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Il Sistema Mc Donald's

di Giancarlo Terzano - 12/12/2005

Fonte: fareverde.it

 

 

 

 

Festeggiare i 15 anni di presenza in Italia o partecipare alla mobilitazione anti-McDonald’s del 16 ottobre? Nelle scorse settimane siamo stati invitati a due opposte iniziative: da un lato, sulle televisioni nazionali, la campagna McDonald’s che ci invitava a festeggiare i 15 anni della sua presenza in Italia recandoci nei suoi locali per gustarne le specialità (come in ogni compleanno, gli invitati portano il regalo, anche se non abbiamo capito cosa offrisse di nuovo il festeggiato!); dall’altro, con minore spazio sui media, l’invito, circolato soprattutto su Internet, a partecipare alla giornata anti-McDonald’s del 16 ottobre (in concomitanza delle celebrazioni FAO sull’alimentazione nel mondo). Per scegliere con cognizione tra i due opposti inviti (ed evitare di finire tra i disprezzati ignavi danteschi, in "quel cattivo coro de li angeli che non furon ribelli né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro"), abbiamo approfondito l’argomento, cercando di ricostruire in cosa consista il modello McDonald’s. Un particolare ringraziamento, tra le fonti, va a Rinaldo Gianola, giornalista di Repubblica, e Mario Resca, presidente di McDonald’s Development Italy, autori dell’illuminante McDonald’s. Una storia italiana (ed. Baldini e Castaldi). E’ seguendo il loro consiglio (il libro è destinato anche a coloro che non vorrebbero mai avvicinarsi ad un McDonald’s) che, tra qualche perla di umorismo involontario, abbiamo avuto la conferma dell’essenza del sistema McDonald’s.

 

 

 

 

 

 

 

IL SISTEMA McDONALD’S

 

 

La storia di McDonald’s è una storia tutta americana, da "sogno americano": origini umili, geniale intuizione, tenacia e duro lavoro, successo e consacrazione mondiale.

 

L’inizio è a Pasadena, in California, dove nel 1937 i fratelli Richard e Maurice McDonald aprono un ristorante drive-in per gli automobilisti di passaggio, che subito riscuote successo, tanto da consentire, nel 1940, l’apertura di un più ampio drive-in a San Bernardino, a 80 km da Los Angeles. La ricetta del successo è semplice: menu ridotto a pochi alimenti (la semplificazione riduceva i tempi di cottura ed evitava di dover ingaggiare cuochi professionisti) e servizio rapido, tipo catena di montaggio. In sostanza erano assicurati i tre principi di base (Velocità, Quantità, Prezzi bassi) su cui ancora oggi l’azienda imposta la sua offerta. La svolta, tuttavia, avviene nel 1954, e segue l’incontro tra i fratelli McDonald e il cinquantenne ex venditore di frullatori Ray Kroc, entusiasta ammiratore del metodo, che aprirà l’anno seguente a Des Plaines, nell’Illinois, il primo ristorante della catena. Nel 1961, superata con successo l’apertura del centesimo fast food, Kroc rileva per 2.700.000 dollari le quote dei fratelli McDonald e diventa l’unico proprietario dell’azienda. Fondamentalmente, Ray Kroc non inventa nulla di nuovo, riprendendo anzi prodotti e tecniche dei due McDonald, rafforzati, però, (ed è questo il suo apporto specifico) dall’esasperazione dei principi di razionalizzazione già applicati dal taylorismo con le catene di montaggio.

 

