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Anton Lazaro Moro e l'origine dei fossili marini

di Francesco Lamendola - 24/06/2007

Solitario, isolato, pressato da impegni e incombenze di tutt'altra natura e, infine, incompreso da molti, che lo accusarono di "empietà" ed "ateismo", l'abate friulano Anton Lazzaro Moro (1687-1764), natio di San Vito al Tagliamento, formulò in completa autonomia una teoria sull'origine dei fossili marini che contiene folgoranti anticipazioni della moderna paleontologia.

La sua opera voluminosa, «De' crostacei ed altri marini corpi che si truovano su' monti», benché tradotta in tedesco e in francese qualche anno dopo, non ebbe quella rinomanza che avrebbe ampiamente meritato, anche se probabilmente fu letta - o, almeno, ne furono letti estratti e recensioni - dai grandi naturalisti, specialmente inglesi e francesi, del secolo XVIII, da Georges-Louis Buffon a James Hutton, i padri delle moderne scienze della Terra. Ferveva allora la vivace polemica fra «nettunisti»  e «plutonisti» che, dal terreno specifico della disputa sulla misteriosa origine dei fossili marini, implicava la concezione generale del passato geologico del Pianeta e, per certi versi, riproponeva motivi del conflitto 'galileiano' tra scienza e fede, in quanto poneva l'ineludibile confronto con il racconto biblico della creazione.

Moro fu un plutonista convinto e, al tempo stesso, uno strenuo difensore della separazione tra metodo scientifico e Rivelazione; quanto al metodo scientifico, sostenne l'importanza dell'osservazione dei fatti concreti e la superiorità di essa sul procedimento puramente logico-deduttivo. Per questo vide nell'emersione dal mare dell'Isola Nuova, nell'arcipelago delle Cicladi, avvenuta nel 1707, il fatto che avrebbe rivoluzionato le antiche concezioni sulla storia naturale della Terra. E, tuttavia, egli ebbe l'ardimento speculativo di far leva su quel solo fatto, e su pochi altri tramandato fin dall'antichità (relativi alle eruzioni dell'Etna e del Vesuvio) di concepire una teoria modernissima della scienza geologica, che metteva radicalmente in discussione molte "verità" acriticamente accettate e molte apparenti evidenze della natura.

  

 

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Da sempre, si può dire, l'umanità è stata colpita dalla presenza dei fossili, e specialmente di quelli marini, rinvenuti negli strati rocciosi delle terre emerse e perfino sulle alte pendici dei monti, lontanissimo, dunque, dalle acque del mare. Che cos'erano, dunque? E come erano giunti fin lassù, chi o che cosa ve li aveva portati?

Quanto alla prima domanda, non tutti ammettevano la loro origine organica. Alcuni, infatti, propendevano a giudicarli dei curiosi "scherzi" della natura o perfino delle creazioni demoniache, che simulavano l'opera del Creatore e contraffacevano, nell'aspetto generale, quello di esseri viventi quali molluschi, crostacei, piante, ecc. Né si deve credere che una tale interpretazione fosse propria solo delle epoche più lontane e meno agguerrite sul piano culturale, poiché essa era ancora ben viva ai tempi di Anton Lazzaro Moro, cioè all'inizio del XVIII secolo, anche se andava ormai declinando.

L'enigma dei fossili, del resto, s'intrecciava con la magia e la superstizione, tanto più che alcuni di essi venivano interpretati come la testimonianza di draghi, grifoni, unicorni, e sembravano confermare la credenza nell'esistenza reale di tali mitiche creature. (1) Nella piazza di Klagenfurt, in Carinzia, alla fine del Cinquecento venne eretta una fontana con la statua di un drago gigantesco che, anticamente, avrebbe vissuto nei dintorni della cittadina: tradizione che pareva avvalorata dal rinvenimento del cranio di un grande rinoceronte lanoso. (2) Non mancavano poi coloro che vedevano nei fossili delle "pietre cadute dal cielo", ossia dei meteoriti (in un'epoca in cui la scienza 'ufficiale' tendeva a rifiutare l'idea stessa che degli oggetti pesanti, come le pietre, potessero esistere in cielo, e di lì cadere sulla Terra).

Anche il grande genio di Leonardo da Vinci era stato attratto dal fenomeno dei fossili e incuriosito dal mistero della loro natura e della loro origine. Com'era nella sua mentalità, non si era limitato a discettare sulla base della scienza antica ma si era recato più volte a studiarli da vicino, in situ, tanto sulle pendici dell'Appennino quanto delle Alpi, ad esempio nella valle del fiume Isonzo (cioè, proprio nei luoghi che anche Moro, che non fu un viaggiatore, avrebbe avuto occasione di studiare, essendo i più vicini ai suoi luoghi di residenza). Lasciò anche diversi scritti sull'argomento, composti non per la pubblicazione ma per sua ricerca personale, dai quali ricaviamo comunque la conclusione che il grande scienziato aveva già chiaramente individuato la loro origine organica e intuito che il problema della loro giacitura era strettamente correlato a quello dei passati movimenti della crosta terrestre e, quindi, alla storia della Terra nel suo complesso. (3)

Verso la fine del 1600, comunque, la discussione sull'origine dei fossili acquista toni polemici sempre più violenti e vede contrapposte non solo le due "scuole" naturalistiche che - più tardi - sarebbero state chiamate dei nettunisti e dei plutonisti (seguaci, rispettivamente, di Abraham Werner, 1750-1817, e di james Hutton, 1726-1797), ma anche le due fondamentali impostazioni scientifico-religiose (essendo i due ambiti non ancora nettamente separati, come avverrà in seguito). Da una parte vi è la "scuola cartesiana" (o, secondo un'altra prospettiva, "leibniziana"), che cerca di spiegare il Diluvio biblico - elemento imprescindibile della questione fossilifera - in termini scientifici e viene ben presto accusata di ateismo, anche perché sembra accreditare l'idea di un 'inizio' cosmologico piuttosto disordinato e turbolento, che mal si concilia con la convinzione di una natura ordinata e rispecchiante la regolarità matematica di un chiaro progetto divino; dall'altra la "scuola newtoniana" - Newton aveva molto insistito sulle implicazioni religiose della propria visione scientifica (4) - che riafferma il carattere miracoloso del Diluvio che, proprio in quanto evento soprannaturale voluto espressamente da Dio, non contrasterebbe con una visione ordinata e provvidente della natura.

