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Lo sguardo sinistro sul Latinoamerica

di Tito Pulsinelli* - 23/07/2007






Il mancato rinnovo alla rete televisiva venezuelana RCTV (adesso assorbita dal sistema “pubblico”), operato da Hugo Chavez all'indomani della scadenza contrattuale, ha sturato la cloaca informatica da cui è venuto a galla di tutto. Schiamazzi mediatici “bipartisan” contro il governo del Venezuela conditi da saccenza, da un non dissimulato senso di superiorità, persino da rigurgiti irrefrenabili di eurocentrismo. Il clero mediatico ha esibito in prima serata i suoi esorcisti di punta, nel tentativo di spiegare perchè i sudamericani devono fare a meno di quella televisione pubblica, la stessa da cui loro quotidianamente si esibiscono disquisendo su tutto.

Quando si tratta del sud del mondo, la sufficienza trasforma i mediocri in “tuttologi”: esperti a vario titolo degli accadimenti di un intero continente che - per di più - sta vivendo, dopo la lunga ibernazione neoliberista inaugurata dalle dittature militari, un vero e proprio terremoto. Come sarebbe visto un “tuttologo” latinoamericano che pontifichi a tutto campo, dal Portogallo al Baltico, dai governi dei Paesi danubiani ai movimenti sociali scandinavi, dal falangismo al gollismo? La saccenza occidentale si scatenerebbe in critiche e persino in aperti attacchi dialettici, con tanto di chiamata in causa di politici e politologi. Eppure, il contrario è vissuto come legittimo, persino raccomandato con posologie veterinarie. I chierici mediatici, e i loro padrini e affiliati della politica, per rendere meno indigesta la brodaglia che propinano, si aggrappano - qual naufraghi alla zattera - a qualche frammento di sociologismo o al grimaldello passe-partout del “populismo”. Un alibi poco convincente. In realtà, costoro sembrano cercare affannosamente di rispondere (tardivamente) all'appello che tre anni addietro lanciò il generale James Hill, quando denunciò che il Sudamerica è vittima di una “minaccia emergente meglio caratterizzata come populismo radicale”. James Hill, però, è un ex Comandante del Comando Sud degli Stati Uniti, ovvero la machina da guerra di Washington dispiegata in lungo e in largo nel continente sudamericano, e abbiamo già velocemente puntualizzato queste discutibili valutazioni, finalizzate a minare la stabilità e la governabilità (www.selvas.org/newsVE0207.html).

Nella neolingua mediatica, però, non è affatto chiaro che cosa si intende esattamente quando si usa con tanta disinvoltura e insistenza l'etichetta di “populismo”. Attualmente “populismo” sembra indicare una mistura polivalente di demagogia, retorica, insane promesse agli elettori, abbandono del primato assoluto dell'economia, neo-fascismo e/o neo-socialismo, ritorno dello statalismo versus mito della crescita infinita del mercato. Tutti questi ingredienti vengono poi assortiti con autoritarismo e culto della personalità, in dosi variabili e soggettive. Almeno il generale Hill forniva qualche pista interpretativa più solida: per lui “populismo” è quel che diminuisce i diritti individuali a vantaggio di quelli sociali. In un tempo remoto - ma non tanto - questa era una caratteristica ritenuta di “sinistra”, oggi non più. Allo stesso modo, un combattente contro forze di occupazioni straniere non era un “terrorista”, sostantivo usato tout-cour per indicare ormai chiunque esprima una opinione diversa da quella imposta dai grandi padroni dell'economia mondiale.

Perché i “tuttologi” eurocentristi non si prendono la responsabilità di connotare questo “populismo” contro cui inveiscono un articolo sì e l'altro pure? Accusano di “autoritarismo” i leader e i governi sgraditi ai proprietari dei mezzi per cui lavorano: come mai sembrano aver dimenticato le lodi sperticate che -solo alcuni anni fa- innalzavano al presidente argentino Menem? Costui con 309 decreti-di-urgenza e 4 anni di governo, riuscì ad affondare il Paese, privatizzando tutto. Sì, 309 decreti-legge che, probabilmente, concimarono i “diritti individuali” di poche famiglie, facendoli fiorire e germogliare, e che cancellarono integralmente i diritti sociali: la maggioranza degli argentini soffrì la precarietà più oscura della loro storia, scoprendo che a nulla serve la “crescita dell'economia” se non c'è redistribuzione. Menem non fu mai criticato, come se l'autoritarismo fosse un valore positivo quando privatizza, quando cancella la moneta nazionale per rimpiazzarla con il dollaro ma, al contrario, come se fosse un valore perverso quando approda all'estensione dell'educazione, salute e previdenza sociale.