Max Weber, nei suoi studi sulla razionalità formale e sulla burocrazia, ha individuato nell’efficienza, nella calcolabilità, nella prevedibilità e nel controllo gli elementi della razionalizzazione. Tali elementi sono tutti presenti nel sistema McDonald’s. L’efficienza, innanzitutto, che ha dettato l’estrema semplificazione del processo di produzione: menu limitato a pochi prodotti, ottenuti con pochi ingredienti facili da cucinare (fu scelto, ad esempio, l’hamburger in quanto cucinabile esclusivamente a piastra, a differenza dell’hot dog, che poteva essere cucinato in modi più vari), e ancor più facili da servire e consumare (si mangiano in mano, con rapidità, senza bisogno di posate o stoviglie). La calcolabilità, poi, che concentra l’attenzione sugli aspetti quantitativi (numero, dimensioni, tempo) a scapito di quelli qualitativi. Vecchio tarlo degli americani, che giudicano le cose in base alle dimensioni o al valore monetario, la calcolabilità fa parte del sistema produttivo ed ideologico di McDonald’s, che la porta alle estreme conseguenze, arrivando a dettare, con dettagliate direttive da seguire in tutto il mondo, le misure del medaglione di carne (1,6 once di peso, 3,875 pollici di diametro), del panino (3,5 pollici di diametro) o delle patatine (che devono avere uno spessore di 9/32 di pollice), la quantità di ghiaccio nelle bevande ecc., oppure finendo per vantare il record di Kroc di aver venduto 36 hamburger in 110 secondi. Il sistema McDonald’s presenta, ancora, il carattere della prevedibilità: i prodotti sono sempre gli stessi, nel tempo (a Natale come a Ferragosto) e soprattutto nello spazio (a Roma come a New York come a Tokio); la prevedibilità consente di evitare i rischi dell’irrazionale (che incepperebbero l’efficienza del meccanismo) ed ha un effetto rassicurante nei confronti dei clienti, che non amano rischiare sorprese. McDonald’s ha esteso la prevedibilità non solo al prodotto-cibo ma anche al prodotto-immagine (spesso determinante, più del cibo, nelle scelte dei consumatori), presentandosi così in maniera uniforme (stessi arredamenti, stessa articolazione dei locali, stesse divise dei dipendenti, stesso rituale di approccio ecc.) in tutti i suoi fast food sparsi nei 5 continenti. Infine, il sistema McDonald’s è altamente controllato: dalla predefinizione dei tempi di cottura all’impiego di macchine automatizzate, dalle istruzioni sull’approccio ai clienti da parte di hostess e crew alla scomodità delle sedie che invitano a mangiare subito e ad andare via, tutto è riconducibile ad una catena di montaggio, dove l’elemento umano (fantasia, creatività, istinto, umore ecc.) deve essere ininfluente. Con la particolarità (tutta di McDonald’s) che ingranaggi della catena di montaggio non sono soltanto i dipendenti ma anche i clienti.

 

L’estrema razionalizzazione del sistema McDonald’s costituisce l’essenza del suo successo, ma non manca di comportare quegli aspetti negativi (da Weber definiti) di irrazionalità della razionalità, primo tra tutti la dimensione disumanizzante (ne vedremo gli aspetti) per dipendenti e clienti stessi. Per chiudere il discorso, va ricordato che il processo di razionalizzazione, che è un prodotto di questa modernità, riguarda anche altri aspetti (mondo del lavoro, istruzione, divertimenti, ecc.), costituendo le cd. gabbie d’acciaio della razionalità. In tal senso, prendendo a paradigma della razionalizzazione il sistema McDonald’s, George Ritzer, ha parlato di mcDonaldizzazione del mondo.

 

 

 

 

 

 

 

ALLA CONQUISTA DEL MONDO

 

 

 

Nel 1967, la McDonald’s apre il suo primo fast food all’estero, in Canada. Quattro anni dopo sbarca in Giappone ed in Europa, dove apre locali in Germania e Olanda. Da allora è una continua espansione (il turno dell’Italia arriva nel 1985), fino alla situazione attuale, che vede McDonald’s presente in 115 Paesi dei 5 continenti. Negli ultimi anni si è invertito anche il rapporto tra presenze negli USA e presenze all’estero: degli oltre 25.000 fast food (il numero è approssimativo, anche perché, statistiche alla mano, ogni 5 ore apre un nuovo locale) aperti in tutto il mondo, ormai più della metà è fuori degli Stati Uniti: l’infelice primato di Paese più "invaso" spetta al Giappone, con circa 2.500 ristoranti, seguito da Canada e Australia (più comprensibilmente, visto che si tratta di "nazioni nuove", con tradizioni meno radicate).

 

La conquista del mondo, oltre che una necessità per un’azienda ormai vicina alla saturazione del mercato statunitense (negli USA, ormai metà della popolazione vive a non più di 3 minuti di macchina da un McDonald’s) costituisce il logico sviluppo di un’azienda dai connotati universali, o, per usare un termine più d’attualità, globali. Fedele interprete dell’economicismo liberista, nel mondo McDonald’s non vede popoli e culture diverse, ma un unico grande mercato, da invadere con il proprio prodotto e con la propria filosofia. Perché McDonald’s non esporta hamburger e patatine; esso esporta sé stesso, il suo sistema, la sua mentalità: "McDonald’s è un modo di vivere. Cultura di massa del terzo Millennio", garantisce Resca. E’ per questo che la sua conquista del mondo, l’apertura di locali a Mosca, Pechino, La Mecca, non passa inosservata: non si tratta di ristoranti di cucina tipica americana, come quelli cinesi, o indiani, o di cucina italiana, che proliferano nel mondo ma che si presentano come espressioni tipiche di popoli e culture specifiche; con McDonald’s si afferma il cibo universale, uguale per tutti, proprio del villaggio globale. Spiega Paul Ariés: "McDonald’s non è più americano di quanto non sia cinese o francese; ha infatti assemblato per la prima volta nella storia dell’umanità un prodotto alimentare infraculturale, poiché la cultura è esattamente ciò che differenzia gli uomini e frena quindi l’omogeneizzazione dei mangiatori. In futuro mangeremo tutti la stessa cosa, allo stesso modo, con lo stesso sguardo (…) Questo comunismo alimentare alla Ubu è molto inquietante, perché non si mangia mai impunemente. L’uomo McDonaldizzato, alla fine, dovrà renderne conto sia sul piano fisico che psicologico, economico e sociologico".