In  particolare, al tempo di Moro sono particolarmente vive le discussioni intorno alla pubblicazione delle opere di due studiosi inglesi, il teologo e giurista  Thomas Burnet (Croft 1635 circa- Londra 1715) ed il naturalista John Woodward (Derbyshire, 1685-Londra, 1728). Il primo, nella sua Telluris theoria sacra o Sacred Theory of the Earth, del 1684-89, aveva cercato di conciliare, attraverso l'interpretazione allegorica del testo, il racconto biblico della reazione con le nuove teorie fisiche; posizioni che aveva ripreso e accentuato con la pubblicazione di una seconda opera, Archaeologiae philosophica: sive Doctrina antiqua de Rerum  Originibuse del 1692, che suscitò aspre polemiche ancor più della precedente. In essa, infatti, l'autore presentava il racconto biblico della caduta come un'allegoria; il clamore che tali affermazioni suscitarono costrinse il re a rimuoverlo dall'ufficio di cancelliere di gabinetto che a suo tempo l'arcivescovo Tillotson gli aveva procurato. (5) Si noti che Burnet, come quasi tutti gli studiosi del suo tempo, aveva scritto le proprie opere rigorosamente in latino, la lingua internazionale della scienza (che oggi si è conservata in solo sua branca, la botanica); la Archaeologia philosphica viene tradotta e pubblicata in inglese soltanto nel 1729, ben quattordici anni dopo la morte dell'autore. Fino a quel momento, dunque, le accese discussioni su di essa avevano riguardato solo una ristretta cerchia di scienziati; solo la sua versione postuma nella lingua del popolo coinvolge un pubblico più vasto.

L'altro autore le cui teorie colpiscono profondamente Anton Lazzaro Moro, tanto che ad esse - come a quelle del Burnet - deciderà di dedicare una assai ampia confutazione, John Woodward, era stato professore di medicina presso il Gresham College di Londra; dotato di una mente poliedrica, si era interessato a diverse discipline scientifiche, dalla paleontologia alla fisiologia generale, dalla geologia alla terapeutica. Nelle sue opere The state of physics and of diseases, del 1718, e An attempt toward a natural history of the fossils of England, apparsa postuma nel 1729 (l'anno dopo la morte del suo autore), egli aveva duramente criticato le tesi del Burnet ed era stato addirittura espluso dalla Royal Society, di cui era membro, per arroganza. (6) Egli, come scrive lo storico della filosofia e della scienza Paolo Rossi,

"… rifiuta gran parte delle ipotesi di Burnet e qualifica di 'romanzesca' la sua storia della Terra. Tra i fossili reperiti in Inghilterra ve ne sono molti di animali che popolano altre parti del globo. Ciò testimonia che il diluvio universale fu, come affermano le Scritture, una vera e propria distruzione del mondo: una dissoluzione della materia nei suoi principi costitutivi, un rimescolamento e una nuova separazione. I fossili sono le testimonianze di quell'evento. Ma il nuovo ambiente che nasce dal Diluvio è funzionale alla vita dell'uomo. . I mutamenti e le variazioni che si sono prodotti sulla Terra servono a uno scopo positivo". (7)

Infine non possiamo non fare il nome, relativamente alla discussione sulla natura e l'origine dei fossili, di un altro illustre studioso italiano, Antonio Vallisnieri (o Vallisneri), che è stato forse il massimo naturalista del nostro paese nel XVIII secolo (accanto ai due fratelli Pietro e Giovanni Arduino), e si può considerare a buon diritto l'erede e il continuatore dell'opera di Francesco Redi. Nato nel 1661 a Trassilico, un piccolo paese della Garfagnana (terra dimenticata da Dio e dagli uomini di ariostesca memoria), era stato allievo di Marcello Malpighi, quindi professore all'Università di Padova: dal 1700 di medicina pratica e, dal 1710, di medicina teorica, e membro (anche lui!) della Royal Society di Londra; nella città euganea era morto nel 1730. I suoi interessi si erano estesi dalla biologia alla medicina alla geologia. Per quanto riguarda i suoi studi in quest'ultima scienza, essi avranno una notevole influenza su Anton Lazzaro Moro sia perché sostenevano l'origine meteorica delle sorgenti naturali (mentre vi era ancora chi affermava che provenissero da cavità della crosta terrestre), sia perché teorizzavano che i fossili giacessero negli strati rocciosi a causa dell'emersione del fondo marino (8): concezioni che ritroveremo entrambe nell'opera De' crostacei dello studioso di San Vito al Tagliamento.

I. O. Evans, geologo inglese contemporaneo, membro della Royal Geographical Society e apprezzato autore di divulgazione scientifica, così ricapitola lo stato della scienza geologica (ma il nome "geologia" verrà diffuso solo più tardi dal naturalista svizzero Orazio Benedict de Saussure) all'epoca di Moro:

"Nel XVIII secolo diversi naturalisti studiarono sotto differenti punti di vista la struttura delle rocce che affioravano nel loro paese. John Strachey elencò tra il 1719 e il 1725  le rocce dell'Inghilterra sud-occidentale e mise in evidenza il fatto che mentre le rocce contenenti  carbone hanno una maggiore o minore pendenza, quelle ad esse sovrapposte sono disposte con una giacitura  pressoché orizzontale.

Giovani Arduino, nel 1759, usando  i termini istituiti da Anton Lazzaro Moro  ormai generalmente adottati (e che, seppur con un significato più preciso, sono ancor oggi i uso), classificò le rocce dell'Italia settentrionale. Egli distinse rocce primarie, secondarie e terziarie. le prime erano quelle che per il loro contenuto minerario avevano un valore economico; quelle secondarie erano costituite di calcari e marne, contenevano pochi minerali, ma erano ricche di fossili; quelle terziarie erano le montagne e le colline più basse. Oltre a ciò egli parlò di ricce vulcaniche e di rocce formatesi da materiale sciolto e trascinato a valle lungo i pendii montuosi.

