universalismo imperiale e pacifismo 'secessionista'

di Danilo Zolo - 09/12/2005

Fonte: Jura Gentium

 

 

1. La crisi del pacifismo

In due recenti interventi su 'La Rivista del Manifesto' e su 'Liberazione' Raniero La Valle ha denunciato la crisi dei movimenti pacifisti in Europa, si è interrogato sulle ragioni della crisi e ha proposto un'alternativa 'politica' alle tradizionali forme di espressione del pacifismo militante, incluse le forme classiche dell'obiezione di coscienza (1).

Che oggi il pacifismo, nelle sue varie espressioni e ispirazioni, sia in crisi è difficile negare. A partire dalla fine degli anni ottanta del secolo scorso, dopo la conclusione della 'guerra fredda', abbiamo assistito a un ricorso crescente alla forza militare, quasi esclusivamente da parte delle grandi potenze occidentali: l'occupazione di Panama per il controllo del canale, la guerra del Golfo, l'invasione di Haiti, gli interventi militari in Somalia e in Ruanda, le due guerre nei Balcani, l'Afganistan.

Nel corso di questi conflitti centinaia di migliaia di persone innocenti hanno perso la vita, sono state mutilate o ferite, hanno visto distrutti i loro affetti e i loro beni. Altre centinaia di migliaia di civili sono morti per fame o per malattie a causa di embarghi imposti dall'Occidente, primo fra tutti quello contro l'Iraq. Quasi nulle, invece, le perdite militari occidentali. A questo flagello vanno aggiunti l'etnocidio in atto del popolo palestinese da parte dello Stato di Israele e delle lobbies sioniste statunitensi, le continue violenze usate contro i ceceni, i curdi e i tibetanie, infine, le atrocità del terrorismo internazionale. All'escalation di odio, di dolore, di distruzione e di morte ha corrisposto l'inerzia o l'impotenza delle istituzioni internazionali che dovrebbero operare per la pace, anzitutto delle Nazioni Unite. "Le Nazioni Unite sono fallite", ha dichiarato senza mezzi termini Pietro Ingrao in una recente intervista apparsa su "Liberazione" (2). Sembra difficile dargli torto.

Nel caso della guerra per il Kosovo e della guerra in Afganistan - quest'ultima tuttora in corso - le potenze occidentali hanno usato la forza militare ignorando il diritto internazionale e violando i diritti più elementari delle persone. Il bombardamento della televisione di Belgrado, la strage di Mazar-i-Sharif, il lager di Guantanamo sono esempi di un uso criminale della forza internazionale che nessuna Corte penale internazionale avrà mai il potere di sanzionare. E dopo l'attentato terroristico subìto l'11 settembre, gli Stati Uniti hanno elaborato una teoria militare e inaugurato una pratica bellica che presentano aspetti eversivi non solo della Carta delle Nazioni Unite ma anche del diritto internazionale generale: si pensi al carattere preventivo, unilaterale, spazialmente indefinito e temporalmente indeterminato della 'nuova guerra' contro l''asse del male' (3).

Di fronte a questo panorama, che la probabile aggressione contro l'Iraq rende ancora più allarmante, è doloroso registrare l'inefficacia sia dei movimenti pacifisti ispirati alla mitezza evangelica o alla non-violenza gandhiana, sia del cosiddetto 'pacifismo giuridico'. Da Kelsen a Bobbio, a Habermas il 'pacifismo giuridico' ha puntato sul diritto e sulle istituzioni internazionali come su strumenti decisivi, se non addirittura esclusivi, per la realizzazione della pace e per la tutela dei diritti fondamentali. Mai come oggi, tuttavia, la formula kelseniana - peace through law - è apparsa un nobile sogno illuministico, con il suo ottimismo normativo e il suo candido universalismo cosmopolitico (4).

Si può aggiungere che la sola autorità internazionale che nelle sue esternazioni pubbliche usa ancora riferirsi al tema della pace è il pontefice romano. Ma i suoi interventi non sono che generici appelli alla buona volontà dei capi di Stato, e si tratta di appelli che per di più mancano di coerenza e di credibilità. Per un verso permane nella predicazione del pontefice il riferimento alla dottrina medievale della 'guerra giusta'. Durante il 'Giubileo dei militari e delle forze di polizia' - celebrato in San Pietro, a Roma, nel novembre del 2000 - il pontefice ha approvato l''ingerenza umanitaria' della Nato contro la Repubblica federale jugoslava. Per un altro verso, dal punto di vista di gran parte delle culture e delle religioni non occidentali, il magistero della Chiesa cattolica viene associato alle convenienze strategiche delle potenze occidentali e agli interessi del mondo capitalistico, al quale l'organizzazione ecclesiastica è legata sul piano finanziario. È ovvio che anche l'ecumenismo spettacolaristico dei molti viaggi del pontefice può essere visto come il contrappunto 'spirituale' del processo di occidentalizzazione del mondo e dell'espansione globale dei mercati.