 

E’ improprio, quindi, parlare di McDonald’s come di un soggetto americano, espressione dell’"imperialismo yankee". Gli USA c’entrano relativamente, solo in quanto storicamente hanno costituito il terreno privilegiato di concezioni universalistiche e lo strumento politico e militare attraverso cui esse si sono imposte nel mondo. Ma il risultato finale, più che una civiltà americanizzata, sarà la società globale. E non a torto il cosiddetto popolo di Seattle, José Bové e quanti altri, anche negli USA, combattono la globalizzazione, vedono in McDonald’s uno dei simboli del villaggio globale.

 

A chi ancora crede che McDonald’s sia soltanto un menu diverso e non anche una visione ideologica, ricordiamo quanto afferma Resca: "McDonald’s non conosce confini e come una grande potenza opera con una sua politica estera. Nessun paese che abbia un ristorante McDonald’s ha mai dichiarato guerra ad un altro Paese dove sia presente McDonald’s". Verrebbe da ironizzare, pensando alla stupidità di ceceni, serbi, tibetani o kurdi, cui bastava aprire un McDonald’s ed ingozzarsi di hamburger per evitare bombardamenti e genocidi da parte dei loro nemici ormai mcdonaldizzati (i palestinesi, ci informa Resca, ci hanno provato, ma la McDonald’s ha risposto che è ancora troppo presto) ma la realtà è molto più seria, e conferma che con la multinazionale delle patatine avanza un sistema dai risvolti politici e culturali. Quello stesso sistema che, racconta Resca, avrebbe rassicurato i cittadini moscoviti nei tumultuosi giorni del colpo di Stato del 1991, quando era possibile vedere il McDonald’s aperto nonostante i carri armati nelle strade (della serie: accada quel che accada, ma non toccateci gli ambiti simboli del consumismo).

 

Nel suo approccio ai mercati stranieri, soprattutto a quelli europei, dove più forti sono le tradizioni e maggiori le resistenze ad un "americanizzazione" dei gusti, McDonald’s gioca, ambiguamente, la carta "nazionale". La catena, cioè, tende a presentarsi francese in Francia, o italiana in Italia, sottolineando la ricchezza che produce sul posto, l’occupazione che crea (direttamente, tramite i propri dipendenti, nonché indirettamente, tramite l’indotto dei fornitori), il ricorso a fornitori e prodotti locali. Una "nazionalizzazione" ovviamente, solo apparente, che non sposta di una virgola la visione globalista e cosmopolita della multinazionale. Il problema non è, infatti, la cittadinanza dei lavoratori o dei fornitori (è nella logica delle multinazionali, anzi, sfruttare le risorse, umane e materiali, dei luoghi di insediamento, producendo così anche una quota di ricchezza e occupazione), quanto le ricadute globaliste del sistema standardizzato McDonald’s. Vediamole. Sul piano dei prodotti, innanzitutto, la "nazionalizzazione dei fornitori" non implica l’utilizzo dei veri prodotti locali (in Italia, ad esempio, vino, olio, pasta, le mille varietà di formaggi), ma si limita a quei pochi prodotti di base (pane, carne, patate) che costituiscono il menu McDonald’s. Per di più, la maniacale standardizzazione del prodotto (che deve essere, per dimensioni, peso, gusto ecc., uguale dappertutto, a Firenze come a Los Angeles) comporta che McDonald’s chiede ai suoi fornitori locali prodotti in linea con i suoi standard internazionali, cioè prodotti mcdonaldizzati. In sostanza, va bene la patata prodotta in Italia, purché sia del tipo Burbanck, (originario del Nord America). Anche il personale assunto, come meglio vedremo più avanti, è locale, ma deve sottostare a principi organizzativi universali (dal rapporto part-time all’uniforme che indossa) che di fatto escludono qualunque tipicità locale.

 

Più in generale, globale è tutto McDonald’s, dalle materie prime ai processi di produzione, dalla commercializzazione al consumo. Le caratteristiche su cui è strutturato il sistema (efficienza, calcolabilità, prevedibilità, controllo) sono finalizzate ad offrire un prodotto sempre identico a sé stesso, a qualunque latitudine. Stesse materie prime, stessi tempi e tipo di cottura, stessa commercializzazione (confezione, immagine, servizio), che soddisfano, così, la richiesta di prevedibilità da parte dei consumatori. Il successo di McDonald’s è nella familiarità del tutto uguale, nel fatto che già si conosce cosa si troverà, nella mancanza di sorprese, nella soppressione delle differenze. Che la ricchezza del mondo sia nella diversità e nell’imprevedibilità, al consumatore mcdonaldizzato sfugge del tutto. In tal senso, è pienamente condivisibile il giudizio di Ariés, per cui l’hamburger di McDonald’s è più lontano dalla cucina delle nostre nonne di quanto lo sia il serpente cucinato dalla più esotica delle cucine.

