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Severino Boezio tra consolazione della filosofia e filosofia della consolazione

di Francesco Lamendola - 17/07/2007

 

Quando scrive il De consolatione philosophiae, Anicio Manlio Torquato Severino Boezio, che assomma nel suo nome le più antiche e prestigiose gentes dell'aristocrazia senatoria, sa bene di avere i giorni contati. È rinchiuso, dall'inizio del 525 (secondo gli studi più recenti; la data tradizionale è invece il 524),  nel carcere di Pavia, sotto la triplice, gravissima accusa di aver intralciato l'opera della giustizia nei confronti del senatore Albino; di aver complottato per il ritorno dell'Italia sotto la sovranità di Costantinopoli; di aver aspirato illegalmente a un'alta carica pubblica, macchiandosi di sacrilegium; poi, perché gli accusatori capeggiati da Cipriano, esponenti del partito filo-goti, non trascurassero nulla per ottenere la sua condanna, alle accuse "politiche" è stata aggiunta anche quella di magia e stregoneria. Boezio è caduto dai vertici del potere alla condizione di detenuto in attesa della sentenza capitale in un tempo rapidissimo. Console sine collega nel 510; consoli i suoi due giovani figli nel 522;  magister officiorum lui stesso nel 522-23 (praticamente capo dell'amministrazione di corte), allo scadere di quest'ultima carica, in agosto, viene accusato e trasferito nel carcere di Pavia. Si appella a Teoderico, in altri tempo suo grande estimatore, anche per la vastissima cultura e il prestigio conseguito con la traduzione di molte opere filosofiche greche, ma è inutile. Il re  delega il giudizio a carico di Boezio al Senato romano, ed esso, intimidito o corrotto dalle male arti di Guadenzio, Basilio e Opilione, sulla base di lettere falsificate pronuncia la sentenza di morte, che viene eseguita, probabilmente, nella primavera del 526.  Scrive l'Anonimo Valesiano: «Gli legarono attorno alla fronte un capestro e glielo strinsero a lungo,  fino a fargli scoppiare gli occhi; poi, dopo averlo torturato,  lo finirono a colpi di bastone». Le sue spoglie verranno traslate nel 725 nella basilica di San Pietro in Cielo d'Oro, per volontà del re longobardo Liutprando, lo stesso che vi farà inumare anche le spoglie di S. Agostino.

Durante la prigionia, che forse, almeno all'inizio, ha carattere più simile a degli arresti domiciliari, vista la possibilità di consultare libri necessari al suo ultimo lavoro, Boezio scrive - o dà la versione definitiva - dell'opera che lo avrebbe reso famoso per tutto il Medioevo, più di tutte le traduzioni da Platone e Aristotele, i trattati teologici, gli studi scientifici (tra i quali la costruzione dei primi orologi ad acqua) e la stessa carriera politica, svolta all'insegna di un progetto di pacificazione, se non proprio di integrazione, fra l'elemento latino e quello gotico: il De consolatione philosophiae. Dante Alighieri gli assegnerà un posto eminente fra gli spiriti beati del Paradiso (X,  121-129) e, in genere, la cultura italiana ha visto in lui la vittima più illustre di una generosa utopia, quella di una attiva e proficua collaborazione tra la forza militare dei Goti e la grande tradizione giuridica dei Romani (accanto alla stessa regina Amalasunta, figlia di Teoderico, che verrà strangolata nel 525 per motivi sostanzialmente analoghi). La tradizione cattolica ne ha fatto un santo, mentre ha pronunciato una vera e propria damnatio memoriae di Teoderico, che puyre aveva governato con saggezza e moderazione per quasi tutta la durata del suo regno; ma, come scrive perfino Ferdinand Gregorovius, uno storico tedesco non certo immune dallo spirito nazionalistico, «una vittima come Boezio costituisce un accusatore troppo importante perché una fosca luce non ricada su colui che ne volle o ne permise l'esecuzione»; Giosué Carducci, in una famosa poesia, immagina il castigo divino che si abbatte sul re barbaro sotto forma di un pauroso cavallo nero che trascina il suo cavaliere dritto nella bocca del vulcano Stromboli. La verità è che la congiuntura politica internazionale, dopo l'elezione di papa Giovanni I, era difficilissima per il fragile equilibrio creato da Teoderico e dai suoi ministri e consiglieri latini: il nuovo pontefice apparteneva alla fazione filo-imperiale del Senato, e Giustino, l'imperatore d'Oriente, non aspettava che l'occasione per rompere i rapporti con la corte ostrogota, ariana e, in un certo senso, usurpatrice delle prerogative imperiali sull'Italia. Forse, un lungo periodo di pace e tranquillità all'esterno avrebbe consentito alla politica conciliante di uomini come Simmaco, Boezio e Cassiodoro di dare i suoi frutti; forse, se gli Ostrogoti - poco numerosi e perciò tanto più sospettosi di ogni cosa che potesse apparire come una minaccia verso di loro - avessero avuto il tempo per assorbire adeguatamente l'influsso culturale romane (cosa per cui esistevano le premesse, mentre non vi sarebbero state per gli oltre due secoli del dominio longobardo), le cose avrebbero potuto andare diversamente. Tuttavia la storia, è una verità banale ma talvolta trascurata, non si può fare con i se; la stessa aristocrazia senatoria, attaccata ai suoi anacronistici privilegi, non credette fino in fondo alla politica di conciliazione con i Goti e diede esca, in qualche misura, ai sospetti della corte gotica, contribuendo all'acuirsi della tensione che sarebbe sfociata nel processo e nella condanna a morte di Boezio, del suocero di lui Simmaco (ne aveva spostata la figlia Rusticiana), di quel senatore Albino che, accusato per primo di aver spedito lettere alla corte di Costantinopoli per incoraggiare un ritorno dei Bizantini in Italia, aveva dato il via al meccanismo che avrebbe travolto il filosofo, poiché quest'ultimo ne aveva preso audacemente le difese affermando che «se Albino è colpevole di aver desiderato la restaurazione dell'Impero Romano, allora tutto il Senato condivide con lui la medesima colpa; ma se è innocente, tutto il Senato lo è altrettanto». Parole coraggiose, certo, ma politicamente e - diremmo - psicologicamente imprudenti: infatti il Senato, spaventato, si era tirato indietro, lasciandolo solo davanti agli accusatori di Albino, che avevano esteso a lui la stessa accusa di alto tradimento. Boezio aveva sopravvalutato il coraggio dei suoi colleghi e, come un eroe virgiliano spintosi troppo avanti incontro al pericolo, era caduto vittima della propria intrepidezza.

