di Jonathan Nitzan e Shimshon Bichler - 18/07/2007
Molti osservatori dello scenario israeliano sono rimasti perplessi di fronte all’evidente resistenza del paese alle cattive notizie. I recenti titoli di testa sembrano uniformemente terribili. Mentre il paese si sta ancora riprendendo da una guerra rovinata, se non umiliante, con Hezbollah, i territori palestinesi scivolano ancora nel fermento e gli esperti parlano di un ennesimo conflitto con la Siria. Il coinvolgimento degli USA in Iraq e in Afghanistan si sta accrescendo e in molti parlano di un imminente attacco sull’Iran con gravi conseguenze regionali. I politici e i pubblici ufficiali israeliani - dal presidente al primo ministro, dal capo di stato maggiore al ministro della giustizia, sono stati trascinati nella corruzione e in altri scandali. I coraggiosi media capitalistici presentano consuetamente gli ufficiali del governo come truffatori incompetenti e il parlamento Israeliano come un’istituzione di nessuna rilevanza.
E tuttavia nessuna di queste notizie sembra avere alcun impatto sull’economia. Che va alla grande.
I commentatori locali hanno tentato di dare una spiegazione a questo enigma per oltre un anno. Quasi tutti parlano dell’effetto della globalizzazione liberale. La lunga lotta per una finanza solida, dicono, sta finalmente portando i suoi frutti. Il governo è stato costretto ad arginare le proprie spese e il conseguente emergere di surplus finanziari aiuta adesso a liberare le scarse risorse per un uso privato più produttivo. Parallelamente, il libero mercato e la liberalizzazione del capitale attraggono gli imprenditori globali, consentendo al tempo stesso ai capitalisti israeliani di mettersi in contatto con il resto del mondo. Il Laissez faire è arrivato in terra santa: la follia politica del paese e l’instabilità della sicurezza nazionale non importano più per l’ ”economia”. [1]
Gli analisti stranieri offrono altre spiegazioni. Per Thomas Friedman del New York Times, il segreto sta nel genio israeliano. [2] L’immaginazione, l’innovazione e la flessibilità dei cittadini di questo paese, incoraggiati dall’istruzione superiore e dal sostegno del governo per l’imprenditoria, aiuterebbero Israele ad adattarsi e a rispondere ad un mondo che cambia di continuo. La prosperità secondo Friedman, viene dalla testa.
Il critico sociale Naomi Klein snobba Friedman [3]. Il rialzo del mercato azionario israeliano e i tassi di crescita paragonabili a quelli cinesi, controbatte, non sono fondati sul capitale umano, bensì sull’economia bellica del paese che sta mutando. Le calamità militari, il terrorismo e il contro-terrorismo presentano un ambiente ideale per lo sviluppo e la sperimentazione di armi di oppressione. Israele è diventato un grande laboratorio per tali armi. Sviluppa e sperimenta l’hardware e il software della violenza - contro i propri vicini arabi e contro la popolazione palestinese - per poi venderlo al resto del mondo. La prosperità economica cresce in tempo di crisi politica.
Il contesto storico
Queste esplicazioni più o meno plausibili, cadono nella stessa trappola: credere ai media capitalistici. Si affrettano a spiegare come l’economia israeliana sia in crescita senza mai fermarsi e chiedersi se lo è veramente.
Certo, il secondo quesito è meno entusiasmante del primo. Ma dato che tutti sembrano dare per scontato il “boom”, abbiamo pensato che fosse una buona idea controllare i fatti. Per maggior sicurezza.
Allora, l’economia israeliana è in crescita?
Chiaramente, la risposta non può essere trovata sulla base del rendimento dell’anno scorso o del trimestre più recente. Israele e la regione sono in fermento da decadi, quindi anche il comportamento dell’economia deve essere visto in un contesto storico. Facciamo proprio questo nella figura 1.