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Un altro Occidente. Riflessioni sull'Europa

di Franco Cassano* - 15/12/2005

Fonte: Jura Gentium

 

La lettura dei vincitori

Non è possibile affrontare oggi una riflessione sul ruolo dell'Europa senza partire dalla profonda divisione, emersa in occasione dell'attacco all'Irak, tra gli Stati Uniti e una parte importante del vecchio continente, frattura ancora più rilevante se si pensa che l'opposizione alla guerra è stata di gran lunga maggioritaria anche in paesi come l'Italia e la Spagna, i cui governi hanno appoggiato l'intervento. Questa divaricazione, che è un fenomeno nuovo e di grande importanza, ha avuto però una lunga incubazione, che vale la pena di ricostruire sommariamente.

Per andare alle origini di questo processo conviene partire dal 1989, l'anno del crollo del muro e del sistema sovietico, e in modo particolare dal modo in cui quel passaggio è stato letto dai vincitori. Secondo l'interpretazione prevalente negli Stati Uniti, ma anche in gran parte dell'Europa occidentale, il crollo del sistema sovietico è un verdetto semplice e netto: la vittoria della libertà sul totalitarismo, la dimostrazione sperimentale della superiorità del capitalismo liberale sui regimi socialisti, l'esito inevitabile di sistemi politici estranei ai valori fondamentali della tradizione politica e culturale dell'Oc-cidente.

Questa lettura, che ancora oggi è la più diffusa, è molto parziale e mette in ombra problemi e dimensioni molto rilevanti. Infatti, se si osserva da più vicino il crollo del socialismo reale, non è difficile vedere che esso rappresenta non la vittoria dell'Occidente contro il suo «altro», ma l'esaurimento di una lunga tensione dialettica tra due poli, entrambi interni alla tradizione occidentale, quello della libertà e quello dell'uguaglianza, o se si vuole, quello del mercato e quello dello stato. Tale tensione, che ha attraversato negli ultimi due secoli la storia della modernità, si esaurisce allorché il sistema dei paesi socialisti prima inizia a perdere la sua capacità d'attrazione e poi crolla, lasciando campo libero al suo avversario storico. Le tragiche ingiustizie consumatesi sotto quei regimi non devono però far dimenticare che essi erano nati da una rivoluzione, il cui scopo principale era quello di costruire una società fondata sull'uguaglianza. Nella rappresentazione unilaterale dei vincitori quella caduta diventa una sorta di giudizio divino, un passaggio ascensionale e un progresso evolutivo, che consentono di mettere a fuoco e liberare da adulterazioni e zavorre il nucleo più autentico della tradizione dell'Occidente.

In corrispondenza con questa svolta epocale la stessa nozione di modernità viene rapidamente ridisegnata sui modelli vincenti: adesso non ha più senso qualificarla con un aggettivo (liberale o socialista), ma è sufficiente la sola parola di modernità, purché ricalcata accuratamente sui tratti del capitalismo vincente, che però non è più il capitalismo liberale riformato e temperato da un sistema di protezione sociale, ma un liberismo competitivo, che guarda con estrema diffidenza ogni forma di regolazione e ama presentarsi come l'esito più coerente e rigoroso dell'intera tradizione dell'Occidente. Le regole di questo nuovo mondo sono semplici ed universali: liberalizzazione internazionale dei mercati, drastica riduzione del ruolo dello stato e di tutte le forme di controllo, regolazione e protezione sociale (1) .

Sul piano della politica internazionale questo «salto evolutivo» si traduce nell'affermazione del primato incontrastato degli Stati Uniti, che di questa forma vincente di capitalismo rappresentano il paradigma. Un primato solitario che, di fronte ai problemi più complessi, sfocia nell'unilateralismo, in un atteggiamento che pone gli interessi del paese più potente del mondo al di sopra di tutti i sistemi di mediazione internazionale nati nella seconda metà del secolo (2). Sulla base dei nuovi rapporti di forza, gli Stati Uniti considerano se stessi come entità superiorem non recognoscens, e guardano con insofferenza e fastidio qualsiasi sistema di regole che pretenda di limitarne la libertà di movimento: le perplessità degli europei vengono ridotte a debolezze, le Nazioni unite vengono considerate un ostacolo e un impaccio, viene rilanciato lo sviluppo degli armamenti, non vengono sottoscritti i protocolli conclusivi approvati dalle conferenze internazionali sull'ambiente, viene negato alla Corte penale internazionale il diritto di giudicare i cittadini americani. La superiorità militare è la conferma della superiorità di un modello e di un popolo, i cui rappresentanti si ritengono sempre più in diritto di intervenire quando e dove vogliono.