La cosa più curiosa è che la tradizione cattolica non ha mai puntato sulla produzione teologica el Nostro, che pure è ampia e interessante, per trasfigurarne la figura in quella di un santo e di un martire della fede cattolica, di fronte alla violenza persecutoria dei Goti ariani. Né il De Trinitate, né l'Utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur, né il Quomodo substantiae in eo quod sint, bonae sint, né, infine, il De fide catholica gli hanno dato la fama, né sono mai usciti da una ristretta cerchia di lettori specialisti. Quasi tutta la celebrità del suo nome è racchiusa in quel trattato composto in una cella del carcere di Pavia, in attesa della morte: trattato in cui, invero stranamente, Boezio non dice una parola della propria fede cristiana, anzi non nomina mai la religione cristiana: circostanza che ha fatto sorgere dubbi e perplessità nei critici moderno, fino al punto che alcuni ne hanno messo in dubbio l'appartenenza al cristianesimo. Un Boezio pagano, allora, ultimo esponente della gloriosa tradizione pagana e neoplatonica, scambiato per una serie di circostanze fortuite in un campione e in un martire della religione di Cristo? Placatasi gradualmente la polemica, e riconosciuta ormai generalmente la paternità boeziana di tutti gli scritti teologici sopra ricordati, oggi sono ben pochi coloro che negano o che seriamente revocano in forse la sua fede cristiana; quanto al fatto dell'assenza di argomentazioni propriamente cristiane e, comunque, religiose, nella Consolatio, la spiegazione migliore è che in questo estremo atto di omaggio alla filosofia classica Boezio, "l'ultimo dei Romani", ha voluto celebrare la forza della ragione e del pensiero quale suprema via di giustificazione di fronte alla morte. E questo ha fatto non perché gli argomenti religiosi gli sarebbero apparsi meno validi o meno efficaci, ma per mostrare che si può pervenire alla redenzione della vita umana  davanti all'arbitrio dell'ingiustizia e della violenza anche solo con la forza lucida e pacata del ragionamento, senza che ciò escluda affatto - costituendone, semmai, la premessa e la base - l'esistenza di un altro ordine di cose e di un altro piano di realtà, ossia la fede, capace di dare all'uomo il conforto più grande e la speranza più viva nei confronti del destino ultimo dell'anima.

A questo proposito, ci sembra quanto mai opportuno riportare un passo della illustre medievalista Christine Mohrmann, grande studiosa di Boezio e di S. Agostino, tratto dall'edizione della Consolatio da lei curata (Milano,Rizzoli, 1976, 1981, ecc., traduzione di Ovidio Dallera),.