Se le cose stanno così, La Valle ha buone ragioni per sentirsi deluso dal 'vecchio pacifismo', anche se a lui, credente, non viene meno la convinzione consolatoria - la speranza teologale - che alla fine il "piano di Dio" si avvererà storicamente, assieme all'unificazione della 'famiglia umana' e alla pace perpetua fra gli uomini (5).

2. L'universalismo imperiale

Secondo La Valle il pacifismo è in crisi perché nel corso dell'ultimo decennio è mutato il fenomeno della guerra. Nella percezione di questo mutamento i movimenti pacifisti si sono mostrati lenti di riflessi culturali e politici. Il fenomeno della guerra è mutato, sostiene La Valle, perché la guerra oggi ha assunto una funzione discriminatrice fra due mondi contrapposti: quello dei ricchi e potenti, da una parte, quello dei poveri e deboli, dall'altra.

Un quinto dell'umanità globalizzata - sostiene La Valle, riecheggiando tesi di Zygmunt Bauman - è schierato contro gli altri quattro quinti, in una vera e propria 'secessione' dall'unità della famiglia umana (6). La guerra è necessaria alle élites del nuovo potere globale per puntellare con la forza la loro 'extraterritorialità' secessionista. Questa è la "grande novità politica dell'ultimo decennio" e tale novità ha cancellato la prospettiva pacifista e cosmopolitica disegnata nel secondo dopoguerra dalla Carta delle Nazioni Unite. Assistiamo così ad una inedita "rottura dell'unità del mondo" e questa rottura, con la sua "antropologia della divisione", induce una trasformazione anche dei fini e delle forme della guerra.

Lo schema dualistico proposto da La Valle pone in evidenza alcuni aspetti vistosi delle relazioni internazionali dopo il crollo dell'Impero sovietico e la fine del bipolarismo. Sottolinea in particolare la netta polarizzazione nella distribuzione della ricchezza oggi in atto a livello planetario. Come ha rilevato John Galbraith nella prefazione allo Human Development Report delle Nazioni Unite del 1998, il 20% della popolazione mondiale più ricca si accaparra l'86% dei consumi mondiali, mentre il 20% più povero consuma l'1,3% di tutti i beni e servizi prodotti. E la diseguaglianza di reddito fra i due estremi della piramide della stratificazione sociale è tuttora in forte accelerazione, dopo che si è più che triplicata negli ultimi quarant'anni (7). Questo è certamente un dato di grande rilievo per cogliere le ragioni dei conflitti che oggi insanguinano il mondo, non esclusi alcuni aspetti del global terrorism.

E tuttavia lo schema tracciato da La Valle non coglie a mio parere la dinamica profonda delle trasformazioni in atto. In proposito condivido l'opinione espressa da Rossana Rossanda su questa rivista (8). Secondo Rossanda l'attuale modello politico ed economico di 'governo del mondo' è di natura inclusiva e non esclusiva, è tendenzialmente monistico e non dualistico. Questo è un punto teorico-politico cruciale, che richiederebbe un'ampia, accuratissima riflessione. Giulietto Chiesa, in La guerra infinita, ha offerto alcuni elementi importanti per l'avvio di una riflessione di questo tipo (9). Personalmente ho tentato un minimo approfondimento del tema discutendo con Antonio Negri le tesi di Empire (10), tesi alle quali anche Rossanda fa riferimento.

Ciò che si può tentare di dire in poche righe è anzitutto che l'istituzione delle Nazioni Unite non dovrebbe essere interpretata come una sorta di rottura epocale rispetto all'ancien régime del sistema di Vestfalia, dominato dalla logica anarchica della sovranità degli Stati e dalla guerra. La Valle sostiene che la Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del '48 avevano avviato "la grande costruzione della comunità democratica delle nazioni" (11). Questa è secondo me una rappresentazione assai poco realistica della genesi storica delle Nazioni Unite.