Il 1989, il comunismo e il declino dell'Occidente

Questo atteggiamento, che pone gli Stati Uniti al di sopra di ogni regola comune e mette in pericolo gli equilibri mondiali, è la conseguenza naturale della lettura apologetica e superficiale dell'89 che abbiamo ricordato, che, nella sua miopia, moltiplica anziché risolvere i problemi. La cosiddetta vittoria della libertà sul totalitarismo non segna, infatti, il passaggio ad una fase superiore della storia, ma l'inizio di un nuovo periodo di conflitti, caratterizzato sì dal primato planetario degli Stati Uniti, ma anche dalla mutilazione della cultura occidentale e dalla conseguente drammatica contrazione della sua capacità di capire.

Il crollo del comunismo rappresenta la tappa finale di un lungo periodo storico, in cui l'Occidente non solo aveva dominato quasi tutto il pianeta, ma aveva offerto ad esso anche le categorie capaci di definire i conflitti che nascevano da quel dominio e quindi anche di metterlo in discussione. In altri termini l'Occidente era così forte da produrre non solo un pensiero apologetico, ma anche un pensiero critico, capace di dar vita ad una forma radicale di universalismo, fondata sulla lotta alle disuguaglianze su scala nazionale e internazionale. Il fatto che Marx vedesse nel proletariato rivoluzionario l'erede della filosofia classica tedesca ricorda a tutti che anche lo spettro che si aggirava per il pianeta, facendo paura alle classi dominanti, era nato nel cuore dell'Occidente.

Il crollo del comunismo e del marxismo non è quindi la banale crisi di una scuola filosofica, ma la caduta di una delle due varianti dell'universalismo dell'Occidente, quella utopica e radicale, che aveva intercettato bisogni ed esigenze molto estesi, nati anche all'esterno dell'Occidente oppure ai suoi margini. Se è vero che le previsioni di Marx non si sono realizzate nei paesi più avanzati, è altrettanto vero che il marxismo ha avuto successo in grandi paesi cosiddetti arretrati, come la Russia, la Cina. Nella sua versione leninista, questa variante radicale dell'universalismo occidentale fu adottata da molte élite intellettuali e politiche estranee all'Occidente: Ho Chi Minh e Chu En Lai non si sono formati in scuole coraniche o confuciane, ma in Europa, e anche una parte rilevante delle élite arabe fu attratta dagli ideali laici del socialismo. Il leninismo, che chiamava alla lotta contro l'imperialismo, offriva una versione del marxismo che gli permetteva di intercettare le aspirazioni all'indipendenza dei paesi coloniali, costruendo una singolare ed ambigua miscela tra gli obiettivi socialisti e i propositi di liberazione dal giogo coloniale. Del resto lo stesso nazionalismo dei paesi ex coloniali, pur nella dinamica di un rapporto conflittuale con il potere della metropoli, s'ispirava ai modelli statali nati in Europa.

La crisi e la caduta dell'opzione comunista sembrano aprire spazi immensi all'egemonia dell'Occidente, ma sicuramente ne contraggono la capacità di esercitare un ruolo nell'interpretazione delle tensioni che attraversano il pianeta. Del resto quella crisi aveva avuto una lunga gestazione, che aveva già fatto perdere al comunismo la sua capacità d'attrazione. Molti paesi avevano già abbandonato l'universalismo radicale dell'Occidente, ed erano tornati a cercare, all'interno della propria tradizione, gli elementi critici necessari per mettere in discussione un sistema che li tiene ai margini e in posizione subalterna. Certo, l'espansione dei mercati e la costruzione di un sistema di comunicazione planetaria allargano enormemente la penetrazione dell'american way of life, ma incrementano anche il processo opposto, la ricerca reattiva dell'identità perduta, di paradigmi culturali capaci di organizzare forme nuove di resistenza all'onnipervasività di quei modelli. Le tensioni non sono scomparse, anzi si sono addirittura accentuate, ma adesso vengono tematizzate e affrontate con altre categorie e altri schemi culturali.

Ovviamente la crisi dell'universalismo radicale ridimensiona anche il valore e la capacità d'attrazione internazionale dell'idea di sinistra, che non è comprensibile fuori di quel quadro teorico. Quell'idea impallidisce sul piano teorico e subisce una contrazione regionale, non designando più un movimento internazionale che si propone di mettere in discussione gli assetti di potere del mondo. La stessa Internazionale socialista, da sempre ancorata soprattutto all'interno del mondo occidentale, vede emergere con forza i sostenitori della cosiddetta Terza via. Quest'ipotesi non nasce per caso nei paesi anglosassoni e di tradizione protestante, nei quali l'attacco alle forme di protezione sociale era stato condotto con successo dai governi conservatori della Thatcher e di Reagan, a partire dagli inizi degli anni ottanta. Tony Blair e Bill Clinton, gli eredi politici di sinistra dei governi conservatori dei rispettivi paesi, sono i principali sostenitori della Terza via, che propone tra i suoi primi obiettivi, il ridimensionamento equo ed «intelligente» del sistema di protezione sociale conquistato in Europa nel corso del ventesimo secolo. Tutto ciò che di nuovo e interessante c'è all'interno della Terza via, ha purtroppo un ruolo secondario rispetto a questa funzione di ridimensionamento politico-ideo-logico e di contrazione regionale, che, ridisegnando le aspirazioni della sinistra all'interno del perimetro dei nuovi rapporti di forza internazionali, presenta un drastico e sostanziale arretramento come un'avanzata.