 

"Rimane da provare quale sia stata la ragione per cui Boezio ha volutamente escluso da quest'opera, che sembra concepita come suo testamento spirituale, tutti gli elementi cristiani.  Può darsi che questa formula 'testamento spirituale' non sia esatta e che si debba piuttosto parlare di un testamento filosofico. Comunque mi pare impossibile dare alla questione  suddetta una risposta sicura e definitiva. Chi saprebbe ricostruire i motivi più intimi che hanno guidato gli atti  di un uomo messo di fronte alla morte? Si rimarrà dunque nel campo delle ipotesi.

"Questo mi pare evidente: Boezio era in primo luogo filosofo, per vocazione e per predilezione. Se si esaminano le sue opere, frutto di una vita breve, si può concludere che l'esistenza di quest'uomo è stata piena - nonostante i suoi incarichi politici e amministrativi - di ciò che si era proposto come impegno e ideale: rendere accessibile ai suoi compatrioti, in latino ,l'eredità dei grandi filosofi greci, e in primo luogo di Platone e di Aristotele. Trovandosi in prigione, accusato di 'crimini' considerati gravi, Boezio si rese conto senza dubbio che non gli sarebbe stato più possibile tradurre in atto il suo progetto ardito e immenso. Nello stesso tempo egli si domandò certamente quale fosse il valore di questa filosofia, alla quale aveva votato la sua vita. Nulla impedisce di supporre  che nella malattia di Boezio si nasconda un fatto autobiografico: una specie di depressione che lo porta a dubitare di ciò che ha riempito  la sua vita di filosofo. Sforzandosi di mostrare nella Consolatio quale sia il vero valore della filosofia nella vita umana, anche nelle situazioni più tragiche; volendo, nello stesso tempo,  dare una compiuta sintesi di ciò che non poteva analizzare ed esporre nei particolari, Boezio considera suo dovere giustificarsi di fronte a se stesso e nello stesso tempo pagare il debito che credeva di avere nei confronti dei suoi contemporanei e particolarmente dei suoi lettori.

"Se si considera così la Consolatio nel quadro della vita di questo filosofo assetato di saggezza umana, si comprende che egli ha voluto - ha dovuto - distinguere tra ragione umana e dottrina della fede. Con un eroismo tragico ha difeso, di fronte alla morte, i valori ai quali aveva votato la sua vita."

 

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Dal punto di vista strutturale, il De consolatione philosphiae è ripartito in cinque libri, misti di prosa e versi, sul modello letterario di Menippo e di Varrone. La Filosofia stessa, sotto le vesti allegoriche di una nobile donna, si presenta al prigioniero e gli offre la consolazione, dimostrandogli che le avversità della fortuna non possono distruggere la vera felicità dell'uomo, la quale risiede in un bene che niente e nessuno potrebbero strappargli: la certezza che il mondo è governato da una provvidenza universale - tema tipicamente neoplatonico, oltre che tipicamente cristiano - la quale, peraltro, non annienta né sminuisce la libera facoltà dell'essere umano di scegliere il bene oppure il male.

Osserva giustamente il latinista Italo Mariotti (Storia e testi della letteratura latina, vol. 5, L'età cristiana, Bologna, Zanichelli ed.,1976, p. 248), che

 

"Tecnicamente il titolo di Consolatio è improprio: a differenza di quanto avviene nelle consolationes classiche (si ricordino quelle di Seneca) qui l'autore non consola una seconda persona di qualche sciagura ad essa capitata, bensì si rivolge a se medesimo, mediante la rappresentazione allegorica della Philosophia)."

 

 

LIBRO PRIMO

 

Una breve introduzione in versi descrive l'angoscia di chi,  avanti negli anni e provato dalle avversità, inutilmente desidera la morte liberatrice, ed è amareggiato dal ricordo straziante delle passate fortune, tante volte lodate e ammirate dagli amici. In realtà, Boezio non può certo definirsi stesso un vecchio: essendo nato attorno al 480, nel 525 deve avere circa quarantacinque anni; la sua è, dunque, una senilità psicologica (un po' come nell'omonimo romanzo sveviano), dovuta alla prostrazione per il rapidissimo e traumatico mutamento di fortuna, e forse deliberatamente accentuata a scopo letterario.

Ed ecco, nel silenzio (forse notturno) - incomincia la parte in prosa del libro - all'Autore compare una donna di aspetto nobile e venerando, venuta per consolarlo nella presente afflizione.