In realtà si è trattato di una vicenda che ha visto le potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale impegnate nel tentativo di concentrare nelle proprie mani la totalità del potere internazionale. Esse si sono attribuite le prerogative di un'amplissima sovranità nel momento stesso in cui limitavano la sovranità degli Stati deboli e periferici. Come ha osservato Hans Morgenthau, la Carta delle Nazioni Unite, grazie alla sua stretta parentela con i principi della Santa Alleanza, è stata l'espressione e il compimento di una visione gerarchica e autoritaria dei rapporti internazionali (12). È stata un compimento anche nel senso che per la prima volta un documento internazionale, attribuendo alle cinque potenze vincitrici del conflitto mondiale il plusvalore giuridico del potere di veto, ha sancito in termini formali la diseguaglianza fra gli Stati e fra i loro cittadini. In questo modo è stato violato un principio fondamentale del diritto moderno, quello della eguaglianza dei soggetti di diritto.

Se si condivide il giudizio di Pietro Ingrao, secondo il quale le Nazioni Unite sono una istituzione ormai fallita, allora sarebbe prova di lucidità intellettuale e di coraggio politico domandarsi, assieme a lui, se nella loro struttura "c'era uno sbaglio in radice" e se ha ancora senso "porsi la questione di un'assemblea e di una dirigenza mondiale" (13). Meno lucido e coraggioso è a mio parere continuare a riferirsi alle Nazioni Unite come a una sorta di patto fondativo fra i popoli per la creazione di un ordine mondiale universale e pacifico, e magari attardarsi nell'accademico esercizio delle proposte di una loro 'riforma democratica' che realizzi l'unità della 'famiglia umana'.

In secondo luogo, e questo è il punto centrale, la storia del diritto e delle relazioni internazionali mostra che l'ordine internazionale ha sempre presentato - nell'area mediorientale e mesopotamica, in Europa, in Occidente - un carattere 'spazialmente discriminatorio', ben lontano dall'idea dell'unità morale e dell'eguaglianza giuridica dei membri della specie umana. A partire dagli ordinamenti internazionali antichi sino allo jus gentium romano, al sijar islamico e alla dottrina cattolica del bellum justum, la regolazione giuridico-consuetudinaria dei rapporti internazionali - e la limitazione della guerra - è stata applicata soltanto entro lo spazio della 'civiltà' (ebraica, greca, imperiale, cristiana, arabo-islamica, moderna, etc.) con l'esclusione rigorosa dei 'barbari' (gentili, idolatri, infedeli, turchi, neri, selvaggi, cannibali, pirati, etc.) (14). I 'barbari' erano considerati estranei all'ordinamento giuridico ed erano quindi privi di qualsiasi diritto. In caso di guerra la loro vita, i loro beni e le loro istituzioni non meritavano alcun rispetto.

A questa regola 'spaziale' non ha fatto eccezione la Seconda scolastica, inclusa la troppo celebrata dottrina di Francisco de Vitoria (15). La Scolastica spagnola ha giustificato lo sterminio dei nativi americani o riproponendo la dottrina aristotelica del carattere naturale della schiavitù - il francescano Juan Ginés de Sepúlveda, fra gli altri - o qualificando come justa causa belli il diritto degli Imperi iberici di diffondere la verità cattolica nel nuovo mondo.

E neppure lo jus publicum europaeum, come Carl Schmitt ha contribuito a mostrare, ha fatto eccezione a questa regola di 'rottura' politica e giuridica dell'unità del mondo. Anzi. Il carattere spaziale-territoriale del sistema vestfaliano degli Stati sovrani diviene, fra Ottocento e Novecento, il fondamento del 'diritto coloniale'. Fonda cioè il 'doppio standard' normativo, praticato da tutti gli 'Stati di diritto' europei nei territori coloniali con il beneplacito della Chiesa cattolica e delle chiese riformate, impegnate nella loro secolare opera di proselitismo missionario all'ombra delle armi. Questa situazione discriminatoria - 'secessionista', direbbe La Valle - tende a mutare soltanto con il declino dell'Europa come potenza coloniale e come centro riconosciuto della terra. Muta, cioè, con la dissoluzione dello jus publicum europaeum e con l'espansione della cosiddetta 'società internazionale' in nome dell'universalismo ginevrino (16).

Tutto ciò accade a partire dai primi decenni del secolo scorso, grazie ad una serie molto complessa di fattori politici ed economici fra i quali spiccano l'emergere della potenza degli Stati Uniti e del Giappone, la diffusione della tecnologia, dell'informazione e degli stili di vita occidentali, la libertà dei commerci e del traffico marittimo e, non ultima, l'introduzione delle armi di distruzione di massa. In sintonia con questi processi il diritto internazionale assume le caratteristiche di un ordinamento giuridico indifferenziato e le istituzioni internazionali - politiche ed economiche - si aprono ad una spazialità generale-universale. Questo vale per la Società delle Nazioni e varrà soprattutto per le Nazioni Unite, che affermeranno nello stesso tempo il loro universalismo cosmopolitico - despazializzato - e l'intento di gestire l'ordine globale in forme gerarchico-autoritarie.