"Lo studioso russo-tedesco Johann Gottlob Lehmann arrivò nel 1756 alla conclusione che le catene montuose primordiali , che erano, a suo avviso, le più elevate e quelle le cui radici si estendono più profondamente nel sottosuolo, si erano formate all'epoca della creazione e che si erano rivelate nel momento in cui il mare  era stato separato dalla terra emersa.  Il diluvio universale, le cui cause erano secondo la sua opinione  inesplicabili, aveva poi asportato tutto il terreno che le ricopriva, lasciandole quindi nude e sterili.  Il diluvio stesso aveva poi depositato sedimenti   nelle loro valli o sulle loro pendici. i fossili ivi contenuti erano ciò che rimaneva delle creature  che avevano un tempo popolato le pendici delle montagne antidiluviane. Le montagne e le colline di minori dimensioni dovevano essersi prodotte più recentemente a causa di catastrofi minori, quali piccoli diluvi locali o medeste eruzioni vulcaniche.   possibile, per non dire assai probabile, che Lehamann abbia foirmulato la sua teoria dopo aver letto anche l'opera di Moro, che era stata tradotta a Lipsia nel 1751 e in Francia nel 1752: nota nostra]. Il suo compatriota George Christian Fuchsel  nel 1762 osservò  che determinati strati rocciosi contenevano  fossili che erano caratteristici di quel livello e non si ritrovavano altrove.  Come certe piate fossili sono caratteristiche dei livelli di carbone, così certe conchiglie  marine sono tipiche di una formazione  e le ammoniti di un'altra." (9)

Sul terreno più specifico dello studio e dell'interpretazione dei fossili, dopo gli studi di Leonardo da Vinci (1%2-1519), Gerolamo Fracastoro (1478-1553) e Fabio Colonna (1567-1650), in Italia solo Vallisnieri se ne era occupato in modo abbastanza sistematico; e, pur avanzando la teoria dell'emersione dei fondi marini, aveva espresso gravi riserve circa la possibilità della scienza di giungere mai a chiarire misteri che risalgono così addietro nel tempo, e davanti a ai quali l'essere umano appare così piccolo e limitato. La discussione, però - come abbiamo visto -, era proseguita con toni sempre più esasperati in altri paesi d'Europa, specialmente in Inghilterra e in Francia. Un quadro complessivo della situazione è bene illustrato da Rita Piutti nel suo sintetico ma pregevole studio monografico sul Moro ad uso didattico, di cui riportiamo un brano esemplare per la sua chiarezza.

"la controversia sulla natura e l'origine dei fossili vide impegnati, nel tentativo di dare loro un volto preciso, scienziati di tutti i paesi europei: l'inglese Robert Hooke (1635-1703), non solo affermava l'origine organica dei fossili, ma anche riteneva che una grande responsabilità nella presenza di certi tipi di resti, quelli di origine marina, in luoghi a loro tanto estranei, l'avessero i cambiamenti anche violenti che aveva subito la nostra Terra attraverso fatti traumatici e sconvolgenti, come, ad esempio, i terremoti. Si poteva, secondo Hooke, supporre che fossero cambiati i rapporti tra mare e terra, che in certi luoghi, con il tempo, potesse essersi creato un paesaggio molto diverso da quello che si sarebbe potuto osservare in precedenza. Coloro che nel 1668 ascoltarono alcune relazioni di Robert Hooke alla Royal Society, furono molto poco propensi ad accettare l'ipotesi che egli proponeva, a credere a una trasformazione della crosta terrestre i terremoti e le altre cause che egli indicava, e furono piuttosto inclini a reputare ancora i fossili scherzi della natura. Hooke, poi, affermava che ciò che rimane incapsulato nelle rocce, nei terreni, a vari livelli di profondità, è, per lo scienziato, un documento di importanza pari a quella che possono avere i reperti per l'archeologo, poiché essi permettono di inquadrare tutta una serie di fenomeni avvenuti nelle epoche lontane. Hooke era convinto che si potesse anche capire l'età di certe rocce in base ai resti che contenevano.

"Un altro sostenitore dell'origine organica dei fossili era Niels Steensen (1638-1687), il cui nome fu latinizzato in Stenone. Era un medico danese che visse per lungo tempo presso i granduchi di Toscana, e fu proprio in questa terra che egli iniziò i suoi studi geologici, che dovevano condurlo a compiere ottime osservazioni stratigrafiche esaminando i monti toscani. Stenone non solo affermò che furono veri e propri animali quelli di cui oggi possediamo le sagome perfettamente custodite dalle pietre in cui sono incorporati, ma anche che la Terra si è molto trasformata nel corso dei secoli, e che ciò è avvenuto probabilmente a causa di terremoti, di eruzioni vulcaniche e di altri fenomeni che hanno anche cambiato certe disposizioni degli strati terrestri, che spesso non hanno un'andatura orizzontale, ma sono discontinui e spezzati. «… sia Hooke che Stenone intravidero la possibilità di decifrare la storia della Terra dai docomenti inclusi nella sua crosta», afferma Green. (10). Steensen si occuò a lungo di questi problemi, e condensò le sue osservazioni nell'importantissima sua opera De solido intra solidum naturaliter contento, la quale «segna la nascita della stratigrafia: per la prima volta un naturalista spiega la formazione degli strati sedimentari e dà un'interpretazione razionale dell'evoluzione degli strati. […] Nonostante l'originalità delle loro osservazioni e il successo delle loro pubblicazioni, Hooke e Steensen non hanno avuto discepoli. La maggior parte dei naturalisti che si interessano di fossili continuano, come i loro predecessori del secolo precedente, a redigere cataloghi puramente descrittivi, che trovano molti lettori grazie alla diffusione dei gabinetti di storia naturale». (11)

 

Questo, dunque, lo stato dell'arte quando Moro, al principio del Settecento, si appassiona al problema dei fossili, che ha occasione di vedere nel corso di alcune escursioni alpine, e alla lettura della bibliografia scientifica sull'argomento, compresi Burnet e Woodward che, per quanto in disaccordo tra loro, incontrano entrambi la sua disapprovazione. Nasce così l'idea, in questo studioso isolato e solitario che non aveva alle sue spalle, in effetti, una approfondita formazione di tipo prettamente scientifico (ma non l'aveva neanche Burnet , né l'avevano o l'avrebbero avuta altri insigni scienziati, su su fino a Darwin e perfino al giovane Einstein).ma chi è, dunque, questo strano personaggio che, sullo sfondo di un Friuli rurale e sostanzialmente arretrato, lontano culturalmente, se non fisicamente, dai grandi centri della cultura più aggiornata, a cominciare da Venezia, Padova, Bologna e Milano, elabora in solitudine una audace teoria geologica complessiva, la cui intuizione fondamentale ha resistito alla prova del tempo assai più di quelle di studiosi come Burnet e Woodward? Per rispondere a questa domanda, ci rivolgiamo al breve profilo biografico che di lui, come di tanti altri suoi conterranei, ha scritto un illustre studioso di cose friulane, don Giuseppe Marchetti, in un'opera giustamente assai conosciuta: Il Friuli, uomini e tempi.