 

"Mentre io nel silenzio andavo rimuginando tra me e me queste riflessioni, e annotavo, scrivendo, il mio lacrimevole lamento, mi sembrò che sopra il mio capo fosse apparsa una donna di aspetto venerando ,dagli occhi sfolgoranti e penetranti oltre la comune capacità degli uomini. Il suo colorito era vivo e integro il suo vigore, benché ella fosse tanto carica d'anni da non potersi credere in alcun modo appartenente al tempo nostro.  La sua statura era di ambigua valutazione. Ora infatti si manteneva nei limiti della normale statura degli uomini, ora invece sembrava toccare il cielo con la sommità del capo. E quando levava la testa, penetrava nel cielo stesso, rendendo vano lo sguardo di chi tentava di seguirla con gli occhi. Le sue vesti erano intessute con fine sensi artistico, di fili sottilissimi d'una materia incorruttibile: come venni poi a sapere dalle sue parole, le aveva confezionate lei stessa con le sue mani; la loro bellezza ,come accade per le pitture offuscate dal tempo, era velata da quella indefinibile patina che  è propria delle cose antiche  e trascurate. Nel lembo inferiore del vestito si poteva leggere, ricamata una П greca, in quello superiore ,invece, una Θ e tra le due lettere apparivano disegnati in figura di scala alcuni  gradini per mezzo dei quali era possibile risalire dalla lettera  inferiore a quella superiore. La stessa vste appariva tuttavia lacerata da mani violente, che ne avevano portato via quanti brandelli avevano potuto. La donna reggeva nella mano destra dei libri, nella sinistra uno scettro."

 

È appena il caso di notare che la Π è la lettera iniziale della parola Πραζις, indicante l'attività pratica del pensiero, mentre la lettera Θ è l'iniziale di Θεώρησις, che designa l'attività teoretica o speculativa; che i gradini che vanno dalla prima alla seconda simboleggiano la giusta direzione del percorso filosofico, dal sapere pratico a quello teoretico; e che la veste fatta a brandelli sta a indicare le differenti scuole filosofiche le quali si sono appropriate, distorcendola, di una parte dell'unica verità - la philosophia perennis -, ciascuna portandosene via un frammento che ha scambiato per il sapere nella sua interezza originaria.

Quando la Filosofia scorge il cerchio delle Muse attorno all'Autore, le scaccia brutalmente chiamandole "sgualdrinelle" (meretriculae) e Sirene tentatrici, accusandole di alimentare le sofferenze di lui con le loro ingannevoli blandizie e il loro canto ammaliante, ma sottilmente rovinoso. Esse abbandonano la casa in silenzio, rosse in viso per la vergogna, e la Filosofia si accosto all'infermo e gli si rivolge con tono di commossa partecipazione. Segue una seconda poesia nella quale ella lamenta che un uomo di tale valore, uno scienziato, un sapiente, giaccia ora prostrato dalla sofferenza in un simile stato di inerzia.

 

"Costui, solito un tempo a percorrere, libero,

le eteree vie del cielo aperto,

poteva fissare lo splendore del roseo sole

e osservare l'astro della gelida luna,

e ogni stella che piegandosi su orbite diverse

 traccia incerti ritorni,

egli, vincitore ,la fissava nei suoi calcoli.(…)

or egli giace, svuotato di luce interiore

e con le spalle gravate di pesanti catene,

mentre, tenendo chino per il peso il volto,

deve, ahimé, fissare la stolida terra."

 

 

Dopo aver sciolto questo lamento, la Filosofia (con un discorso in prosa) sgrida severamente Boezio per il suo lasciarsi andare, con una energica fierezza di cui, crediamo, si sarà ricordato Dante nell'episodio del suo incontro con Beatrice nel Paradiso Terrestre. La vergogna o lo stupore sono la causa del turbamento così palese di lui, davanti ai suoi rimproveri?, chiede la Filosofia. Poi gli asciuga gli occhi bagnati di lacrime, e riprende a parlare (in versi). Il giorno vittorioso, coi raggi di Febo, ritorna dopo la lunga e buia notte: così risorge sempre la speranza nel cuore degli uomini. Quindi (in prosa) ella gli svela la sua identità; al che egli le chiede come mai sia discesa dalle sue celesti dimore per soccorrere un mistero mortale. Ma lei risponde che non poteva certo abbandonare un suo discepolo; e gli spiega come Stoici, Epicurei e molti altri si siano affannati per strapparle ciascuno un brandello della sua veste, riducendolo in quello stato compassionevole. Quindi gli ricorda le sofferenze e, talvolta, la morte che tanti suoi seguaci hanno affrontato per amor suo: Anassagora, Socrate, Zenone, Seneca e molti altri. Né Boezio deve adesso meravigliarsi del destino che l'ha colpito, poiché gli uomini sono sballottati nel mare della vita in balìa delle tempeste, se essi hanno per scopo della loro vita quello di dispiacere ai perversi. Ma il vero filosofo non dovrebbe mai lasciarsi abbattere dai colpi della sorte e dalle mali arti dei perversi; indi scioglie il canto in una nuova poesia.