 

Quella globale non è la somma di culture diverse, ma è essa stessa una cultura. Per ottenerla, è necessario ridurre ai minimi termini gli elementi che la compongono, in modo da evitare complicazioni. E’ così con la scelta degli ingredienti base (pane, patate e carne, presenti un po’ in tutte le alimentazioni) ed anche con le modalità di consumo (si mangia con le mani, si beve in contenitori di cartone usa e getta). L’estrema semplificazione del mangiare, del resto, non è un problema, in quanto "il successo di McDonald’s – spiega Resca – non è determinato dal Big Mac o dalle patatine, essi ne sono solo una componente. Potrebbe essere qualsiasi altro prodotto, quello che offre McDonald’s è l’esperienza globale", caratterizzata dal fattore QSPV (cioè Qualità, Servizio, Pulizia, Valore) a fronte dei quali l’alimento di per sé perde importanza. Un fattore, quello QSPV, fondato su elementi universalmente apprezzabili, a fronte dei quali non contano le differenze culturali. Vediamoli, questi elementi.

 

Sulla Qualità, intesa come gusto, valore nutritivo e sicurezza dei prodotti, torneremo dopo.

 

Il Servizio va inteso nel duplice aspetto di rapidità e cortesia. Rapidità, innanzitutto: McDonald’s è una catena di fast food (chiamarli ristoranti è già una concessione!), dove efficienza significa ridurre al minimo i tempi di preparazione, del servizio e, naturalmente, della consumazione. Tutto è strutturato per ridurre i tempi: gli alimenti scelti sono di semplice e rapidissima preparazione; i crews ricevono dettagliatissime istruzioni per velocizzare i tempi di preparazione ed evitare tempi morti; pasti completi vengono sintetizzati in un unico prodotto (l’Uovo McMuffin, ad esempio, che sostituisce la colazione); si mangia con le mani, senza piatti e posate, il che velocizza il consumo. Il ritmo è quello di una catena di montaggio, di cui il cliente stesso è ingranaggio. La "fastizzazione" (pessimo neologismo, che indica l’adeguamento del mangiare ai tempi del fast food) è funzionale ad una società tutta improntata sulla velocità, che non può concedersi pause, dove il mangiare diventa l’assolvimento di una mera funzione organica. Si tratta di una concezione in totale antitesi con la nostra cultura, che vede, nei pasti un momento essenzialmente conviviale. Passi per lo spuntino nella pausa da lavoro, ma l’idea, tanto pubblicizzata, di "uscir fuori" con la famiglia o con gli amici, e di scegliere un pranzo da centometrista alla McDonald’s, appare assolutamente repellente. In merito la McDonald’s si difende affermando di non essere solita cronometrare la durata di pasti dei clienti. Sarà anche vero, ma è il sistema scelto che invita a fare in fretta; così come quelle sedie scomode, vincolate a terra ed impossibili da avvicinare ai tavoli, o la mancanza di intimità nel locale, sembrano fatte apposta per ricordarci il nostro dovere di fast-clienti.

 

In merito alla cortesia, la McDonald’s impone ai suoi dipendenti di attenersi nell’approccio ai clienti ad un rigoroso protocollo, fatto di sorrisi, domande rituali, cordialità. Nulla di male, in tutto questo, se non che l’idea di ricevere sorrisi da "fantocci da lavoro" (secondo l’espressione di Baudrillard), obbligati a sorriderci per contratto, ci lascia un po’ freddi. E non vale a farci diventare familiare il fast food d’oltre oceano.

 

McDonald’s assicura anche Pulizia, dei suoi locali e dell’area circostante. Per rassicurarci maggiormente, rende visibile al pubblico le cucine (si vedono, però, solo le teste degli addetti, mentre resta coperta la parte dei banchi, dove ci sono gli ingredienti …). Per evitare il cattivo odore delle bucce, ha anche deciso di utilizzare solo patate congelate.

 

Non poteva mancare, ovviamente, il Valore, inteso come convenienza del prezzo. La razionalizzazione, l’efficienza della catena di montaggio, servono anche a questo: a offrire un prodotto accessibile a tutti. McDonald’s non ha pretese d’élite, anzi, uno dei punti di forza del suo sbarco in Europa doveva proprio essere quello della competitività economica rispetto ai ristoranti (ma in questi, almeno, un cuoco c’è!). Per rendere più evidente la convenienza, McDonald’s ha pensato proprio a tutto: anche alle misure dell’hamburger e del panino, che devono essere, rispettivamente, del diametro di 3,875 e 3,5 pollici, affinché il medaglione sporga, per dare l’impressione dell’abbondanza. Uscendo dal locale, il cliente deve rimanere soddisfatto: avrà mangiato junk food (più o meno cibo spazzatura), ma avrà fatto un affare!