Non solo: è proprio fondandosi su questa stabile alleanza strategica anglo-americana, sicuramente non indipendente dalla comune radice anglosassone, protestante (3) ed insulare, che inizia ad affermarsi una nuova connessione ideologico-politico-militare, che salda a questo riformismo timido l'ideologia delle guerre umanitarie. L'indebolimento dei principi in politica interna trova una sorta di compensazione ideologica in un interventismo internazionale che, in nome dei diritti umani, assegna ai paesi più forti dell'Occidente il ruolo di gestori dell'ordine mondiale. La miseria e la fragilità di quest'ideologia «uma-nitaria», con le disinvolte manipolazioni della verità e della morale operate in suo nome, sono oggi davanti agli occhi di tutti.

Questo nuovo quadro strategico permette di mettere a fuoco anche alcuni problemi che riguardano da vicino l'Europa. L'asse anglo-americano ribadisce, anche dopo la fine della guerra fredda, la centralità dell'impero atlantico, nel quale all'Europa viene assegnato il ruolo di confine con il sud e l'est del mondo. Non è un caso che nella ricostruzione di Samuel Huntington la civiltà occidentale abbia il suo centro nell'Atlantico, e i suoi confini lungo la frontiera su cui il cristianesimo occidentale incontra quello orientale e il mondo islamico (4). In altri termini, all'Europa, anche a quella che si viene affermando come un nuovo soggetto unitario, e anche dopo la fine della guerra fredda, viene assegnato il semplice ruolo di appendice di un impero fondato sul primato dei paesi anglosassoni e di tradizione protestante.

Il fondamentalismo dell'Occidente e l'incommensurabilità delle tradizioni

La caduta della tensione interna alla tradizione occidentale e il suo contrarsi intorno all'iniziativa degli Stati Uniti conduce all'affermarsi del fondamentalismo del nord-ovest, di un sistema sociale fondato sul primato del mercato e dell'economia, insofferente d'ogni forma di controllo e orientato verso una crescita continua dei consumi. L'ideologia corrispondente a questo modello economico-politico è una forma radicale d'individualismo, che vede ogni legame sociale come una prigione arcaica e liberticida. In questo mondo, in cui ognuno fa per sé e deve solo pensare a correre, le disuguaglianze tra le classi e tra i paesi non sono più un problema da affrontare, ma la dimostrazione più o meno diretta della diversa qualità degli individui, delle culture e dei popoli, l'indizio di una sorta di predilezione divina. La crisi del welfare non è solo un problema istituzionale, ma l'inizio di una nuova durezza nei riguardi di chi perde, un atteggiamento che è probabile che non nasca per caso in paesi di tradizione protestante (5). Il disoccupato e il deviante sono ritenuti responsabili della loro condizione e ogni pietismo riformistico non fa che incoraggiarli nelle loro debolezze. La complessità e le riforme scompaiono dal pensiero e dalle politiche, e il male si erge di fronte al bene in tutta la sua diabolica nettezza. Questo mondo ad una sola dimensione, fondato sull'ideologia della corsa e della competizione, propone come unico rimedio la conversione, ovviamente non quella religiosa, ma la sua traduzione secolarizzata, l'occiden-talizzazione del mondo: occorre imitare i paesi più «avanzati», proporsi di diventare come loro, avere gli stessi valori, le stesse mete e gli stessi miti. Il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e l'Organizzazione mondiale per il commercio governano una politica economica ispirata rigidamente a queste terapie. I fallimenti ripetuti e diffusi di queste ultime non vengono però mai imputati al liberismo rozzo che le sottende, ma alle insufficienze delle politiche nazionali e alle resistenze dei paesi «arretrati».

È a partire da qui, da questa lettura unilaterale e manichea, che si apre un baratro tra l'Occidente e le altre tradizioni. La caduta del polo simbolico dell'uguaglianza, e il parallelo affermarsi di un fondamentalismo del mercato e dell'economia contraggono il respiro dell'Occidente, spingono tutte le tensioni fuori del suo punto di vista e avviano una crescente incommensurabilità tra le diverse tradizioni e civiltà. Una massa crescente di problemi, tensioni e conflitti non incontra più istanze e sedi di mediazione internazionali e non trova più nel vocabolario simbolico e politico dell'Occidente uno strumento di rappresentazione efficace e credibile.