 

"Chiunque sereno per una vita ben regolata

schiaccia sotto i piedi il fato superbo

e guardando in faccia la buona e la mala sorte

sa mantenere impassibile il volto,

costui non smuoveranno né la rabbia del mare minaccioso,

che fino al fondo agita l'onda sconvolta,

né l'instabile Vesuvio allor che dai crateri squarciati

sprigiona lingue di fuoco misto a fumo,

né il guizzo dell'ardente folgore

usa a colpire le alte torri.

Perché tanto timoroso rispetto provano i misteri

Verso i feroci tiranni che a vuoto infuriano?

Non attenderti nulla, non temer nulla:

così disarmerai la loro furia impotente.

Chiunque invece trepidante teme o brama,

poiché non ha sicura padronanza di sé,

è lui stesso che getta lo scudo e, cedendo terreno,

annoda le catene da cui sarà trascinato."

 

Si noti il piacere con cui Boezio descrive i fenomeni della natura, un piacere - di direbbe - quasi lucreziano -, benché antilucreziana sia tutta l'impostazione della Consolatio; e che gli deriva dalla sua stessa formazione e dagli studi intensamente condotti nel campo della filosofia naturale (noi diremmo: le scienze naturali), tanto che una parte della critica tende ad attribuirgli anche la paternità del perduto trattato De insitutione astronomica. Per il resto, la morale del saggio qui bandita sembra essere essenzialmente di matrice stoica; non traspare per nulla, ad ogni modo, un atteggiamento di tipo propriamente cristiano, basato sulla coscienza della colpa, sulla necessità della Redenzione divina, sul fidente abbandono a Dio che legge nei cuori e ricompensa (o castiga) secondo i meriti che spesso gli uomini non sono in gradi di vedere e giudicare.

Adesso la Filosofia invita Boezio a sfogarsi con lei delle sue pene:«Se ti aspetti l'aiuto del medico, occorre che tu metta a nudo la tua ferita». Egli allora le riepiloga le fasi salienti del procedimento istruito a suo carico, evidenziandone tutte le gravi irregolarità giuridiche che lo hanno caratterizzato sin dall'inizio. Senza entrare nel merito delle accuse specifiche rivoltegli, Boezio genericamente afferma di essersi attirato forti inimicizie per aver seguito la  massima platonica (cfr. Repubblica, V,18) di perseguire la felicità degli Stati facendo in modo che a governarli siano i filosofi o che, almeno, i governanti si dedichino alla filosofia.

 

"Io, dunque ,attenendomi a questo autorevole insegnamento, mi sforzai di introdurre nella pratica della pubblica amministrazione ciò che avevo appreso nei miei studi solitari. Tu e quel Dio che ti ha infuso nelle menti dei sapienti siete consapevoli che nient'altro mi ha indotto ad assumere cariche di governo se non il pubblico interesse di tutti i buoni. Da qui i gravi e irriducibili contrasti con i malvagi, da qui - cosa che comporta la libertà di coscienza - il mio costante disprezzo per l'ostilità dei potenti, quando era in gioco la difesa del diritto."

 

Dopo aver ricordato alcuni dei casi giudiziari che lo videro opporsi, novello Cicerone contro Verre, alla prepotenza dei nobili goti, Boezio giunge fino a rievocare l'accusa di Cipriano contro il senatore Albino, per difendere il quale egli fu a sua volta incriminato. E il peggio è che l'accusa è venuta da uomini indegni, che non avrebbero avuto nemmeno il diritto, secondo la legge - magnifico questo attaccamento all'idea della legge in quello che fu veramente l'ultimo dei Romani - di rendere testimonianza contro chicchessia. Curiosa anche la circostanza che uno degli accusatori fosse proprio Opilione, quello stesso - a nostro avviso - che ha lasciato il suo nome all'antico sacello della basilica di S. Giustina in Padova; tanto male si accorda, talvolta, la statura morale di un finanziatore di edifici sacri con il significato religioso che essi rappresentano (e ciò vale altrettanto, sempre per restare in quel di Padova, per la Cappella degli Scrovegni impreziosita dal magnifico ciclo di affreschi di Giotto).