Tre campi in cui “l'autoritarismo” di Chavez è riuscito nei suoi migliori risultati. A quei tempi, la multinazionale mediatica tifava Menem come gli ultras della curva sud, e lo additavano a tutti i Paesi dell'area come esempio luminoso da imitare (per fortuna, nessuno li prese sul serio). Oggi, invece, proclamano la loro sintonia automatica con la Presidente Bachelet, e segnalano come esempio continentale il Cile. Il Cile, però, è una democrazia autoritaria, partorita da un patto di transizione che ha consacrato l'immunità per ogni crimine commesso da chi indossava una divisa (abbiamo già dimenticato l'11 settembre del 1973? Il nome di Pinochet non ricorda niente a nessuno?), ribadendo a due passi da Plaza de Mayo il ruolo centrale e inamovibile delle forze armate.


A Santiago qualsiasi tipo di manifestazione si conclude con centinaia di arrestati. Il Cile non è un modello valido solo perchè riconosce alle forze armate un diritto unico nel continente, lasciando che la casta dei graduati incassi il 10% sulla fiorente esportazione del rame. Democrazia dispiegata e fiorente o autoritarismo?


La sensazione che abbiamo è che la “tuttologia” eurocentrista si limiti a riciclare i luoghi comuni provenienti dalla propaganda a stelle e strisce. Non si analizzano i contesti specifici, nè si sospetta che possano esserci specificità e peculiarità innovative. Ci si limita a estendere sul mondo uno sguardo - e un metro analitico - prettamente casalingo, con l'arroganza di ritenerlo universale, moderno, lungimirante, in ogni caso automaticamente “superiore” alle bizzarrie sociologiche di tutte le altre contrade. Alla fin fine -a parte i calciatori, la musica ballabile e qualche romanzo- quali altre novità degne di rilievo potrebbero mai arrivare dalle periferie tropicali? Sono una variabile subordinata del “mondo civilizzato” che deve, pertanto, adattarsi all'interpretazione dei suoi vati d'ordinanza. La sinistra, completata la deriva verso il neoliberismo, non riesce a riconoscere il dinamismo innovativo di un magma sociale che - proprio dalla rottura violenta con i diktat del capitalismo finanziario - ha iniziato un'offensiva che è arrivata a penetrare il potere esecutivo di vari Paesi.


Dopo aver esportato “eurocomunismo” e “terza via”, come possono questi -come assertori del “primato dell'economia su tutto”- ammettere di non essere più un punto di riferimento planetario? Molto più “sicuro” mettere mano alle pistole mediatiche, demonizzare il dibattitto che si è aperto tra i movimenti sociali latinoamericani, soprattutto a riguardo dei percorsi nazionali per una maggiore equità sociale. La ridicolizzazione della discussione sul “socialismo del secolo XXI” tradisce una rimozione integrale dell'identità e la vergogna per le radici storiche.

E' un peccato di superbia che porta a misconoscere e sottovalutare la realtà di un continente dove l'opposizione sociale è andata oltre la politica, i partiti e la democrazia rappresentativa. I movimenti popolari hanno costretto alla fuga una decina di Presidenti, di cui 5 in rapida successione in Argentina, dove strade, piazze e ponti sono stati occupati per ben sette mesi. E sono riusciti -caso inedito!- a riportarne uno al posto legittimo, dopo che era stato fatto prigioniero in seguito ad un abortito golpe disegnato a Washington. Dal 2000 al 2003, i “levantamientos populares”, le sollevazioni del popolo, hanno frenato la privatizzazione del gas e dell'acqua in Bolivia; quella dell'elettricità ad Arequipa (Perù); in Paraguay hanno paralizzato la privatizzazione dei telefoni, elettricità, fognature e ferrovie. I medici e gli infermieri del Salvador hanno dato vita ad uno sciopero di sette mesi per bloccare la privatizzazione della previdenza sociale. Gli abitanti di Atenco (Messico) hanno impedito la costruzione di un megaaeroporto multinazionale e hanno salvato le loro terre - di cui vivono - da un'espropriazione già firmata.


È una ingenuità cercare di far passare in un unico imbuto una realtà molto composita, che va dall'opposizione armata colombiana fino ai fronti politici con finalità esclusivamente elettorale, dall'originalità zapatista alle reti continentali antineoliberiste, dai Sin Tierra alla riattivazione di fabbriche abbandonate dai proprietari in fuga. È un tentativo velleitario di omologare ed appiattire il pluralismo e le differenze con la genericità vuota -ma rassicurante- indotta dalla parola “populismo”. Sulla scena della lotta contro l'oligarchia radicata in molte delle ex colonie bianche dell'America Latina, sono entrate con decisione le popolazioni indigene e le ragioni della terra, le loro radici comunitarie, la difesa della biodiversità e il rispetto della Natura insito nel loro DNA. Gridano contro l'esclusione, abbinando a tutto ciò il travolgente protagonismo maggioritario delle donne latinoamericane, madri lavoratrici e capofamiglie. Un terremoto, una svolta impressa dalla massiva partecipazione alla contesa sociale di sconfinati settori da sempre esclusi, considerati inesistenti non solo dai registri ellettorali, ma persino dalle anagrafi. È la confluenza in un alveo comune dei frutti proibiti delle eresie contemporanee: la teologia della liberazione, la critica pratica dell'economia, la sovranità nazionale e la cultura pre-coloniale, in antitesi con le ragioni di un imperialismo fin troppo presente nella gestione del Cono Sud negli ultimi 500 anni.