"In altri tempi, non ancora molto lontani, la figura di Anton Lazzaro Moro avrebbe potuto presentarsi come quella di un mezzo-martire di un quasi-libero pensiero. La sua vita, piuttosto agitata e travagliata, fu tale anche, e forse soprattutto, perché nel suo ambiente certi suoi atteggiamenti parvero troppo audaci contro una tradizione paesana di sorda e malevola ortodossia: episodio, questo, piuttosto singolare in una regione come il Friuli, che veramente non annovera, tra i suoi pregi o i suoi difetti, l'audacia. Alla pericolosa e discutibile aureola di vittima dell'intolleranza misoneistica lo sottrassero, da una parte, il circospetto linguaggio dei suoi primi biografiche sorvolano, per ovvie ragioni - ed a costo anche di parecchie oscurità - su molte vicende ormai difficili a ricostruirsi; dall'altra, la solita assenza del Friuli e dei Friulani dalla cultura volgata d'Italia.

"Anton Lazzaro Moro nacque in San Vito al Tagliamento il 16 di marzo del 1687, da Bernardino e da Felicita Mauro, persone di modesta condizione. Studiò nel seminario vescovile di Portogruaro, dove a quindici anni vestì l'abito clericale. Un suo biografo - T. A. Catullo - accenna a molte  interruzioni dei suoi studi ed a vari maestri, ch'egli ebbe, «ingombri di false dottrine s^nel gusto che nella filosofia»: e non si capisce abbastanza se questa sia una velata acusa all'insegnamento che s'impartiva in quel seminario o se la squalifica riguardi piuttosto altre scuole primarie del paese. Che la cultura specifica del Moro nelle scienze naturali sia stata da lui acquisita al di fuori della scuola, da autodidatta, è in ogni modo credibile, se si tiene presente l'ordinamento degli studi secondari d'ogni tipo in quel tempo.

"Ordinato sacerdote intorno al 1710, restò per qualche tempo nel paese natio, attendendo a compiere la sua istruzione ed, in qualche misura, al ministero. Grazie alla buona conoscenza che aveva della lingua francese, gli fu presto affidata la direzione spirituale di una casa delle religiose di S. Francesco di Sales che vennero allora dalla Francia  a stabilirsi in San Vito. Ma dopo qualche anno mons. Antonio dei conti di Polcenigo, vescovo di Feltre, lo chiamò ad insegnare lettere e poi filosofia nel suo seminario ed infine gli affidò la direzione dell'istituto stesso. Pare che, in tale qualità, l'abate moro abbia introdotto parecchie riforme nell'ordine e nel metodo degli studi, sostenuto in ciò pienamente dal suo vescovo, ma forse non approvato dal clero locale. Infatti alla morte del Polcenigo, avvenuta nel 1724, il Moro dovette ritornare a San Vito e manifestò il proposito di dedicarsi alla predicazione. Le insistenze del vescovo di Concordia, nella cui giurisdizione egli era rientrato, per fargli accettare la direzione della cappella musicale nella cattedrale di Portogruaro, poterono nascere, oltreché dalla conoscenza e dalla passione del Moro per la musica, anche dal desiderio del vescovo stesso di legarlo ad un compito, dove avesse minore campo di suscitare scalpore o discussioni. Il Moro accettò, ma forse non capì o non si adattò: essendosi ormai appassionato all'educazione dei giovani, aprì una specie di scuola primaria nel palazzo ora scomparso degli Sbroiavacca, dedicando all'insegnamento il non poco tempo che il suo ufficio gli lasciava libero. I biografi dicono ch'egli lasciò nell'archivio musicale della concattedrale qualche aggio di sue composizioni sacre, ma non precisano per quale ragione, dopo qualche anno, egli abbia chiuso quella scuola e sia ritornato a San Vito. Quivi, a tutte sue spese, inaugurò per i ragazzi più grandicelli una specie di scuola-convitto che, condotta da buoni maestri, per parecchi anni fiorì e fu frequentata con molto profitto educativo e culturali da numerosi giovani di nobili famiglie friulane e forestiere. Ma poi il Moro fu costretto a chiuderla. Ostilità sotterranee, molestie oscure, male arti di avversari, sulle quali si trovano concordi allusioni ma nessuna specificazione nelle notizie della sua vita, lo costrinsero a questo passo, che dovette riuscirgli particolarmente acerbo. Il significativo riserbo da parte dei biografi, che del resto rendono aperta ed ampia testimonianza della competenza, della solerzia e dell'integrità morale del Moro, fa pensare che anche questo episodio sia da ricollegarsi con i precedenti.

"Il Comune di Corbolone, giuspatrono dell'omonima pieve, che però era soggetta alla diocesi di Udine, invitò allora il Moro ad assumere la cura spirituale di quel luogo. Vi durò alcuni anni, adempiendo con zelo i suoi uffici, come risulta anche dai molti scritti di carattere pastorale che lasciò inediti. Ma poi, un po' perla salute ormai cagionevole, un po' per le avversioni che non cessavano dal disturbarlo, vi rinunciò. Il vescovo di Pola, mons. Balbi, gli propose di assumere l'educazione e l'istruzione di tre suoi nipoti; ed egli accolse anche questo invito, mutando così per la quarta volta diocesi di residenza. Ma a Pola resse appena qualche mese, dopodiché, accusando insofferenza per l'aria marina, ritornò a San Vito e trascorse gli ultimi anni nell'abbandono e nell'indigenza. Morì il 15 aprile 1764 di «idropisia secca» (arteriosclerosi?), mentre ancora sognava di poter riaprire il suo convitto.