Il fondamentalismo dell'Occidente, che nasce dalla convinzione della superiorità assoluta del capitalismo liberale nella sua versione liberista, produce i suoi opposti simmetrici: dal fondamentalismo islamico alla difesa dei «valori asiatici», si assiste ad un processo di riscoperta delle tradizioni, che risponde soprattutto all'esigenza di rivendicare un approccio ai problemi autonomo da quello, per nulla neutrale, proposto dall'Occidente. La ragione di tale opzione non è difficile da comprendere: in una prima versione questa reazione nasce dal desiderio di alcune élite(si pensi in primo luogo alla Cina) di distinguere nettamente tra modernizzazione (auspicabile e desiderata) e occidentalizzazione (temuta e avversata). Ma c'è anche una versione più radicale di questa opzione: chi è costretto a giocare un gioco in cui perde sempre, dopo ripetuti fallimenti, proverà a cambiare gioco, a proporne uno in cui è più bravo, al posto di quello impostogli dagli altri, in cui non faceva che perdere, sentendosi colpevole delle sconfitte e perdendo ogni fiducia in se stesso. E va da sé che quando l'umiliazione è continua, quando vengono bruciate tutte le istanze di mediazione internazionale, questa riscoperta della tradizione avvenga sul versante più aggressivo, si alimenti di vendette e di martiri suicidi e trovi nel terrorismo il canale d'espressione privilegiato.

Se si accetta anche per sommi capi la ricostruzione proposta, l'attentato dell'11 settembre può sorprendere solo per le sue dimensioni e la sua spietata spettacolarità. L'ottimismo degli inizi degli anni novanta, che aveva trovato la sua espressione nello stolido libello di Francis Fukuyama, La fine della storia, aveva incominciato a mostrare la corda molto prima del tragico appuntamento di Manhattan. Il corollario che si può ricavare dalla ricostruzione che abbiamo proposto è molto semplice: la caduta della tensione interna alla tradizione occidentale e il suo squilibrarsi intorno al solo polo della libertà non solo deforma e impoverisce la nozione stessa di libertà, ma avvia un fondamentalismo dell'Occidente che rende sempre più ingovernabile il pianeta.

L'Europa: la necessità di un doppio movimento

All'interno di questo quadro dominato dal fondamentalismo del nord-ovest, l'Europa subisce una duplice amputazione. La prima mutilazione avviene nella sua percezione del rapporto con il tempo: essa è costretta a leggere se stessa non come un modello diverso rispetto agli Stati Uniti, ma come un passato che non passa, uno stadio precedente della storia, caratterizzato da un sistema di protezione sociale e di garanzie superato e in evidente sovrappeso rispetto agli imperativi della nuova modernità. L'attenzione per una protezione sociale rivolta a tutti i cittadini (il cosiddetto welfarestate) appare come un tratto culturale obsoleto, appartenente ad un'altra epoca. L'Europa percepisce se stessa come arretrata rispetto al «vero» Occidente, costituito dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, i paesi più vicini ad un modello di «modernità liquida», insulare ed oceanica, mai seduta sulle arcaiche sicurezze che contrassegnavano lo statalismo continentale della vecchia «modernità solida». Nell'epoca della globalizzazione quest'ultima sopravvive stentatamente, come il tentativo disperato di proteggere un territorio limitato ed angusto dalle forze grandiose della deterritorializzazione, che mobilita tutte le risorse del pianeta in funzione della massima profittabilità.

Alla seconda mutilazione del senso di sé dell'Europa abbiamo più volte accennato. Essa si riferisce alla sua percezione del rapporto con lo spazio. Nel mondo dominato dal fondamentalismo del nord-ovest, l'Europa non è che l'appendice orientale dell'impero atlantico, all'interno del quale la Gran Bretagna ha l'evidente funzione di far sì che il nuovo soggetto in via di costituzione non metta in discussione la collocazione minore e subalterna del «vecchio continente». I confini, gli alleati e i nemici vengono definiti dal centro dell'impero, mentre ad un'Europa periferica e senile spetta solo il destino di prenderne atto, cercando di lucrare piccoli vantaggi qui e lì tra gli spazi aperti dal polo trainante dell'impero. Le ragioni di questa subalternità sono enunciate con franchezza yankee da Robert Kagan: l'Europa è un continente ormai imbelle e pieno di paure, che coltiva l'utopia di un mondo senza violenza, ma deve sapere che può farlo solo alle spalle della giovinezza guerriera degli Stati Uniti (6).

Il compito preliminare di un'Europa intenzionata a pensare se stessa in modo autonomo è invece proprio quello di porre fine con coraggio e lucidità a questa dipendenza, alla duplice mutilazione che discende dalla sua posizione subalterna. Andare in questa direzione non significa uscire dall'Occidente, ma provare a coniugarne una versione non fondamentalista, diversa da quella dominante. Si tratta di un compito ambizioso e impegnativo, perché il progetto di un nuovo protagonismo dell'Europa rappresenta qualcosa di molto più complesso della semplice emersione di una nuova potenza. Essa non mira a farsi nemici, ma a costruire una mediazione, a deradicalizzare lo scontro tra le civiltà, a produrre un'utilità collettiva per il pianeta.