È nel corso di questi decenni che gli Stati Uniti, sull'onda dell'idealismo wilsoniano, rilanciano la nozione di 'guerra giusta', propongono l'idea della responsabilità individuale per i crimini di guerra e scoprono la loro vocazione all'intervento universalistico-umanitario in tutto il globo (17). Alla fine del secolo questa vocazione troverà una formulazione teorica nella negazione del principio vestfaliano del rispetto della sovranità degli Stati e della non ingerenza nella loro domestic jurisdiction, e si esprimerà concretamente nelle guerre balcaniche e in particolare nella guerra per il Kosovo.

È nel contesto di questo complesso di fenomeni che, a mio parere, ha inizio il processo che oggi chiamiamo 'globalizzazione' e che riteniamo abbia conosciuto una forte accelerazione nell'ultimo decennio del secolo scorso, dopo il collasso dell'Impero sovietico e l'affermazione degli Stati Uniti come la sola super-potenza del pianeta, dotata in ogni campo di una supremazia soverchiante rispetto al resto del mondo. Ebbene - ecco il punto cruciale - a mio parere non si può sostenere che il processo di globalizzazione egemonica, guidato dagli Stati Uniti, sia un processo 'discriminatorio' e 'secessionista', nel senso che La Valle sembra attribuire a questi termini: nel senso, cioè, che saremmo in presenza di una 'nuova guerra' condotta da una potente élites di privilegiati contro il resto del mondo. La guerra sarebbe motivata dalla elementare constatazione che, data la scarsità delle risorse globali, solo una piccola parte dell'umanità (solo i ricchi e forti) può trovare uno 'spazio vitale' sul pianeta, mentre tutti gli altri - e sono miliardi - dovrebbero essere uccisi o lasciati morire, visto che non è stato possibile impedirne la nascita (18).

Nonostante il suo realismo radicale questa interpretazione non mi sembra soddisfacente. In realtà, la dinamica economica e politica dei processi di globalizzazione mi sembra quella dell'integrazione universalistica, e non del trinceramento bellicista e dell'esclusione. Persino la Cina è in questo momento oggetto più di strategie diplomatiche di carattere inclusivo (di accoglienza nel WTO, ad esempio) che non di esclusione, nonostante che molti analisti statunitensi avvertano sempre più il rischio di un suo prossimo 'secessionismo'. Il mondo intero è coinvolto in processi di integrazione regionale e globale, e in generale la deriva strategica che accomuna sia i grandi potentati economici, sia le centrali politiche della governance statunitense va in una direzione 'umanitaria' e cosmopolitica, all'insegna, appunto, dell'unità del genere umano.

Certo, la 'nuova guerra' deve essere usata dalla superpotenza americana come una protesi indispensabile della 'stabilità egemonica globale'. La guerra non è tuttavia concepita dall'opinione pubblica statunitense come un valore o come un fine: la vita - e il successo nella vita - è al vertice dell'individualismo americano. Non si può neppure parlare, a rigore, di una vocazione bellicista delle élites politiche statunitensi, per quanto esse si mostrino sempre più inclini, come ha disinvoltamente riconosciuto Robert Kagan, a usare la forza senza scrupoli etici o vincoli giuridici in un mondo che essi giudicano "hobbesianamente anarchico" (19). In realtà, come Michael Hardt e Antonio Negri hanno sostenuto in Empire, sia pure in termini a mio parere largamente criticabili (20), si tratta di chiedersi se non ci troviamo in presenza della reincarnazione globalista di un sistema politico 'imperiale'. Questo è secondo me il punto decisivo.

I grandi imperi del passato hanno sempre definito un'area geografica per la quale rivendicavano 'speciali interessi' e che andava molto oltre il loro stretto ambito territoriale. Questo spazio era politicamente e giuridicamente precluso all'ingerenza e all'influenza di altre potenze. Oggi il potere 'globale' degli Stati Uniti presenta una gravitazione espansiva di tipo analogo: con la differenza che in questo caso l'area degli special interests coincide con il pianeta e include, oltre al territorio terrestre, gli oceani, il cielo e, sempre più, anche lo spazio extraterrestre, oggetto di una graduale militarizzazione.