 

 

 

 

 

CIBO SALUTARE?

 

 

 

"Non si va da McDonald’s per godersi un pasto gradevole, ma piuttosto "per fare il pieno". Ci si va quando si ha bisogno di riempirsi lo stomaco con gran quantità di calorie e carboidrati, in grado di farci arrivare sino alla successiva attività razionalmente organizzata". L’affermazione di Ritzer lascia poco spazio al concetto di qualità, su cui invece McDonald’s insiste, presentando i suoi alimenti come sicuri, nutrienti, gustosi. Sul gusto, ovviamente, ci asterremmo dal commentare, consapevoli che anche un hamburger alla piastra possa aver i suoi affezionati. Sul valore nutritivo e sulla sicurezza, invece, qualcosa va detto.

 

Superata la crisi di Atlanta del 1976, quando la voce (risultata poi del tutto falsa) della presenza di vermi negli hamburger aveva fortemente compromesso le vendite dell’azienda, la McDonald’s ha più volte dovuto rispondere alle accuse sui danni alla salute umana derivanti dai suoi prodotti. Nel 1990, ad esempio, una campagna sulla stampa americana mise sotto accusa la multinazionale per l’alto tasso di grassi e colesterolo presenti nei suoi alimenti. Ad una prima, stizzita, reazione ("irresponsabili, fuorvianti, sensazionalismo della peggior specie" fu il commento dell’azienda in merito agli annunci), seguì, indotto probabilmente dal calo delle vendite, un pubblico ripensamento della McDonald’s che nel 1991 annunciò che avrebbe sostituito per la frittura delle patatine lo strutto animale con oli vegetali.

 

Ancora oggi, il valore nutritivo dei suoi alimenti costituisce uno dei punti più criticati. Un classico pasto, composto da un Big Mac, da patatine grandi e da un milk shake aromatizzato, supera le 1000 calorie. La cucina McDonald’s è ricca di grassi, zuccheri, sale, ed è povera di minerali e vitamine: una miscela che lo stesso esperto di oncologia della McDonald’s, Sydney Amott, avrebbe riconosciuto collegata all’insorgenza del cancro. Favorite sono anche le malattie cardiovascolari, il diabete, oltre che l’obesità (che già affligge 1/3 degli statunitensi). Sul punto la difesa della multinazionale lascia a desiderare: da un lato, essa ha introdotto alcuni prodotti meno calorici (considerarli dietetici resta impossibile!), come l’hamburger Deluxe, con 10 grammi di grassi e 310 calorie invece dei 20 grammi di grassi e delle 410 calorie di un Quarter Pounder; dall’altro, la McDonald’s si difende lanciando campagne sulla corretta alimentazione, dove mette in evidenza che una corretta dieta deve essere equilibrata, e combinare i diversi alimenti di cui l’organismo ha bisogno, con la precisazione che l’equilibrio va rispettato non tanto nel singolo pasto, quanto durante l’intera settimana: in sostanza "continuate pure a prendere le nostre bombe caloriche, ma se l’alimentazione non è ben equilibrata, la colpa è vostra!". Ragionamento formalmente condivisibile, ma che solleva più di un dubbio di fronte all’insistenza pubblicitaria con cui McDonald’s si spaccia per locale adatto ai bambini.

 

In tema di sicurezza, ricordiamo la denuncia di Greenpeace, che ha trovato tracce di soia geneticamente modificata della Monsanto nell’alimentazione dei polli della Sun Valley (il massimo produttore inglese) destinati a diventare McNuggest della McDonald’s. La multinazionale, che pure ha dichiarato di non volere utilizzare OGM, si sarebbe giustificata chiarendo che a causa di difficoltà nella separazione della catena di rifornimento dei mangimi non sono state ancora impartite direttive relative agli OGM nei mangimi.

 

 

 

 

 

 

 

McDONALD’S E LAVORO

 

 

 

McDonald’s è un’impresa di stampo tayloristico. Il suo sistema è quello della catena di montaggio: "il dipendente – spiegano Resca e Gianola - viene istruito rigorosamente, sa perfettamente cosa deve fare, il suo lavoro è complementare a quello di tutti gli altri, in un sistema lineare e funzionale che si perpetua da mezzo secolo. L’organizzazione è tutto. Non sono ammessi intoppi, altrimenti il sistema entra in difficoltà". L’ormai collaudata organizzazione sostituisce le competenze e fa sì che quelli McDonald’s siano gli unici ristoranti al mondo senza cuoco: per cuocere gli hamburger basta, infatti, seguire le direttive. McDonald’s non assume, quindi, professionalità: i crews, (= ciurma), primo livello dell’organizzazione aziendale, sono per lo più giovani, o comunque persone cui non è richiesto specifico curriculum. Analogamente per le hostess, cui spetta il compito di accogliere cordialmente i clienti o di prendersi cura dei bambini.