Il primo cambiamento da promuovere è quello relativo alla percezione che essa ha della propria posizione nel tempo. L'Europa non è il passato che non passa, un vecchio stadio dell'Occidente, superato da quello nuovo, rappresentato dagli Stati Uniti e dalla «modernità liquida». L'Europa non deve preoccuparsi del fatto di voler mantenere un rapporto forte con il suo passato. Al fondo, come osserva Simone Weil, è proprio questo rapporto con il passato che le garantisce una differenza rispetto all'America, la cui specificità sta nel fatto d'essere puro presente, una modernità pura, che non incontra nessun ostacolo al proprio movimento (7). Assumere come proprio modello l'assolu-tizzazione del presente significherebbe per l'Europa perdere la propria storia e la propria identità. D'altra parte è solo il possesso di un passato a garantire la crescita dell'esperienza, la capacità di giudicare con saggezza, dopo aver visto i lutti che lo sfoggio di potenza (anche e soprattutto la propria) semina nel mondo. Ecco perché questa differenza, qui sta il punto cruciale, non è un banale attardarsi, ma una variante contemporanea dell'Occidente, una versione alternativa rispetto a quella dominante.

Ovviamente l'Europa deve riconquistare la sua figura anche nello spazio, combattere la tendenza a rattrappirsi intorno all'unico polo del nord-ovest, non deve più farsi fissare da esso i confini e i nemici, deve uscire dalla subordinazione all'impero atlantico, riaprire ad est e a sud, dialogando con la sua parte orientale, ma soprattutto mettendo a tema il Mediterraneo. Operazione molto impegnativa, se si ricorda che la grande storia d'Europa inizia proprio con lo spostarsi del suo cuore a nord-ovest, e che «dopo il 1620 o il 1650 il Mediterraneo non è certo più il centro del mondo» (8). Certo, quella centralità è solo un lontano ricordo, ma oggi il Mediterraneo è sicuramente il luogo del pianeta in cui il nord-ovest del mondo incontra il sud-est, avvertendo con precisione sismografica tutte le tensioni di questo contatto. Questa sua collocazione di frontiera disegna con chiarezza il compito dell'Europa: o sentinella dell'impero atlantico del nord-ovest oppure luogo di costruzione di un incontro alla pari, fondato sul reciproco rispetto, sulla curiosità e sulla speranza di trovare al di là delle differenze, anche ciò che accomuna. La messa a tema del Mediterraneo non è quindi una questione regionale, un piccolo vantaggio che riguarda solo il sud d'Europa o i paesi che si affacciano direttamente su quel mare, ma un momento decisivo della ricostruzione di un modo autonomo di pensare e di rappresentarsi dell'Europa nel suo complesso.

Il rapporto dell'Europa con il sud è in primo luogo un rapporto diverso con il proprio sud, una ricostruzione di equilibri culturali all'interno dell'Europa stessa. Di fronte all'insularità oceanica essa deve ricostruire un rapporto equilibrato tra terra e mare. Che cosa rappresenta la crescente fortuna del tema della lentezza, a nord come a sud del continente, se non la rappresentazione del bisogno di signoreggiare il processo produttivo, di ridestinarlo ad un'idea di consumo larga e complessa, di arricchire la qualità dell'esperienza invece di risolverla totalmente nell'insicurezza perenne della modernità liquida? A che servono la tecnica e la produttività se non a ridurre il tempo di lavoro, ad allargare la vita, a liberare una creatività non mercantile, ma conviviale?

L'Europa come mediazione

Questo nuovo posizionamento nel tempo e nello spazio, se lo si osserva da vicino, è un movimento complesso, che contiene dentro di sé altre due dimensioni essenziali, inseparabili da quelle messe già a fuoco. In primo luogo l'Europa, per potersi collocare in modo originale nel mondo che cambia, deve riacquistare sicurezza, recuperando il sentimento della propria originalità. Di quest'identità europea deve far parte in primo luogo il rilancio dell'ugua-glianza e della protezione sociale per tutti, come attributo non transeunte ed accidentale, ma essenziale della democrazia e della modernità. Una difesa dei diritti umani se non comprende al proprio interno il diritto alla salute, al lavoro e ad un grado minimo di sicurezza generalizzata non corrisponde al modello della modernità europea. L'originalità di Europa sta nel fatto che essa ha garantito una protezione sociale estesa a tutti, senza farlo a spese della libertà, è stata capace di mediare libertà e protezione sociale, evitando che una preoccupazione prevalesse sull'altra. In altri termini l'Europa ha saputo contenere la tensione tra uguaglianza e libertà, i due poli della tradizione occidentale, tenendosi a distanza da ogni deriva fondamentalista. Ovviamente oggi non si tratta di tornare al passato, ma di costruire forme nuove di quell'equilibrio. La stessa nozione di uguaglianza si è arricchita di dimensioni che non sono riducibili ai parametri classici dell'età dell'oro del welfarestate. Molti dei beni necessari alla qualità della vita hanno una struttura complessa, e la loro produzione richiede di ripensare lo sviluppo, e non semplicemente di lasciarlo fare ciò che crede, per collocarsi poi nella sua scia e ricavarne dividendi per usi sociali.