"La ragione prima della fama che il Moro godette (più fuori d'Italia che in Italia) ed anche delle contrarietà ch'egli dovette subire nella sua vita, va ricercata anzitutto nella posizione ch'egli prese, nel campo della scienza, con il suo trattato in due libri De' Crostacei e degli altri marini corpi che si truovano su' monti, pubblicato in nitida edizione da Stefano Monti a Venezia nel 1740. Il titolo modesto (ed oggi un po' strano) di questo libro non deve trarre in inganno sulla sua portata: si tratta infatti di un largo studio sui fossili in generale e sulla loro formazione, con la presentazione di tesi del tutto nuove circa la genesi delle attuali forme della superficie terrestre. È noto infatti come il problema dei fossili sua stato al centro delle prime ricerche geomorfologiche. L'opinione  comune fino ai tempi del Moro considerava la presenza dei fossili sulle montagne come una prova irrefutabile del Diluvio, benché già Leonardo da Vinci e poi il Fracastoro ed, in tempi più vicini, il Vallisnieri avessero sollevato obiezioni in proposito. Anton Lazzaro Moro, prendendo le mosse  dalla recente comparsa (1706) [in realtà, 1707, come abbiamo già detto: nota nostra] di un isolotto vulcanico ricco di crostacei fossili nell'arcipelago greco, presso Santorini, dalla formazione del vulcano di Montenuovo Pozzuoli, avvenuta nel 1538, e da altri consimili fenomeni verificatisi in tempi storici, propose la tesi che l'emersione d tutte le montagne sia avvenuta sotto la spinta di forze endogene esplicatesi attraverso vulcani. Egli distingueva i sistemi montuosi in 'primari', cioè emersi dalle acque quando queste coprivano ancora tutta la superficie del globo; e 'secondari', cioè formati unicamente di materiale eruttivo. Oltre al torto - perdonabile a quei tempi - di generalizzare eccessivamente  la portata della sua intuizione, Moro ebbe l'altro - allora più grave - di dedicare tutto il primo libro, cioè metà del trattato, alla confutazione delle ipotesi diluviali del Burnet e del Woodward. Con ciò egli, pur non negando il fatto del Diluvio biblico, assumeva un atteggiamento che poté sembrare sospetto, proprio in quel momento in cui Voltaire e gl'illuministi in genere andavano diffondendo il loro scetticismo antibiblico. Non risulta che alcuna autorità ecclesiastica si sia mai pronunciata apertamente contro le idee del Moro: né avrebbe potuto farlo, giacché egli non esprimeva il minimo dubbio o dissenso su questioni di fede e si limitava ad afermare che la spiegazione dei fenomeni naturali va ricercata nelle leggi della Natura. Ma già una sua dissertazione in forma di lettera sull'origine dei crostacei fossili, pubblicata nel 17376, aveva dato luogo ad uno scambio di repliche polemiche tra lui ed il medico Pujati; e la comparsa dell'opera definitiva destò un vespaio di discussioni, che indussero il Moro a difendere la sua tesi con successive insistenze. Con pretesti d'indole prevalentemente religiosa gli si oppose subito un tal avv. Giuseppe Costantini, sia mediante mordaci accenni nelle pettegole e pretensiose Lettere critiche, giocose,  morali, erudite ecc. che andava pubblicando sotto il nome anagrammato di Conte Agostino Santi-Pupieni, sia in un acido e indigesto volume intitolato La verità del Diluvio Universale vindicata dai dubbi e dimostrata nelle sue testimonianze (Venezia, Bassaglia, 1747), la cui prima parte è tutta contro il Vallisnieri e la seconda contro il Moro. E dal lato scientifico pubblicarono critiche, almeno parziali, alle sue idee Baldassare Ehrhard (1745) e poi lo Zollmann.

"Ciò non ostante l'opera del Moro interessava largamente il mondo degli scienziati, specie fuori d'Italia. In Germania fu ben presto pubblicata in elegante veste una versione del libro con il totolo così modificato: Neue Untersuchung der Veränderungen des erdboens nach Anleitungder Spurer von Meerthieren und Meergewachsen die auf Bergen, und in trockener Erde gefunden werden, angestellet von Anton Lazzaro Moro, aus dem Italienischen übersetz (Lipsia, 1751). (12)

"A distanza diventisei anni, l'inglese Edoardo King faceva sua la teoria dei sollevamenti sismo-vulcanici, avvertendo solo alla fine della sua esposizione che quqlche cosa di simile aveva scritto in proposito il Moro, ma protestando di non aver conosciuta l'opera di lui se non dopo aver finito il proprio lavoro. Infine, nel 1795, James Hutton riproponeva il sistema del Moro nella sua famosa Theory of the Earth, con la quale veniva a culminare la lunga polemica fra «plutonisti» e «nettunisti». ( I «nettunisti», capeggiati dal tedesco Abramo Werner, 1750-1817, sostenevano che tutte le rocce sono di origine sedimentaria). Cosicché il Moro può considerarsi il vero iniziatore della tesi plutonista, anche se un qualche barlume informe della sua idea centrale può scoprirsi già nel vallisnieri (cioè che alcuni fossili possano essere stati proiettati sui monti da qualche vulcano in eruzione), il quale l'avrebbe derivata a sua volta da un ignoto francese o, forse, dal tedesco Kessler von Sprengseysen (sec. XVI).

"La critica che, nel secolo scorso, l'inglese Playfair, commentando le teorie dell'Hutton (13), faceva al Moro, cioè di non aver saputo sostenere il suo sistema con prove scientifiche mutuate dalla fisica e dalla chimica, è tanto fondata quanto ingiusta: fondata perché realmente molta parte dell'apparato dimostrativo del Moro non ha vere basi scientifiche; ingiusta perché nel tempo, in cui egli trattò il problema dell'origine dei fossili, le nozioni di chimica e di fisica terrestre non erano tali da poterlo soccorrere nelle sue argomentazioni.  Che la sua teoria sia stata dunque piuttosto una intuizione geniale che una ragionata deduzione, si può anche, in qualche misura, ammettere; pur tuttavia essa devesi considerare come una svolta decisiva nell'evoluzione della scienza geologica.