 

Questa scelta di basso profilo consente vari vantaggi. Il primo, ovviamente, è quello che un friggipatate senza esperienza costa enormemente meno di un cuoco specializzato. Inoltre, a differenza del lavoratore specializzato, non sempre rimpiazzabile, il semplice crew può essere sostituito con estrema facilità. Sotto questo aspetto, colpisce l’altissimo tasso di turn-over che si registra presso la ristorazione fast food: negli Stati Uniti, esso è del 300% (in media, un rapporto di lavoro non dura più di 4 mesi) e si stima che 9 milioni di americani abbiano già lavorato per McDonald’s.

 

La facilità con cui si può rimpiazzare il crew funziona anche da deterrente nei confronti di iniziative di sindacalizzazione all’interno dell’azienda, punto dolente dell’immagine della McDonald’s soprattutto in Europa, dove la cultura del mondo del lavoro è diversa da quella americana. La presenza di vertenze sindacali costituirebbe un grave schiaffo al sistema McDonald’s, sia in quanto intoppa la rigorosa efficienza, sia perché colpisce quell’immagine sdolcinata, fatta di sorrisi, allegria e divertimento, che l’azienda cerca di darsi all’esterno. In tal senso, le recentissime contestazioni dei dipendenti dei McDonald’s di Firenze e di Roma, riportano i fast food dall’empireo dell’armonia Disneyland ad una realtà più concreta, fatta di normali contrapposizioni tra datore di lavoro e lavoratori.

 

Del resto, che il lavoro in McDonald’s non sia solo rose e fiori lo dimostra proprio l’elevato turn-over: tra retribuzioni insoddisfacenti, turni massacranti, rigetto della spersonalizzazione richiesta, ci sarà anche qualche motivo che spinge tanta gente ad abbandonare un lavoro che vorrebbero mostrarci così divertente.

 

L’apertura di un nuovo McDonald’s comporta, ovviamente, l’assunzione di nuovo personale. È il motivo per cui, soprattutto nelle aree più depresse, si guarda anche alla multinazionale dell’hamburger per alleviare la disoccupazione. Ma la speranza è solo in parte fondata: innanzitutto perché l’assunzione di crews ed hostess è sempre a tempo parziale; il part-time, che interessa l’80% degli oltre 1.500.000 dipendenti sparsi nel mondo, assicura a McDonald’s flessibilità e la copertura dei lunghi turni di lavoro, ma certo non risolve i problemi di disoccupazione, soprattutto per le persone meno giovani. Inoltre perché, dati alla mano, "McDonald’s – come afferma Ariés - non è creatore ma distruttore di posti di lavoro". I conti sono presto fatti: nella normale ristorazione un cameriere serve da 5 a 10 clienti l’ora, mentre nella ristorazione fast food si arriva ai 7 al minuto, cioè 420 clienti all’ora. Tirando le somme, un cameriere McDonald’s sostituisce 150 camerieri tradizionali (senza contare i cuochi)! Il conteggio di Ariés, per quanto provocatorio (visto che compara servizi molto diversi tra loro) coglie nel segno lasciandoci una certezza: l’estrema razionalizzazione del mondo del lavoro non aumenta l’occupazione, ma la riduce.

 

 

 

 

 

AMBIENTE E McDONALD’S

 

La politica dell’immagine non poteva trascurare la questione ambientale. Ecco, così, la McDonald’s impegnata nel presentarsi come un’azienda ecologica, attenta ai problemi e che promuove nei suoi clienti una coscienza ambientale. Si pubblicizza, così, il ricorso ad imballaggi a impatto ridotto, compreso l’uso prevalente di carta e cartoni riciclati; si assicura sulla raccolta ed il riciclaggio dell’olio di frittura; si richiama la "Carta di Qualità", che prevede un perimetro di pulizia all’infuori del ristorante a cura degli stessi crews. Sul piano della sensibilizzazione, l’azienda sottolinea il processo di educazione al rispetto dell’ambiente nei confronti dei propri clienti, che, abituati a gettare da sé i rifiuti nei contenitori presenti all’interno del ristorante, porterebbero anche all’esterno questa civile abitudine (in termini psicologici verrebbe da dire che il cliente mcDonaldizzato, ingranaggio della spersonalizzante catena di montaggio, assimili l’input e lo faccia proprio, come riflesso condizionato). Né vanno dimenticate le sponsorizzazioni di campagne di educazione ambientale, condotte insieme ad istituzioni nazionali e locali, non ultima quella conclusa con il Comune di Roma per incentivare i trasporti pubblici a Roma, nel cui ambito la McDonald’s si è impegnata a vendere l’hamburger a sole 1000 lire a chi esibisce un biglietto dell’autobus.