L'universalismo potenziale degli imperi classici sembra assumere oggi un'attualità concreta. Gli Stati Uniti, impegnati come sono a promuovere, in quanto global power, l'ordine politico e lo sviluppo economico mondiale, svolgono un ruolo realmente 'universale'. Essi adempiono funzioni di pacificazione armata, di arbitrato e di diplomazia coercitiva che riguardano il mondo intero. E per assicurare lo sviluppo e l'espansione globale dell'economia di mercato, gli Stati Uniti garantiscono a tutte le potenze industriali l'accesso alle risorse energetiche, si fanno garanti della generale libertà degli scambi e della stabilità dei mercati finanziari e, infine, fanno della propria moneta la valuta di riserva di tutti i paesi del mondo (21).

Che poi l'economia di mercato, pantografata a livello globale, produca effetti di crescente sperequazione economica è del tutto ovvio, perché - come ha osservato puntualmente Rossana Rossanda (22) - ciò è intrinseco ad un modo di produzione che deve la sua innegabile efficienza proprio al fatto di fondarsi sulla diseguaglianza e sulla competizione asimmetrica. La povertà, le malattie epidemiche, le catastrofi ambientali sono, come direbbe il presidente del consiglio italiano, 'inconvenienti' non voluti e non desiderati, sia a livello mondiale, sia all'interno dei paesi più ricchi e potenti. Così come non è certo auspicato l'uso dell'armamento nucleare, al quale pure gli Stati Uniti continuano a destinare imponenti risorse finanziarie nel quadro di un costante aumento della spesa militare. Il bilancio preventivo per il 2003 ha raggiunto il vertice di circa 380 miliardi di dollari, cifra che corrisponde a due volte e mezzo la spesa militare complessiva di tutti gli altri paesi del mondo. Questo dato può essere assunto come il più vistoso indice empirico del carattere egemonico del presente 'ordine mondiale' (23).

La coercizione politica e militare viene esercitata dall'amministrazione statunitense non contro i paesi poveri e deboli (non viene certo usata contro l'Africa subsahariana, ad esempio), ma contro i possibili fautori di una destabilizzazione secessionistica, contro i paesi che attorno all'idea di uno sviluppo nazionale o regionale si propongano di sfidare l'America's global leadership role. Su questo punto il recente documento del Dipartimento di Stato, Quadrennial Defence Review Report, redatto molto probabilmente sotto la direzione di Paul Wolfowitz, è del tutto esplicito. Sostiene la necessità di irrobustire e aumentare di numero le basi militari statunitensi, che sono già quasi un migliaio, sparse in tutto il mondo. È necessario soprattutto concentrarle nelle aree in cui possono emergere potenze ostili agli Stati Uniti: "precluding hostile dominations of critical areas". Queste "aree critiche" vengono individuate nel continente asiatico: dal Medio Oriente all'Asia centrale, al Golfo del Bengala, al Mar del Giappone e alla Corea, lungo quello che il documento chiama East Asian Littoral, includendovi la Cina e l'Asia del sud-est.

La stessa sistematica violazione del diritto internazionale, l'emarginazione delle Nazioni Unite, la creazione e il controllo di Tribunali penali internazionali ad hoc, il sabotaggio della nuova Corte penale internazionale, l'oppressione del popolo palestinese corrispondono a precise esigenze funzionali: l'autorità 'imperiale' degli Stati Uniti amministra la giustizia globale, definisce i torti e le ragioni dei sudditi, pone le condizioni dell'inclusione degli Stati nel novero dei vassalli fedeli o, invece, dei rogue states, svolge funzioni di polizia internazionale contro il terrorismo, appiana le differenze e gestisce le controversie locali (persino la contesa fra Spagna e Marocco per l''isoletta del prezzemolo'!). In poche parole: gli Stati Uniti operano per la pace e la giustizia internazionale. Il loro potere 'imperiale' è addirittura invocato dai sudditi per la sua capacità di risolvere i conflitti da un punto di vista universale, e cioè imparziale e lungimirante. D'altra parte le differenziazioni spaziali proprie del sistema politico e giuridico vestfaliano sono ormai superate, inclusa la discriminazione colonialista e lo stesso 'diritto coloniale'. Al suo posto, l'Occidente celebra l'universalità della dottrina dei diritti dell'uomo e giunge, in suo nome, persino a organizzare 'guerre umanitarie' e a dar vita a Tribunali penali internazionali ad hoc.