In secondo luogo tale riconquista dell'originalità europea non può e non deve coincidere con il riaffacciarsi di una tentazione etnocentrica, di una propensione a porsi come paradigma esemplare per tutta l'umanità, un nuovo universalismo da proporre come rimedio planetario. L'identità europea è e rimane un'identità tra le altre, e le sue qualità potranno essere giudicate solo dal libero scambio di esperienze. Del resto il pensiero europeo ha compiuto uno straordinario progresso teorico, proprio allorché, confrontandosi con il processo di decolonizzazione, ha iniziato dolorosamente a prendere coscienza della propria finitezza e della propria parzialità. La premessa di tutto è il sentimento di questa parzialità. Solo il pensiero che ha fatto esperienza di questo scacco può guardare con saggezza il futuro.

Questo doppio movimento può produrre un effetto importante anche sulle relazioni tra i popoli. Il dialogo tra libertà e uguaglianza, tra diritti individuali e coesione sociale, allarga il ponte comunicativo tra le culture, ne aumenta il tasso di traducibilità e commensurabilità, frena la deriva fondamentalista. Essa comprende che oggi il primo passo per dialogare è il rifiuto del fondamentalismo dell'Occidente, di quel primato del mercato e del profitto, di quella dismisura faustiana, che accetta i verdetti dell'economia come se fossero responsi divini. Laddove il primato dell'economia non è un assoluto può cominciare il dialogo tra le culture, molte delle quali si sono ammalate di fondamentalismo, proprio per una reazione allergica agli effetti disgregativi che quel primato produce sulla coesione sociale (9).

Con il suo equilibrio l'Europa potrebbe aiutare chi sacrifica la libertà alla protezione sociale a capire la differenza tra l'anomia e la libertà, che quest'ultima costituisce l'antidoto più efficace contro gli abusi del potere, il baluardo più sicuro contro ogni tirannia. Ma potrebbe aiutare al contempo anche chi sacrifica la protezione sociale alla libertà e reputa il successo un verdetto divino a capire che nessuna libertà si può costruire su un esercito di perdenti.

È difficile dimenticare l'ammonimento di Brodskij: «Se ad Atene Socrate poteva essere processato pubblicamente e poteva pronunciare interi discorsi - tre discorsi! - in propria difesa, a Ishafan, mettiamo, o a Bagdad, un Socrate sarebbe stato impalato seduta stante, impalato o flagellato, e tutto sarebbe finito lì» (10). Ma non si deve neanche dimenticare un'altra vergogna, simmetrica rispetto a quella appena ricordata, lo spettacolo, nelle strade di certi paesi ricchi ed avanzati, dell'ansioso frugare dei soccorritori nelle tasche di chi giace a terra per scoprire se il suo reddito gli consente di essere soccorso e curato.

L'Europa è tra queste due vergogne. La protezione senza libertà mura l'individuo nell'identità collettiva, la libertà senza protezione distrugge i beni collettivi, che sono l'atmosfera che ogni società ha bisogno di respirare. L'eccesso di sicurezza aumenta il potere di tutte le polizie così come l'eccesso di insicurezza fa di ogni angolo un agguato.

Europa, Oriente e Mediterraneo

Se l'Europa non vuole rimanere ostaggio del fondamentalismo del nord-ovest deve aprire a sud-est, porsi concretamente come terra di mezzo. Ma la mediazione deve avvenire risalendo alle origini più lontane e profonde delle divisioni contemporanee, e partire dalle tradizioni religiose che, per quanto siano attraversate dai processi di secolarizzazione, non cessano di trasmettere, come sappiamo a partire da Weber, i loro impulsi al di là e attraverso di essi. In coerenza con questo obiettivo la prima operazione da fare è quella di ridurre la linea di frattura su cui è costruito il concetto di cristianesimo occidentale (cosi caro a Samuel Huntington). L'idea di Europa non può essere ricalcata esclusivamente sulla tradizione dei paesi dell'Occidente europeo. Di essa fa parte anche la tradizione dei paesi di cristianesimo orientale, e occorre cessare di pensare che i paesi che ad esso si richiamano siano affetti da qualche morbo speciale. Dire che Dostoevskij, Tolstoj o Tarkovskij non sono parte della cultura europea è una stupidaggine imperdonabile. Quelle che vengono spesso definite critiche alla modernità sono analisi della secolarizzazione che possono essere disarmate del loro estremismo orientale solo comprendendone le ragioni, riconoscendo dove colpiscono nel segno, allorché esprimono una resistenza a quei processi di sradicamento che fabbricano le piste di atterraggio per il dio dei mercati.