 

"E invece per opera di quali accusatori sono stato colpito? Tra di loro un Basilio, già allontanato dal servizio del re, è stato indotto a denunciare il mio nome per l'urgenza di pagare i debiti. Un Opilione e un Gaudenzio, poi, condannati ad andare in esilio dal tribunale regio a causa delle loro innumerevoli frodi d'ogni specie: costoro, rifiutandosi d'ubbidire, si rifugiarono sotto la tutela di un luogo sacro; quando il re lo venne a sapere, decretò che se entro la data stabilita non avessero abbandonato Ravenna, ne fossero cacciati con la fronte segnata da un marchio d'infamia. A una decisione così severa si potrebbe forse aggiungere alcunché? Eppure ,proprio quel giorno, quegli stessi due denunciarono me, e la loro denuncia contro la mia persona fu accolta. Che dunque? Era la mia condotta a meritare questo trattamento,  oppure il fatto di essere già stati condannati aveva reso ai miei accusatori la loro innocenza? Così dunque la sorte non si vergognò, non dico per l'accusa contro l'innocenza, ma almeno per la bassezza degli accusatori!

 

Segue un passo di estremo interesse, dal punto di vista storica, per chiarire le circostanze del processo che si svolse contro Boezio e quali fossero i precisi capi d'imputazione a suo carico.

 

"Ma tu vorrai conoscere la sostanza del delitto di cui sono accusato. Ecco: si dice che io ho voluto salvare il senato. Desideri conoscere il modo? L'accusa è di aver impedito a una spia di esibire documenti con i quali voleva incriminare il senato di lesa maestà.  Che ne pensi, dunque, o maestra? Respingerò l'accusa, per non dare a te motivo di vergognarti? No,io volli ciò e non cesserò mai di volerlo. Confesserò allora? Ma è già venuto meno ogni tentativo di oppormi all'accusa. O dovrò forse chiamar delitto l'aver desiderato la salvezza dell'ordine senatorio?  Esso, in realtà, con i provvedimenti che ha preso sul mio conto,  è quasi riuscito a convincermi che ciò fosse un delitto. Ma l'ignoranza che sempre inganna se stessa non è in grado di cambiare il valore delle cose e d'altra parte, secondo l'insegnamento di Socrate, non ritengo che sia lecito  occultare la verità indulgere alla menzogna.(…)

"Che senso ha poi parlare delle lettere apocrife ,per mezzo delle quali mi si accusa di aver sperato nel ritorno della libertà romana? La loro falsità sarebbe emersa apertamente, se mi fosse stato permesso di avvalermi della testimonianza degli stessi delatori, cosa che ha la massima efficacia in tutti gli affari giudiziari. In quale libertà resta infatti possibile sperare? Magari fosse davvero possibile una qualche speranza! Avrei risposto con l'espressione di Canio, che, accusato da Caio Cesare figlio di Germanico di essere complice di una congiura ordita contro di lui, rispose: «Se l'avessi saputo io, non lo saresti venuto a sapere tu».

 

Magnanima, e perfino imprudente, è quest'ultima affermazione di Boezio, che, del resto, aveva già implicitamente paragonato Tederico a un tiranno. In sostanza, egli si dichiara innocente dell'accusa di alto tradimento, ma non perché il desiderio di restaurare la sovranità imperiale in Italia fosse sbagliato, bensì perché di fatto era irrealistico. Ingenuità o sfida aperta ai suoi persecutori? Certo è che Boezio, quando scriveva queste righe, era ormai consapevole che il suo destino era segnato, e nulla poteva aspettarsi dalla giustizia o dalla clemenza del re.

Qui s'interrompe la breve premessa storica, e il discorso si sposta bruscamente su di un piano esclusivamente filosofico. La questione in causa è della massima serietà: come si spiega l'ingiustizia che colpisce gli innocenti; come si giustifica il male presente nel mondo, se Dio è infinitamente buono e misericordioso?

 

"Infatti, sarà forse una caratteristica della nostra natura imperfetta il volere il male, ma è mostruoso che, sotto lo sguardo di Dio, ogni scellerato possa mettere a segno contro l'innocente tutto ciò che gli  viene in mente. Per questo uno dei tuoi discepoli pose la questione: «Se c'è Dio, donde vengono i mali? E donde i beni, se Dio non c'è?». Diamo pure per scontato che uomini nefandi, avidi del sangue di tutti i galantuomini e dell'intero senato, abbiano voluto anche lamia rovina, poiché avevano visto in me un difensore dei buoni e del senato. Ma meritavo forse lo stesso trattamento da parte dei senatori?".