Ma perché tutto questo si realizzi occorre che il 'potere imperiale' sia legibus solutus: un Imperatore decide di volta in volta i singoli casi, ma non fissa regole generali, né si impegna al rispetto di regole generali. Il potere imperiale è incompatibile sia con il carattere generale e astratto della legge, sia con l'eguaglianza formale dei soggetti dell'ordinamento internazionale. Ed è significativo, che oggi venga riproposta con forza nel mondo anglosassone la dottrina del bellum justum. Si tratta di una dottrina medievale, tipicamente imperiale, che suppone l'esistenza di un potere e di una autorità al di sopra delle parti. Esemplare in questo senso è il documento dei sessanta intellettuali statunitensi, guidati dal filosofo e sionista militante Michael Walzer, che ha sponsorizzato come just war la guerra degli Stati Uniti contro l''asse del male'. L'attività di polizia internazionale che la potenza egemone svolge usando mezzi di distruzione di massa - police bombing - richiede un potenziamento della persuasione comunicativa fondata su argomenti morali e umanitari.

In poche parole: l'attuale costituzione del mondo è tendenzialmente inclusiva, omologante e universalistica, ed è, almeno in linea di principio, pacifista e cosmopolitica, non 'secessionista' (come lo era invece, ad esempio, il nazionalista, bellicista e razzista Terzo Reich). Ciò non esclude, naturalmente, che gli Stati Uniti siano 'costretti' a usare la forza delle armi per garantire un ordine pacifico, stabile e universale: contro il global terrorism, contro i rogue states, contro le 'forze del male' che rifiutano la democrazia, lo Stato di diritto e l'economia di mercato. E tutto ciò non esclude, altrettanto ovviamente, l''inconveniente' globale della crescente sperequazione nella allocazione della ricchezza. La grande novità dell'ultimo decennio, insomma, è la tendenziale unificazione del mondo sotto l'egemonia 'imperiale' degli Stati Uniti e non, come sostiene Raniero La Valle, la 'rottura dell'unità del mondo'.

3. Un pacifismo 'secessionista'

Se lo schizzo analitico che ho sopra proposto è minimamente plausibile, allora sono chiare le ragioni che hanno messo in crisi il vecchio pacifismo e i suoi metodi di lotta. Per i movimenti pacifisti tradizionali la pace era minacciata dalla sovranità degli Stati nazionali, a causa del loro nazionalismo e militarismo. Penso ad esempio all'obiezione di coscienza contro la leva militare obbligatoria. Durante la fase della guerra fredda e dell''equilibrio del terrore' sotto accusa erano soprattutto gli Stati dotati di armamento nucleare, schierati con l'uno o con l'altro dei due blocchi contrapposti. Oggetto di contestazione era il loro crescente armamento missilistico e nucleare (e i loro esperimenti atomici), che sottraeva irrazionalmente risorse allo sviluppo civile dell'umanità. Si denunciava la loro riluttanza a stringere accordi internazionali per il disarmo, la coesistenza pacifica, la collaborazione fra i popoli. Si trattava essenzialmente di una testimonianza morale - di una 'obiezione di coscienza', appunto - per lo più legata a convinzioni religiose di tipo universalistico, rivolta contro il particolarismo bellicista degli Stati.

Sia in pensatori laici come Aldo Capitini, Johan Galtung o Norberto Bobbio, sia in autori religiosi come Ernesto Balducci, Lorenzo Milani o Giorgio La Pira - per non parlare dei 'maestri' come Tolstoi e Gandhi - l'idea della pace aveva un'intonazione cosmopolitica e messianica, normalmente poco incline a calarsi nella lotta politica quotidiana. Coincideva in sostanza con il progetto kantiano del superamento di ogni conflitto e di ogni guerra interstatale e della realizzazione di una pace perpetua e universale che rispecchiasse l'unità spirituale del genere umano.

Se le cose stanno così, allora La Valle ha, nello stesso tempo, ragione e torto. Ha ragione nel criticare il vecchio pacifismo per il suo debole spessore politico e per il suo ambiguo neutralismo nel valutare le responsabilità dei singoli conflitti armati (le marce della pace Perugia-Assisi con la partecipazione di Massimo d'Alema sono state davvero un esempio clamoroso in questo senso). Ma a mio parere La Valle, nonostante la bontà di molti suoi argomenti, ha torto perché propone un 'nuovo pacifismo' che si differenzia troppo poco dal 'vecchio'. La Valle muove da una visione dell'attuale situazione mondiale - la 'rottura dell'unità del mondo' - che mi sembra ancora troppo ancorata ad una filosofia della storia di tipo etico-metafisico e religioso.