 

A parte iniziative come questa conclusa con la Giunta Rutelli (dove è fin troppo trasparente il fine della McDonald’s di avere più clienti, e quindi di incrementare i profitti), la distrazione di utili dell’azienda a favore di campagne ecologiche o il ricorso a processi produttivi con minore impatto ambientale mirano a dare un’immagine della McDonald’s ambientalmente responsabile, e costituiscono indubbiamente una risposta agli attacchi subiti su questo versante.

 

Ma può, nonostante gli sforzi di immagine, la McDonald’s essere considerata ecocompatibile? La risposta è sicuramente no. Innanzitutto, è la logica stessa del sistema McDonald’s ad impedirlo, fondata, oltre che sull’imperativo del profitto (comune a tutte le altre multinazionali), anche su una razionalità strettamente produttivista. La scelta di standardizzare i suoi prodotti, rendendoli uguali per dimensioni, aspetto e gusto ad ogni latitudine ed in ogni stagione, comporta un’inevitabile riduzione delle varietà genetiche locali: grazie alle sue scelte, ad esempio, si è avuta l’estensione, a livello planetario, della Burbanck, una varietà di patate presente, prima, soltanto nel Nord America, oppure della Iceberg Lettuce, una specie d’insalata tipica della California (e, in tale logica di standardizzazione dei prodotti, sicuri aiuti verranno dalle biotecnologie). Ugualmente antiecologico è il ricorso sistematico a prodotti congelati: oltre a determinare elevati consumi di energia, esso determina la necessità di grossi spostamenti di merci dai pochi punti di fabbricazione ai molti fast food sparsi dappertutto (necessità, invece, inesistente se, alla pari dei normali ristoranti, McDonald’s utilizzasse prodotti locali e di stagione).

 

Del tutto antiecologica è, poi, la scelta dell’usa e getta (imballaggi, bicchieri ecc.), diseducativa nei confronti dei clienti e responsabile di grandi sprechi di materie prime nonché della produzione di grandi quantità di rifiuti. A poco serve lo sbandierato ricorso ad alcuni materiali riciclati: esso (anche in virtù delle leggi di alcuni Stati europei, che vietano, ad esempio, di confezionare gli alimenti con carta riciclata) riguarda soltanto alcuni prodotti, mentre, per gli altri, continuano a circolare vaschette in polistirolo ed imballaggi non riciclati. Alto, soprattutto, è il consumo di carta, che va ad aggravare la già pesante situazione dei massicci disboscamenti per la produzione di cellulosa. Va sottolineato, inoltre, come gli interventi pubblicizzati relativi all’utilizzo di materiali riciclabili siano giunti sempre a seguito degli attacchi degli ambientalisti, e soltanto laddove tali attacchi sono stati in grado di colpire l’immagine pulita della McDonald’s. In altri termini, è più che sospetto che un’azienda che fa dell’universalismo e della standardizzazione dei prodotti il proprio tratto distintivo non decida di applicare universalmente, in tutti gli Stati in cui è presente, provvedimenti di riduzione dei rifiuti, e lasci, invece, grosse differenze tra Paesi, anche vicini: si pensi, ad esempio, alle vaschette in polistirolo usate in Italia mentre in Germania si usava il cartoncino (differenza che fu oggetto, tra l’altro, di una specifica iniziativa all’interno della campagna Meno Rifiuti) o all’utilizzo, fin dal 1997, di posate in Mater-Bi in Austria e Svezia, che però non è mai stato esteso ad altri Stati. In realtà, la spiegazione è duplice: oltre alla logica pura del profitto, che impone, salvo costrizioni delle leggi o dei consumatori, l’utilizzo dei materiali più economici (altro che ecologia di facciata!), c’è la specificità della McDonald’s, che riesce a vendere i propri alimenti (la cui qualità è tutt’altro che eccelsa) grazie ad un’operazione di marketing in cui la confezione McDonaldizzata ha un ruolo essenziale e non rinunciabile.

 

Altro pesante impatto ambientale è quello conseguente al massiccio consumo di carne promosso dalla McDonald’s. Per i suoi hamburger, l’azienda richiede annualmente 600.000 tonnellate di carne, cui corrispondono circa 6 milioni di bovini: una quantità enorme, che rende la McDonald’s il più grande distributore di carne bovina al mondo, ma che la rende anche altamente responsabile dei gravi problemi connessi a queste enormi mandrie. E’ una questione di numeri: mentre l’allevamento tradizionale, di vacche da latte o da carne, limitato nel numero e distribuito nel territorio, risultava ben tollerabile dall’ambiente, la crescente domanda di carne ha determinato il passaggio ad una produzione di tipo industriale, con conseguenti gravi disfunzioni. Nelle aree più ricche (Italia compresa) e con minore spazio a disposizione, si è scelta la strada dell’allevamento intensivo da stalla, dove il bestiame viene sottoposto ad un processo di ingrasso accelerato, con menù a base di cereali (quando non di carne, vedi casi di mucca pazza) con un enorme spreco di risorse, visto che per ottenere una caloria di carne diventano necessarie 10 calorie di cereali. Qui, tra l’altro, il letame, prodotto in grandi quantità e concentrato, diventa, da tradizionale ricchezza del terreno, rifiuto inquinante da smaltire. Nel Sud America, invece, l’allevamento è rimasto di tipo tradizionale, attraverso grandi pascoli, per ottenere i quali, tuttavia, si è proceduto a massicce deforestazioni, con le immaginabili conseguenze in tema di cambiamenti climatici e desertificazione. Né vanno dimenticate le conseguenze sull’effetto serra collegate al metano prodotto da milioni di bovini.