“Complementarietà, cooperazione, dualismo”
è stata la sintesi di Iximchè, dove recentemente si sono riuniti gli eredi di Abya Yala, uno dei nomi originari di questo continente prima dell'arrivo dei Conquistadores . Risulta ovvio che disarticolare lo Stato neocoloniale è priorità strategica per rendere effettivo il controllo del potere esecutivo -soprattutto nell'area andina- e realizzabili le politiche di redistribuzione sociale. Non è solo questione di andare al governo, ma di che cosa fare una volta lì. È necessario neutralizzare il controllo assoluto delle famiglie di potere, del loro blocco storico e dei loro alleati internazionali. Non si tratta solo di garantire alternanze insipide o simboliche, ma di creare una nuova istituzionalità che non sia al servizio esclusivo del 10% della popolazione. All'interno delle società nazionali e delle relative istituzioni deve emergere ed affermarsi una nuova egemonia sociale, senza la quale nessun cambiamento significativo è realizzabile. Questo spiega perchè in Bolivia ed Ecuador si percorre la via dell'Assemblea Costituente: è urgente riscrivere le regole minime del gioco. Questi sono alcuni dei tratti sommari che caratterizzano l'agire di vaste coalizioni sociali, attive in un continente saccheggiato impietosamente dal neoliberismo, ieri ed oggi. Ai tempi di Porfirio Diaz, (1) i cultori del positivismo e del progresso distruggevano le comunità indigene per sradicare la proprietà comunale della terra. Questa veniva poi consegnata ai magnati stranieri (tabacco, zucchero, cotone, banane, caffè, minerali ecc.) assieme agli indios sopravvissuti, riciclati letteralmente come schiavi (nel 1537 la Chiesa ha sancito la non appartenenenza al genere animale dei nativi latinoamericani). Gli altri, gli irriducibili, venivano esportati a Cuba, comprati dai latifondisti cubani. Ogni estremismo ha, però, la sua indispensabile contrapartita. La risposta fu la rivoluzione messicana e le insurrezioni di Tupac Amaru e Tupac Kataru nel sud.


L'ultimo neoliberismo -quello del pensiero unico- ha sentito i rintocchi delle campane a morto quando l'Argentina è stata mandata in bancarotta, pur avendo l'ardire di confiscare anche gli ultimi risparmi dei ceti medi urbani, dopo essere riuscito nell'impresa titanica di affamare i produttori storici di un surplus agricolo destinato al mondo.


Nel continente americano, questa frana è stata percepita e vissuta come la “caduta del muro” di menzogne e depredazioni.
Da quel momento le cose non sono state più le stesse. Sul neoliberismo ha cominciato a risplendere un arcobaleno di resistenze crescenti e profonde, scaturite dal fondo di società esauste ma non vinte. È l'antidoto che ha riacceso la speranza ed ha rimesso in movimento la storia, di cui si stanno scrivendo -che siamo disposti a leggere o meno- le prime importanti pagine del capitolo contemporaneo. Dalla comoda e lontanissima poltrona occidentale si continuano a levare voci cieche, che non sanno e che non vogliono nemmeno sapere. Dopo aver archiviato, all'indomani della caduta del muro di Berlino, il progetto di una nuova socialità, si affrettano con saccenza a consolarsi con il vuoto-aperdere mentale del “populismo”. È molto più comodo arrendersi alle regole assassine dell'economia globale, lasciandosi possedere dai suoi finti valori, che opporvisi. È più sicuro concepirsi come una variabile del neoliberismo che come voce analitica, lucida e informata che, garantendo la libertà di informazione, diventa componente di un fastidioso “fronte di resistenza”. (1 - Porfirio Díaz presidente messicano dalla fine dell'ottocento fino al 1911)


(*)Tito Pulsinelli. Analista geopolitico, ha pubblicato numerosi testi sulla realtà latinoamericana per l'Osservatorio Indipendente Selvas.org e per numerose testate latinoamericane. E-mail : redazione@selvas.org
(Il presente articolo è utilizzabile con la citazione dell'autore e di Selvas.org.)
* (http://www.selvas.org/newsAN0507.html) Giugno 2007-07-23