Io penso che un pacifismo 'politico' e 'laico' - in una parola, realistico - non dovrebbe avere più nulla a che fare con il paradigma, mistico e imperiale nello stesso tempo, della 'pace perpetua' e dell''unità spirituale dell'umanità'. E sono queste assunzioni 'ecumeniche', per così dire, che a mio parere impediscono a La Valle di percepire la profonda novità che si è affermata a livello globale dopo la fine della guerra fredda: l'avvento di una costituzione del mondo tendenzialmente 'imperiale' e la subordinazione degli Stati nazionali (medi e piccoli), un tempo sovrani, al potere globale degli Stati Uniti.

Secondo La Valle il nuovo pacifismo dovrebbe impegnarsi in una sistematica obiezione di coscienza 'politica' contro ogni forma di 'secessionismo': fare "obiezione contro tutto ciò che divide, che discrimina, che rompe l'unità della società umana". A contrario, ogni processo di integrazione - politica, economica, culturale - andrebbe assecondato come prodromo della realizzazione della meta ultima e del valore supremo dell'unità della specie umana. La proposta è suggestiva e non manca di alcune implicazioni importanti, come l'idea di una obiezione di coscienza 'politica' contro le leggi razziste e segregazioniste, che in Italia e altrove discriminano gli stranieri extracomunitari.

In generale, tuttavia, il progetto di La Valle non mi sembra persuasivo se, come io penso, operare per la pace in termini realistici oggi significa perseguire due finalità essenziali:

1. creare le condizioni politiche ed economiche generali che impediscano - o rendano poco conveniente - agli Stati Uniti (e alle potenze occidentali loro alleate) l'uso arbitrario della forza; 2. bloccare e invertire gradualmente il processo in atto che porta ad un aumento costante della sperequazione distributiva della ricchezza a livello globale.

Se, sulla base di queste due semplici criteri, dovessi proporre a mia volta uno schema elementare - un'esile traccia congetturale da sottoporre a severi controlli - direi che si tratterebbe di mettere a fuoco una strategia pacifista in qualche modo inversa a quella indicata da La Valle: una sorta di 'pacifismo secessionista'. Occorrerebbe opporsi a tutto ciò che, entro la 'logica imperiale', ha l'effetto di omologare, unire, sedare, 'pacificare', orientare verso una meta cosmopolitica e universalistica. L'obiettivo dovrebbe essere quello di sottrarre consenso alla prospettiva di un 'governo imperiale' del mondo e, nello stesso tempo, di operare perché alla gerarchia unipolare delle relazioni internazionali si sostituisca gradualmente un assetto pluralistico: un 'pluriverso' di grandi aree di civiltà in interazione il più possibile pacifica, anche se competitiva, fra di loro. Un regionalismo multipolare, ad esempio, potrebbe essere capace di ridurre - se non certo di bilanciare perfettamente ed eliminare - l'asimmetria delle forze oggi in campo e sconfiggere l'aggressivo unilateralismo degli Stati Uniti.

Andrebbe fra l'altro tenuto presente che un assetto mondiale policentrico è la condizione perché il diritto internazionale possa svolgere una minima funzione di contenimento delle conseguenze più distruttive delle 'nuove guerre'. Perché un sistema normativo internazionale possa esercitare effetti di ritualizzazione e di contenimento dell'uso della forza - di una sua sottomissione a procedure predeterminate e a regole generali - la condizione è che nessun soggetto dell'ordinamento possa, grazie alla sua potenza soverchiante, considerarsi ed essere considerato dalla comunità internazionale legibus solutus. Occorre, in altre parole, impedire che si affermi una 'costituzione imperiale' del mondo.

Per rendere più esplicita e, mi auguro, più plausibile la mia posizione aggiungo un solo esempio concreto: quello del rapporto fra il processo di unificazione europea e la pesante influenza che su questo processo gli Stati Uniti esercitano da decenni. La realizzazione di un mondo meno violento, meno spietato e discriminatore passa probabilmente (anche) per la 'secessione europea' dalla sua attuale lealtà e subalternità atlantica. Su questo tema, come è noto, è in corso un dibattito di estremo interesse, recentemente ravvivato da un saggio molto aggressivo del politologo statunitense Robert Kagan. A parere di Kagan e di molti osservatori europei e statunitensi, stanno aumentando le ragioni di un 'dissenso strategico' fra le due sponde atlantiche. Stati Uniti ed Europa si dividono su un numero crescente di questioni, soprattutto su temi come il dissesto ecologico del pianeta, il rispetto del diritto internazionale, le forme di lotta da adottare contro il terrorismo internazionale, i rischi connessi alla guerra contro l'Iraq, la nuova Corte penale internazionale (ICC). Se il dissenso transatlantico si farà più acuto, minaccia con toni imperiali Robert Kagan, gli Stati Uniti saranno costretti a svolgere la loro funzione di guardiano armato del mondo senza tenere in minimo conto le opinioni dei leader politici europei (24).