 

Boezio conclude la ricostruzione del fatto storico della sua accusa: oltre all'accusa di tradimento, lo si è voluto imputare anche di sacrilegium per avidità delle cariche pubbliche. E una ulteriore sofferenza, per lui, è che la voce pubblica, «in grido, come suole» - direbbe Dante - non bada all'assoluta inverosimiglianza delle accuse, ma tende a giudicarlo colpevole, proprio per il peso schiacciante, all'apparenza, di quelle. Dunque, eco che i malvagi imperversano ancor più di prima, dei buoni si nascondono, pieni di spavento: perché la sorte toccata a lui è un chiaro segnale della fine di ogni diritto a tutela dei giusti.

L'amarezza che gli provoca questo pensiero lo spinge a levare una preghiera a Dio, sotto forma di componimento poetico, esortandolo a prendere le difese degli oppressi contro gli spergiuri, e  concludendola con la seguente invocazione:

 

"Oh, volgiti ormai a riguardare la misera terra,

chiunque tu sia che coordini l'armonia delle cose!

Parte non vile di tanta opera,

noi uomini siamo sballottati nel mare della sorte.

La violenza dei flutti, o reggitore, tu calma

E mediante la legge con cui reggi l'immenso cielo

Rinsalda stabilmente la terra."

 

A questo punto la Filosofia risponde di essersi resa conto che lo stato di depressione in cui egli è caduto è così profondo, che non è possibile provvedervi subito con una terapia troppo energica; bisognerà cominciare con una medicina più leggera. Dopo aver declamato una breve poesia in lode dell'armonia cosmica, ella instaura un rapido botta e risposta con Boezio, allo scopo di rappresentargli con maggiore chiarezza la sua situazione e per sgombrare la sua mente da errori filosofici. Per prima cosa gli chiede se crede che  il mondo sia governato dall'ordine o abbandonato al disordine; lui risponde che sempre ha creduto, e crede tuttora, che una tale armonia non possa essersi prodotta casualmente., e che certo un Dio l'ha creata e l'amministra. Allora la Filosofia gli domanda se sappia con quali mezzi Iddio regge il mondo, «quale sia il fine delle cose e dove tenda l'anelito di tutta la natura». Boezio risponde che ogni cosa viene da Dio; lei, allora, gli fa notare che quello è appunto il fine di ogni cosa creata. Indi gli domanda se egli sappia quale sia la sua propria natura; lui risponde di essere una creatura mortale e ragionevole. La Filosofia gli risponde che questa è la causa del suo male: egli, dunque, ha dimenticato che cosa realmente sia.; e da qui dovrà incominciare la cura dell'animo suo.

Il libro si chiude con una bella poesia che, sempre partendo dalla gioiosa contemplazione degli spettacoli incantevoli offerti dalla natura, si trasforma in una vigorosa esortazione a riscuotersi dal torpore spirituale in cui è caduto.

 

Anche tu, se vuoi

con chiaro sguardo

vedere il vero e per retta via

indirizzare il tuo cammino:

scaccia i piaceri,

scaccia il timore,

bandisci anche la speranza

e non ci sia posto per il dolore.

Nebulosa è la mente

E inceppata da freni,

dove regnano queste passioni.

 

 

LIBRO SECONDO

 

Il libro si apre con un forte discorso della Filosofia che richiama Boezio alla consapevolezza di quanto sia vano affliggersi della instabilità della fortuna, riponendo in essa le proprie speranze di felicità, perché tale è appunto la sua vera natura.

 

Che cosa è, dunque, uomo, che ti ha precipitato nella afflizione e nel pianto . hai riscontrato, immagino, qualcosa di strano e di insolito.  Tu ritieni che la fortuna abbia cambiato il suo atteggiamento nei tuoi confronti. Sbagli. Questa è da sempre la sua caratteristica, la sua natura. (…) Ora hai scoperto le facce ambigue di questa cieca potenza. Lei che ancora si mostra velata agli altri, a te si è rivelata. Se ti piace, adattati, al suo costume e non lagnartene. Se provi orrore per la sua perfidia, disprezzala e respingila, con i suoi giochi pericolosi; a cagionarti orsa tanta afflizione è proprio colei che avrebbe dovuto essere per te fonte di serenità. In realtà tu sei stato abbandonato da colei dalla quale nessuno mai potrà essere sicuro di non essere abbandonato.  Stimi forse preziosa una felicità destinata a sparire e ti è cara una fortuna favorevole al momento ma che non ti dà affidamento di rimanere e che quando se ne andrà ti getterà nell'angoscia?".

 

Nessuno, però (come recita in una brevissima poesia) può arrestare la ruota della fortuna nel suo giro: una volta che si sia piegato il collo al suo giogo, non ha senso ribellarsi ai suoi mutamenti imprevedibili.

Segue un ipotetico discorso della Fortuna stessa, che ricorda un po' (forse non casualmente) il discorso che la Natura rivolge all'islandese nell'omonimo dialogo leopardiano delle Operette morali).