È qui che si deve far capire che la coesione sociale può convivere con la libertà, che ci può essere un radicamento democratico, che libertà non significa voltare le spalle agli altri, ma la costruzione di una trama più complessa della solidarietà. Elaborare il rapporto con il proprio Oriente è un grande esercizio spirituale, ma anche un grande esperimento politico per affrontare un ruolo di mediazione. Custodire una tensione è il principale balsamo contro il fondamentalismo, perché solo dal suo lavorio, e dallo sforzo riflessivo a cui esso condanna, può nascere la coesistenza, l'accettazione della pluralità, l'obbligo e il piacere di capire l'altro, la convinzione che da esso si può imparare.

La stessa dinamica deve guidare la costruzione di un nuovo rapporto con il Mediterraneo, laddove ancora più drammatico e difficile sembra oggi uno sforzo di mediazione. In un momento in cui sembra vincere la deriva dei continenti e la distanza tra le due sponde sembra allargarsi è assolutamente necessario ritrovare l'attualità di un brano di Albert Camus: «Ogni volta che una dottrina ha incontrato il bacino mediterraneo, nello choc di idee che ne è derivato è sempre il Mediterraneo che è restato intatto, il paese che ha battuto la dottrina. Il cristianesimo era all'inizio una dottrina commovente, ma chiusa, prima di tutto giudaica, ostile alle concessioni, dura, esclusiva e ammirevole. Dal suo incontro con il Mediterraneo è nata una dottrina nuova: il cattolicesimo. All'insieme di aspirazioni sentimentali dell'inizio si è aggiunta una dottrina filosofica. Il monumento è stato perfezionato e abbellito - si è adattato all'uomo. Grazie al Mediterraneo, il cristianesimo è potuto entrare nel mondo per cominciare la strada miracolosa che sappiamo».

Lo stesso Camus contrappone Francesco («encore un Méditerranéen») e il suo Cantico delle creature a Lutero, che ha tentato «di separare il cristianesimo dal mondo». Il protestantesimo è, prosegue Camus, il «cattolicesimo sradicato dal Mediterraneo e dalla sua influenza ad un tempo nefasta ed esaltante» (11). In altri termini tra due ascesi, quella dei deserti e quella dei registri contabili, il Mediterraneo è mediazione, apertura, comunicazione, rapporto tra culture diverse, apertura alle sapienze contenute in ogni punto cardinale, possibilità di sottrarsi alla deriva fondamentalista e manichea, il vero demonio che tenta ogni ascesi.

Camus ci aiuta quindi ad intendere in che modo quello stesso concetto di cristianesimo occidentale, che spezza in due l'Europa, occulti la differenza cattolica rispetto alla cultura protestante. Ma il cattolicesimo che va liberato da questa soggezione (12) non è quello dei poteri e delle scomuniche, della nostalgia di vecchi interdetti, di un orgoglio identitario in concorrenza e contrapposizione ad altri. Questo cattolicesimo gretto e reattivo, alla ricerca di rivincite, sarebbe un rimedio peggiore del male, perché cadrebbe nella spirale della cattiva infinità dei fondamentalismi. Il cattolicesimo di cui parla Camus è quello che ritrova la sua identità più vera nell'attenzione per gli ultimi e nelle figure lontane dal potere, ma vicine al rischio dell'altro. Perché questa è la mediazione che il Mediterraneo porta inscritta già nel suo nome: non la chiusura nelle trincee identitarie, ma l'arte dell'avvicinamento tra le civiltà. Questo richiamare il cattolicesimo al Mediterraneo è uno strapparlo ai suoi giochi di potere e alle rendite clericali per gettargli in faccia la sfida della pace, per ricordargli che la sua verità è ben poca cosa senza dolcezza, disponibilità, rischio, apertura.

La cultura laica dovrebbe, dal canto suo, in questo quadro in cui tutti sono in movimento, incominciare a muoversi anch'essa, e porsi la domanda cruciale, quella che spesso rimuove, sicura di possedere un accesso automatico all'universale. Essa dovrebbe respingere il sospetto che l'accompagna, quello di essere la semplice eredità secolare di una cosmologia tra le altre, che s'illude presuntuosamente di essere al di sopra di ogni condizionamento, e iniziare un percorso più impegnativo, provare a diventare uno strumento multiculturale, da costruire a più mani, e per questo estremamente prezioso. La necessità di mediare chiede a tutte le culture di dare il meglio di sé, di scegliere la strada del dialogo e della comunicazione, della curiosità per l'altro.