 

Non bisogna essere animalisti estremi, infine, per criticare McDonald’s per i milioni di animali uccisi e/o allevati in batteria: comportamenti, certo, non imputabili esclusivamente al colosso americano, ma di cui esso non può non rispondere, visto anche il suo ruolo di leader mondiale del settore e l’incessante promozione pubblicitaria a favore dei consumi di carne.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I BAMBINI

 

"Un ristorante per tutti, soprattutto per le famiglie e i bambini". Il messaggio pubblicitario di McDonald’s punta prioritariamente ai bambini: dal clown Ronald McDonald alle hostess nei ristoranti, dai gadget alle campagne all’interno delle scuole, dalle Case della Fondazione Ronald McDonald alle pubblicità impostate sulla famiglia, forti sono i segnali rivolti ai bambini, che in McDonald’s troverebbero un amico, forse un complice, comunque un mondo costruito per loro. Attenzione, d’altro canto, ricambiata: da un indagine del 1986, il 96% degli scolari USA riconosceva il pagliaccio Ronald McDonald, secondo, in popolarità, soltanto a Babbo Natale.

 

Viene da chiedersi il perché di questa insistenza per i bambini: un fast food, strutturato per consumare velocemente, non è certo un luogo per intrattenersi piacevolmente a livello familiare, né gli alimenti offerti (hamburger pieni di grasso, cibi fritti) costituiscono il menu ideale per i bambini. Perché, allora, questa insistenza per i più piccoli? Le risposte sono molteplici, e convergenti. I bambini, innanzitutto, costituiscono l’anello più debole della catena delle tradizioni culturali e gastronomiche, non sono ancora legati ad abitudini e sono attratti da tutto quello che ha il carattere della novità: sono, in altri termini, tabulae rasae pronte ad essere incise, a differenza degli adulti, per la maggior parte dei quali la dieta McDonald’s costituirebbe uno strappo ad abitudini radicate. Nella loro ingenua curiosità verso il mondo, poi, i bambini vengono attratti da forme, colori, immagini, quantità, a dispetto di quegli aspetti qualitativi (gusto, sicurezza, valore calorico, biologicità dell’alimento) che sono normalmente centrali nelle scelte degli adulti e sui quali McDonald’s non è competitivo. In quest’ottica, la piccola trasgressione (il mangiare con le mani), il gadget offerto, la complicità che si instaura con il clown Ronald McDonald (che scavalca i genitori e si rivolge direttamente ai piccoli, instaurando con loro un rapporto segreto), costituiscono indubbi richiami per i bambini, il cui interesse verso il cibo è invece del tutto secondario. Il messaggio pubblicitario, quindi, punta direttamente ai bambini; saranno questi a trascinare i genitori da McDonald’s, in attesa della fatidica età per uscire da soli. Perché, non lo si dimentichi, i bambini saranno gli adulti di domani: una volta cresciuti a cheeseburger e Chicken McNuggets, avranno con questi prodotti una stretta familiarità ed anche quel pizzico di nostalgia con cui noi ricordiamo la Nutella o il pane con zucchero ed olio della nonna. Un investimento nel presente ma soprattutto per il futuro, insomma, quello della multinazionale, che così si assicura generazioni di docili palati mcdonaldizzati.

 

A sporcare l’immagine buonista del rapporto McDonald’s–bambini, non c’è soltanto l’ipocrisia del messaggio pubblicitario finalizzato al profitto. Come le altre multinazionali (Nike, Adidas, ecc.), anche la McDonald’s, si adegua alla logica della globalizzazione, che impone di sfruttare il lavoro laddove esso costa di meno. In particolare, per la produzione dei giocattoli che offre insieme agli Happy Meals, McDonald’s ricorre a lavoratori cinesi e vietnamiti. Tra questi, come denunciato dal South China Morning Post nello scorso agosto, molti sono ragazzini minori di 14 anni, che, nelle vicinanze di Shenzhen, nella Cina meridionale, vengono sottoposti a turni di 16 ore al giorno con due sole giornate di riposo al mese. Ma purtroppo, per questo, non possiamo dire "Succede solo da McDonald’s".

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per saperne di più:

 

 

 

Mario Resca e Rinaldo Gianola, McDonald’s. Una storia italiana, Milano 1998, Baldini & Castaldi

 

Paul Ariés, I figli di McDonald’s. La glob