"Degli altri scritti edito o inediti del Moro non mette conto di discorrere a lungo: oltre alle già citate anticipazioni o polemiche sull'aregomento dei fossili, si tratta di un paio di dissertazioni accademiche: una dedicata a Scipione Maffei, «Sulla caduta dei fulmini» (Venezia, 1750), nella quale sembra precorsa la scoperta di A. Volta, ma il Moro non osa poi sostenere una tesi che gli pare troppo audace; ed una sulla «Salinità delle acque marine». C'è poi un «Dialogo sulla Poesia», alcune compilazioni preparate dal Moro per i suoi scolari («Nuovo saggio di Fisica», inedito; «Elementi di grammatica  latina secondo il nuovo metodo di Portoreale», libretto che forse gli fu cagione di parte delle noie che subì, essendo il collegio di Portoreale notoriamente un centro di Giansenismo) ed alcuni scrittarelli d'argomento religioso o morale: «Dialoghi sul culto dei Santie delle loro immagini»; proposte «Sulla riforma del Breviario Romano», che non piacquero al papa Benedetto XV; una conferenza «Sopra la storia del  patriarca Giuseppe»; discorsi «Sulla passione di Gesù Cristo»; istruzioni parrocchiali, ed un trattatello sull'usura, di cui non gli fu accordata la licenza per la stampa; ecc.

"BIBLIOGRAFIA.

"I dati biografici fondamentali sul Moro derivano da annotazioni inedite del conte Federico d'Altan, suo discepolo, riprodotte dal nipote Antonio D'Altan nelle sue «Memorie storiche di San Vito al Tagliamento». Fra i biografi posteriori, il più diffuso è Pier Viviano Zecchini («Vita di A. L. Moro», edita dalla Srttrenna Friulana per l'anno 1846, e poi rifusa e ristampata per nozze Rota-Zuccari, padova, 1865) e quello che meglio inquadra l'opera del Moro nel suo tempo è T. A. Catullo nelle «Biografie degli Italiani illustri ecc.» pubblicate da Emilio de' Tipaldo a venezia, nel 1834. Il citato Zecchini pubblicò anche un transunto con note critiche del trattato sui «Crostacei» del Moro (Pordenone, gatti, 1869) e la lettera «Sulla salinità dell'acqua marina», Portogruaro, 1865). Altre brevi monografie o profili: Moschini nei «Letterati veneziani», Tomo IV, p. 64; Gamba nella «Galleria dei letterati ed artisti delle provincie veneziane», Venezia, 1824; Dall'Ongaro in «la favilla», Trieste, 1839; Joppi nelle «Notizie dei letterati friulani», ms. nella Biblioteca Civica di Udine», ecc." (14)

 

Questo, per quanto riguarda la biografia del Nostro ed alcune riflessioni di carattere generale che da essa si possono ricavare, non ultima quella relativa allo svantaggio di elaborare una valida teoria scientifica allorché, privi di titoli accademici e per di più confinati in un luogo geografico e in una condizione sociale per certi aspetti limitanti, non si è in grado di diffonderla adeguatamente, finché qualche ambizioso titolato e senza troppi scrupoli se ne impadronisce e la presenta come propria. Ci riferiamo, ovviamente, all'inglese Edward King, membro della solita Royal Society che lesse una comunicazione, nel 1767, presentando come propria la teoria del sollevamento dei fondali marini, e citando solo alla fine e quasi di sfuggita il lavoro solitario e pionieristico del Moro (15)

Ma, per delineare più incisivamente la portata di novità del trattato geologico di Anton Lazzaro Moro (perché di questo, in effetti, si tratta, e non già di una trattazione meramente erudita e di corto respiro), ci sembra giusto riportare le parole illuminanti di Paolo Rossi, uno degli studiosi italiani che più si sono dedicati alla storia delle scienze della Terra agli albori della modernità, fra Sei e Settecento.

"L'abate veneziano Anton Lazzaro Moro, autore di un grande trattato dei crostacei e e degli altri corpi marini che si trovano su' monti(1740, tradotto in tedesco nel 1751), fa aperta professione di newtonianesimo e contrappone le sue teorie sui fossili e sulle vicende della Terra a quelle di Leibniz. Sul terreno delle scelte iniziali è molto vicino alle impostazioni presenti nei testi del suo contemporaneo Antonio Vallisnieri ed è molto lontano da Burnet, da Woodward e da tutti gli altri numerosi 'costruttori di mondi' del secondo Seicento e del primo Settecento.

"Il suo problema è compreso entro limiti, almeno inizialmente, ben definiti, è specifico ed ha carattere tecnico: come si spiegano quelle «produzioni marine», quei «pesci, crostacei e gli altri per lo più impetrati producimenti di mare» che si trovano sui monti? A questa domanda Moro dà due risposte espresse in forma negativa e una terza risposta espressa in forma positiva.

"La prima risposta nega che il ricorso al Diluvio Universale sia in grado di spiegare il fenomeno dei «corpi marino-montani».

"La seconda risposta (che è saldamente connessa alla prima) nega tutte le teorie che affermano che il mare abbia un tempo ricoperto anche le più alte montagne nelle quali sono presenti fossili di origine marina.

"La terza risposta di Moro afferma che «le spoglie o reliquie» degli animali e delle piante marini, che si ritrovano oggi sulla superficie o all'interno dei monti, furono un tempo animali o piante nati, nutriti e cresciuti nelle acque del mare prima che da quelle acque si alzassero. Le attuali montagne. Quegli esseri viventi furono spinti là dove ora si trovano «impietriti», quando quei monti «uscendo dal seno della Terra coperta d'acqua si alzarono a quelle altezze in cui ora si veggono».

"La teoria di Moro rifiuta la spiegazione più diffusa che è anche quella che si presenta come la più ovvia: «è questo pensiero forse il primo che si presenti a chi le cagioni del nostro fenomeno a seriamente pensar si metta». Secondo i sostenitori (sia antichi sia moderni) della tesi che sembra la più 'naturale': «il mare (ha) una volta inondato, dove ora i piani ed i monti di marine quisquilie abbondanti si trovano», ovvero più lapidariamente, «dove ora sono i marini corpi è stato anticamente il mare».  Questa spiegazione, secondo il Moro, è decisamente falsa perché non può dar conto del ritiro della grande quantità di acqua che ricopriva la superficie della Terra sino all'altezza dei monti.

"Non è dunque affatto vero, per Moro, che le acque del Diluvio o le acque del mare abbiano un tempo ricoperto la Terra e le sue montagne. È vero il contrario. Sono le montagne che sono emerse al fondo del mare. Questa teoria di una improvvisa, 'catastrofica' emersione dal mare (in tempi diversi) delle montagne, delle isole, dei continenti, si configura agli occhi di Moro come una vera e propria novità, come una 'scoperta'. Essa è forse «passata per mente» di altri autori, di essa si ebbe forse «qualche barlume», ma quella 'proposizione' non è mai stata «né schiettamente esposta, né chiaramente spiegata, né bastevolmente provata».