 

"Perché tu, uomo, mi metti sotto accusa ogni giorno con le tue lagnanze? Quale torto ti ho fatto? Quali bene veramente tuo ti ho sottratto?  Citami pure davanti a qualsiasi giudice e misurati con me sul tema del possesso delle ricchezze e delle cariche e se riuscirai  a dimostrare che qualcuna di queste cose appartiene in proprietà a qualcuno dei mortali, io di buon grado ammetterò che erano effettivamente tuoi i beni che tu rivendichi.

"Quando la natura ti fece uscire dal seno materno, io ti ho raccolto nudo e sprovvisto di tutto, ti ho sostentato con i miei mezzi e, cosa che ora ti rende intollerante nei miei confronti, ti ho allevato, larga di favori, con una benevolenza persino eccessivo, e ti ho circondato, con splendida abbondanza, di tutti quei beni che mi appartengono. Adesso mi va di tirare indietro la mano: tu hai un obbligo di riconoscenza come  chi ha usato di beni altrui, non ha il diritto di lamentarti, come se avessi perduto cose realmente tue. Perché dunque ti lagni? Non hai ricevuto violenza alcuna da parte mia. (…)

"Ti erano forse ignote le mie consuetudini?(…)

"Da ragazzo non hai tu imparato che sul limitare della dimora di Giove 'stanno due vasi, l'uno di mali, l'altro di beni'?" (Iliade, XXIV, 527-28)

 

Poi ella intona una canzone in cui stigmatizza l'insaziabile bramosia degli umani, i quali, per quanto possano essere favoriti dalla sorte, sempre si lamentano di qualcosa e sempre aspirano a qualche altro bene, a qualche altro possesso senza il quale, dicono, non possono raggiungere la felicità.

Boezio, allora, replica che le parole della Filosofia sono convincenti, ma che il loro effetto lenitivo, in chi soffre profondamente, dura solo finché esse risuonano, poi ritorna il precedente sconforto. Ella riconosce che è così, tuttavia gli ricorda che egli non ha il diritto di credersi un infelice. Molto gli ha dato la vita: una bella famiglia, una moglie amorevole, due figli elevati alla dignità consolare, onori e ammirazione da parte del popolo. Inoltre, quanto più una persona è stata favorita dalla sorte, tantopiù tende a diventare esigente e ad aspettarsi sempre di più, a lamentarsi di ogni ostacolo che incontra sulla propria via. Ma l'errore di fondo è stato quello di aver cercato l'appagamento in qualche cosa che sta fuori delle possibilità umane, in quei beni e in quelle soddisfazioni che non dipendono da noi stessi, ma dal benvolere di altri o dal favore delle circostanze.

 

"Perché dunque, o mortali, cercate all'esterno la felicità che è posta dentro di voi? Vi lasciate irretire dall'errore e dall'ignoranza."

 

La suprema felicità non consiste nel possesso delle cose che stanno fuori di noi, ma nella padronanza assoluta di noi stessi. Ed ecco spiegato perché, al termine del primo libro, la Filosofia aveva sentenziato che assai grave era la malattia dell'animo di Boezio: egli, infatti, aveva definito se stesso un mortale. Gli uomini, invece, non sono mortali, solo la loro parte corporea lo è, e solo su di essa può tiranneggiare a suo piacere la capricciosa fortuna.

 

"E poiché tu sei persona, come io ben so, profondamente convinta per numerosissime prove che gli spiriti umani non sono assolutamente mortali e poiché è evidente che la felicità derivante dalla fortuna ha termine con la morte del corpo, non può esservi dubbio che ,qualora sia quel tipo di felicità a rendere gli uomini felici, tutto il genere umano alla conclusione della morte precipiti nell'infelicità."

 

Quindi, un'altra poesia di sapore quasi lucreziano, che ricorda un po' l'incipit del secondo libro del De rerum natura (suave, mari magno turbantibus aequora ventis, / e terra magnum alterius spectare laborem…); e realmente si sarebbe portati a credere che Boezio lo avesse letto e se ne sia, magari inconsciamente, ispirato.

 

"(…) Se pur rimbombi il vento

rovinosamente sconvolgendo la superficie del mare,

tu, al sicuro, protetto dalla solidità

del tuo tranquillo riparo,

passi sereno l'esistenza,

ridendoti delle furie del cielo."

 

Indi la Filosofia riprende un serrato ragionamento per dimostrare che nessuno dei beni che l'uomo reputa proprio, non solo i beni materiali come il denaro, ma anche la contemplazione del meraviglioso spettacolo della natura in primavera, è qualche cosa che gli