Personalmente non ho dubbi che il primo compito di un movimento pacifista europeo davvero 'nuovo' e 'politico' sarebbe quello di mostrare come un'Europa affrancata dal soffocante abbraccio atlantico - un'Europa 'secessionista', e cioè meno occidentale, più 'orientale' e soprattutto più mediterranea - potrebbe svolgere una funzione di ridimensionamento della supremazia degli Stati Uniti. Una forte autonomia e identità europea potrebbe alla fine favorire una riduzione dell'uso arbitrario della forza internazionale e attenuare l'oppressione dei popoli più deboli e poveri, a cominciare da quello palestinese.


Note

*. Da La rivista del Manifesto, 32, ottobre 2002, pp. 47-52. Desidero ringraziare Gustavo Gozzi, Stefano Pietropaoli e Filippo Ruschi per i loro commenti critici a una prima versione di questo mio testo.

1. R. La Valle, Contro la nuova guerra, 'La Rivista del Manifesto'; R. La Valle, La secessione dal mondo, 'Liberazione'.

2. P. Ingrao, Il potere delle armi e le armi del potere, 'Liberazione', 2 giugno 2002.

3. G. Chiesa, La guerra infinita, Milano, Feltrinelli, 2002.

4. H. Kelsen, Peace through Law, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 1944.

5. R. La Valle, La secessione dal mondo, cit.

6. Cfr. Z. Bauman, Voglia di comunità, Roma-Bari, Laterza, 2001. Bauman definisce l'atteggiamento dei membri dell'élite transnazionale come "la secessione dell'uomo affermato", caratterizzato da una "extraterritorialità mentale e morale" (ivi, p. 49).

7. L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 67-94.

8. R. Rossanda, Pacifismo: il nodo del politico, 'La Rivista del Manifesto'.

9. G. Chiesa, La guerra infinita, cit., particolarmente il primo capitolo, pp. 7-31.

10. A. Negri, D. Zolo, L'Impero e la moltitudine. Un dialogo sul nuovo ordine della globalizzazione, 'Reset', settembre 2002.

11. R. La Valle, Contro la nuova guerra, cit., passim.

12. H. Morgenthau, Politics Among Nations. The Struggle for Power and Peace, Knopf, New York 1960 (trad. it. Bologna, il Mulino, 1997) pp. 480 ss.

13. P. Ingrao, op. cit.

14. Si possono vedere: D.J. Bederman, International Law in Antiquity, Cambridge, Cambridge University Press, 2001; Mario Bretone, Storia del diritto romano, Laterza, Roma-Bari, 1992; M. Khadduri, The Islamic Law of Nations: Shaybani's Siyar, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1966; B. Paradisi, Storia del diritto internazionale nel Medio Evo, Milano, Giuffrè, 1940; F.H. Russell. The Just War in the Middle Ages, Cambridge, Cambridge University Press, 1975.

15. L. Hanke, Aristotle and the American Indians, Bloomington (Ind), Indiana University Press, 1959.

16. H. Bull, A. Watson (a cura di), The Expansion of International Society, Oxford, Oxford University Press, 1984, trad. it. Milano, Jaka Book, 1993.

17. Su questi sviluppi sono ancora di attualità le pagine di C. Schmitt in Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, trad. it. cit., pp. 335-67. Per la letteratura più recente: J.B. Elshtain (a cura di), Just War Theory, Oxford, Basil Blackwell, 1992.

18. R. La Valle, La secessione dal mondo, cit.

19. R. Kagan, Power and Weakness, 'Policy Review', giugno-luglio 2002.

20. M. Hardt, A. Negri, Empire, Cambridge (Mass.), Harvard College, 2000, trad. it. Milano, Rizzoli, 2001.

21. G. Chiesa, La guerra infinita, cit., pp. 18-20.

22. R. Rossanda, op. cit.

23. P. Bergamaschi, L. Morgantini, La Nato e la sfida del riarmo. I pacifisti, che cosa fanno?, 'il Manifesto', 6 agosto 2002, p. 5 (gli autori fanno riferimento alla relazione di Günter Burghardt, ambasciatore dell'UE negli Stati Uniti, tenuta al Parlamento europeo il 19 febbraio 2002); G. Chiesa, La guerra infinita, cit., p. 170.

24. R. Kagan, Power and Weakness, cit.