"Moro considera del tutto inaccettabile la tesi, presente nella Telluris Theoria Sacra di Thomas Burnet, di una rottura e sconquasso dell'intera crosta terrestre. Il Caos, chiarisce Moro, è il vero e primo fondamento del sistema di Burnet. (15) Da quel caos, ad opera «delle semplici leggi natuali» dell'idrostatica, si sarebbe generato l'ordine del mondo attuale. Gravità e leggerezza sarebbero le cause del passaggio dal caos della massa primigenia a una ordinata stabilità. Il sistema di Burnet «sta in mezzo tra il Caos , che è il suo fondamento, e lo stato presente del mondo moderno.».Il Caos «è uno stato ipotetico e ideale, lo stato presente del mondo è uno stato fisico e reale».

"L'immagine che Moro ha dell'ordine dell'universo si richiama in modo esplicito a Newton e a Vallisnieri. Assumendo entrambi come propri maestri, Moro insiste a lungo sulla uniformità, generalità e costanza delle leggi di natura. «La natura è semplicissima nell'oprar suo e niente opra indarno», non è affatto disposta a «lussureggiare con moltiplicar varie e diverse cagioni per la produzione di molti effetti d'una medesima sorta». Moro si appoggia ai Principia per affermare che deve darsi, per tutti i fossili, un'unica spiegazione.

"L'ordine della natura implica l'assoluta uniformità delle sue leggi. Non è quindi accettabile, per Moro, una delle tesi caratteristiche del catastrofismo e che occupa, in ogni teoria catastrofista, un posto centrale. Secondo tale teoria un confronto fra le condizioni iniziali della Terra e le sue condizioni attuali si configura come illegittimo. Contro queste affermazioni, Moro ribadisce con forza tesi di tipo uniformistico: le stesse leggi naturali valgono per il passato e per l'avvenire; tutti gli effetti simili sono stati  sempre prodotti dalle stesse cause; ciò che vediamo accadere oggi è ciò stesso che avremmo potuto vedere ieri, ove fossimo stati presenti. Dato che l'attuale, presente sistema del mondo non si accorda alla comune idea del Diluvio, «s'infingono de' mondani sistemi antidiluviani affatto diversi dall'attuale disposizione del mondo». Si è così proceduto a «disnaturar l'istessa natura», a costruire sistemi improbabili e inverosimili.

"Solo sulla base delle assunzioni relative all'ordine e alla Uniformità è invece possibile, per Moro, costruire una scienza. La questione dei fossili «è un intrigatissimo Labirinto nel quale chiunque finora entrò non seppe trovar la via d'uscirvi». Ma è di recente uscita dal mare una nuova isola. La Natura, «quale provvida Arianna», ci porge finalmente un filo per «francamente entrare e felicemente uscire» da quel Labirinto. A fondamento ultimo delle tesi di Moro stanno gli antichi racconti dell'improvvisa emersione di molte isole e la recente emersione dal mare (il 23 marzo del 1707) dell'isola di Santorino.

"Moro non teme davvero di far ricorso alle analogie: le piccole isole e i piccoli scogli che sono sorti dal fondo dei mari hanno con le grandi isole della Bretagna, del Borneo, del Madagascar la stessa proporzione che ha una palla da dieci libbre con le mura e i terrapieni di una fortezza. Ma se l'arte umana, che è pallida imitatrice della natura, è in grado di far volare quelle palle dalle bocche dei mortai e di rovesciare e abbattere quelle mura e quelle fortezze, perché non si dovrebbe credere che la Gran Madre Natura non sia in grado di «cacciar dal suo seno le grandi isole e i grandi monti sospingendoli a grande altezza?». E perché non avrebbe potuto far lo stesso con le grandi isole e con i continenti? Asia, Africa, Europa, Americhe altro non sono che grandi isole o penisole.

"Se i monti delle isole sono stati prodotti dalla violenza dei fuochi sotterranei, tutti i monti della terraferma saranno nati a quello stesso modo. Effetti di una stessa specie possono esser stati prodotti solo da cause di una stessa specie. In natura vige infatti il principio di non effettuare mai «per plura, quod fieri poterat per pauciora» e non è quindi concepibile che nell'isola di Cipro sia nato un Olimpo a causa dei fuochi sotterranei e che un altro Olimpo sia nato nella Tessaglia «per via d'altre incognite cagioni». Un solo caso è sufficiente a rendere sostenibile una teoria. L'ordine, la costanza e la semplicità della natura garantiscono la legittimità di questo passaggio: dall'aver visto come nasce un singolo uomo, non si ha ragione di concludere che nascono tutti allo stesso modo? E Newton non ha insegnato che la Natura è «simplex et sibi semper consona»? E non ha scritto nei Principia che se una sola particella indivisa fosse suscettibile di divisione si potrebbe concludere che le parti indivise sono separabili e che possono essere divise all'infinito?

"Influenzato alle tesi presenti nell'Histoire physique de la mer (1724) di Luigi Ferdinando Marsigli, Moro introduce nel suo testo la importante distinzione fra i 'monti primari', composti di grandi massi di pietra e non stratificati, e i 'monti secondari' composti di strati che sono il risultato delle eruzioni dei monti primari." (16)

 

Questo, dunque, è il posto che spetta ad Anton Lazzaro Moro nella nascita della moderna scienza geologica: un posto indubbiamente eminente, anche se non di primissimo piano. Lui stesso, probabilmente, si rendeva conto della difficoltà di costruire una teoria di portata generale, capace di spiegare l'origine di tutti i fossili e la genesi di tute le isole, montagne e continenti, partendo da un solo caso osservato direttamente, tanto è vero che all'evento del 1707 si sforza di aggiungere altri fenomeni analoghi, registrati nel sia pur breve corso della storia umana. In definitiva, bisogna riconoscere che egli non ebbe un vero metodo di lavoro scientifico - non, almeno, nel senso oggi comunemente accettato della parola -, così come non aveva una preparazione scientifica rigorosa. Suo grande merito è l'avere avuto una intuizione geniale, e poi essersi sforzato di dimostrarla ricorrendo a varie osservazioni sperimentali: è, in fondo, lo stesso "procedimento" ha portato Darwin a formulare la teoria dell'evoluzione biologica e Wegener a formulare la teoria della deriva dei continenti. Entrambi questi grandi scienziati ebbero una sorta di folgorazione che li spinse a cercare di accumulare prove a favore di essa; ma né Darwin riuscì a trovare i famosi "anelli mancanti", né Wegener riuscì a fornire una convincente spiegazione elle forze geologiche che avrebbero spinto i continenti alla deriva (né lo poteva: e la sua teoria, profondamente riveduta, è risorta solo parecchi decenni dopo la sua morte, nella nuova veste della tettonica a zolle).Osserva in proposito Rita Piutti:

"Moro credeva di poterci spiegare la formazione dell'aspetto attuale del nostro globo ricorrendo a un unico strumento. Le eruzioni vulcaniche e i sollevamenti; Moro addirittura pensò di poter concludere che tutte le terre, non solo certi monti, nacquero passando attraverso processi di quel tipo. La scienza geologica, una volta aumentate e maturate le sue conoscenze, metteva in luce anche le molte altre vie attraverso cui le rocce, i vari tipi di terreno, si sono formati. Ma di ciò non facciamo un torto a Moro: mancandogli alle spalle  un apparato vasto di nozioni veramente scientifiche che costituissero un serio punto di riferimento per le sue indagini, sia per attingervi, sia per opporvi dei dati, non possiamo non riconoscere che il suo pensiero, per quanto riguarda il suo tentativo di spiegare il mistero di quei corpi marini  che «su' monti si truovano», si spinse veramente molto in alto. L'avere finalmente trovato una teoria soddisfacente e davvero esplicativa del fenomeno che egli si era proposto di investigare, può, è comprensibile, avergli fatto credere di aver trovato una chiave interpretativa valida a tutti i livelli.

"A me piace che ci accomiatiamo da lui così, lasciandoci un poco stupire e realmente commuovere pensando che  Anton Lazzaro Moro pervenne alle sue conclusioni con un autentico e solitario volo di genio della sua mente.  Lo sforzo che egli compì fu veramente enorme, egli spinse davvero molto avanti la sua immaginazione, lui che viveva solo, in paesi in cui poteva dialogare  solo con se stesso, e fare continuamente  i conti con il suo desiderio di sapere  e di comunicare ciò che sapeva." (17)

 

Alcune ultime osservazioni.

Moro, giustamente, viene ricordato come un precursore della moderna scienza geologica, e il suo merito di studioso è tanto maggiore, quanto più egli si trovò ad operare in un ambiente che, per più d'una ragione, non era molto favorevole alle sue ricerche e alla sua audacia speculativa. Tuttavia, vi sono almeno altri due aspetti della sua personalità che attendono ancora di essere esplorati e messi adeguatamente in luce: l'interesse per la musica e quello per la pedagogia. Sappiamo che la sua cultura musicale era tale da abilitarlo alla direzione di una cappella vescovile, il che non è poco, se si considera che Moro è stato contemporaneo di Haendel e di Bach. A quell'epoca, il pubblico era molto esigente in fatto di concerti, anche per la musica sacra: era un secolo musicalmente assai raffinato, forse in assoluto quello in cui la cultura musicale e l'amore per tale forma d'arte è stato maggiormente diffuso in ogni ambiente e classe sociale (insieme a quello per il teatro). E la Repubblica di Venezia, nell'epoca di Albinoni e dei fratelli Marcello, non era certo alla retroguardia in tale movimento europeo. Dunque, se Moro fu ritenuto all'altezza di un tale compito, significa che possedeva delle qualità eminenti anche nell'ambito musicale. Occorrerebbe che qualcuno andasse a cercare le sue composizioni e approfondisse questo aspetto, trascuratissimo, per non dire ignorato, dell'attività del Nostro. Solo allora potremmo farci un'idea più chiara della sua ricca personalità intellettuale e spirituale, capace di spaziare con pari sicurezza entro ambiti così diversi della scienza e dell'arte.

Il secondo aspetto praticamente sconosciuto della sua multiforme attività è senza dubbio quello pedagogico. Da quello che sappiamo, gli sforzi maggiori della sua travagliata esistenza si indirizzarono proprio verso l'attività educativa, sia privata (come a Pola) sia, soprattutto e principalmente, pubblica (da Feltre a San Vito al Tagliamento). Le sue idee dovevano essere abbastanza avanzate e, probabilmente, irritanti per gli ambienti conservatori, se è vero che ogni volta i suoi progetti furono stroncati da fattori oggi difficili a ricostruirsi. Quel che è certo è che sia la direzione del seminario di Feltre, sia quella del convitto di San Vito al Tagliamento lo portarono a scontrarsi con forze potenti e decise a impedirne l'ulteriore svolgimento. Può essere che ciò dipendesse dalle sue idee, giudicate troppo spinte e addirittura empie, in fatto di scienza; e, forse, come si è del resto accennato, anche a un certo qual sospetto di simpatie gianseniste, nemmeno troppo nascoste se egli non esitò a citare l'abbazia di Port Royal nel titolo di una sua operetta a carattere didattico. Negli ultimi giorni della sua vita, solo e praticamente dimenticato, poverissimo, Anton Lazzaro Moro continuava a sognare di riaprire il suo convitto per giovani della nobiltà friulana: qual fatto meglio di questo può darci la misura del suo amore per la scuola, per l'istruzione, per la gioventù? Moro e la pratica pedagogica: ecco un campo di ricerche praticamente vergine, che si apre a coloro che abbiano la volontà di esplorarlo.

Ci sarebbe un ultimo aspetto dell'opera di questo poliedrico, imprevedibile personaggio della provincia friulana del primo Settecento, che - a nostro avviso - non è stato adeguatamente messo in rilievo: la dimensione della scrittura. Finora si è sempre pensato a Moro solo ed esclusivamente come uno studioso di scienza, mai come a uno scrittore, eppure basta leggere oche pagine del suo capolavoro, De' crostacei ed altri marini corpi che si truovano su' monti, per rendersi conto che l'abate di san Vito è uno che sa tenere la penna in mano: e anche questo non è poco, in un secolo che era altrettanto esigente in fatto di proprietà ed eleganza stilistica. La sua prosa, pur con gli inevitabili svolazzi che all'epoca erano ritenuti parte indispensabile del bello scrivere - l'anteporre l'aggettivo al nome, per esempio; o il frequente slittamento del verbo reggente al termine della frase, sul mod