Una cultura laica degna di questo nome, e non stesa all'ombra dell'etno-centrismo dell'Occidente, non si può accontentare di star lì pigramente a dare i voti alle altre culture misurandole secondo il grado d'approssimazione alla propria verità. Essa dovrebbe provare a suscitare in tutte le culture percorsi originali e non mimetici, capaci di allontanare ognuna di esse dall'attrazione fatale del proprio integrismo. Si tratta di un processo molto più vasto e impegnativo della semplice (e spesso violenta) esportazione di sé, perché richiede umiltà, curiosità per l'altro, ricerca, gusto della libertà, tutte cose che chi ritiene di aver conquistato la verità ha smesso da tempo di praticare. Questa cultura laica non etnocentrica, indispensabile e complessa, è solo agli inizi del suo percorso.

In conclusione vorremmo sottolineare ancora una volta la connessione esistente tra il processo di ricostruzione dell'identità europea e il suo nuovo rapporto con il mondo ai suoi confini. Se si separano i due momenti ci s'imbatte in rischi opposti, quello di costruire l'identità senza pensare al carattere costitutivo dell'apertura oppure quello simmetrico di rendere incerta e gracile l'identità.

L'identità europea vive nel cuore dell'Occidente, ma ne declina una versione positiva, che sin dall'inizio si propone il dialogo e la mediazione con le altre tradizioni, che non si limita a tollerarne la differenza, ma è capace, cosa più difficile ed impegnativa, di capirne le ragioni. Siamo di fronte ad un'identità insieme forte ed aperta, ad un soggetto che, senza perdere se stesso, si pone centro di un raccordo, come costruttore di ponti e di relazioni di amicizia, che sin dall'inizio è anche una politica estera. Tale soggetto ricaverà la sua maggior forza più che dal possesso di armi, dall'originalità e dalla qualità del legame che sarà capace di costruire, dalla decostruzione delle ostilità che nascono dalla spirale dei fondamentalismi. Certo, l'Europa deve potersi difendere, ma chi non sa che la corsa agli armamenti è una spirale in cui ogni parte sostiene di essere costretta al riarmo dall'aggressività altrui? La diversità dell'Occidente che l'Europa vuole vivere e proporre sarà misurabile anche sulla base della costruzione di una risposta originale a questo problema: l'in-seguimento mimetico del più forte coinciderebbe con un'avventura fuori tempo, con una perdita della specificità della sua identità (13).

Un nuovo etnocentrismo imperiale, espansivo e concorrenziale rispetto a quello americano, sarebbe il maldestro tentativo di un vecchio di tornare alle virtù guerriere e alla violenza giovanile dell'età del colonialismo. L'Europa ha invece bisogno di tutta la saggezza della sua vecchiaia per capire che questa tentazione la trascinerebbe in un baratro. Nella sua Storia romana Appiano descrive il turbamento di Scipione l'Emiliano di fronte alle rovine di Cartagine, distrutta per suo stesso ordine. Scipione recita i versi dell'Iliade, in cui Ettore presagisce la fine di Troia. E a Polibio che gli chiede il perché di quella citazione, Scipione risponde: «Questo è un momento di gloria, Polibio; eppure sono preso dal timore e dal presentimento che un giorno la stessa sorte toccherà alla mia patria». È questa l'Europa che vorremmo, una terra che non dimentica le stragi che stanno dall'altra parte della gloria e degli imperi e da questa coscienza vuole ripartire.


Note

1. Si sa che il capitalismo ha bisogno di regole per governare i suoi traffici, ma la circostanza che oggi l'attività di controllo sia divenuta sempre più spesso una merce, e che colui che deve essere sottoposto a controllo possa scegliere sul libero mercato il suo controllore, testimonia una situazione del tutto nuova e per molti aspetti patologica. Su alcune preoccupanti mutazioni del capitalismo contemporaneo si veda il libro di Guido Rossi, Il conflitto epidemico, Adelphi, Milano 2003.

2. Antonio Gambino ha osservato giustamente che l'unilateralismo, pur essendo da sempre una tentazione latente nella tradizione politica degli Stati Uniti, è diventato orientamento di governo con Ronald Reagan («il presidente più nazionalista che gli Stati Uniti abbiano avuto nel XX secolo; ovviamente tenendo conto che George W. Bush si colloca nel XXI», A. Gambino, Perché oggi non possiamo non dirci antiamericani. Colloquio con M. Galeazzi, Roma, Editori Riuniti, 2003, p. 37), e in modo particolare con la scelta del riarmo unilaterale e il progetto di costruzione dello «scudo spaziale». Il crollo sovietico, apparso ai sostenitori di tale politica come la conferma della sua bontà, li ha sicuramente convinti che a maggior ragione essa costituisse l'approccio più adeguato in un mondo non più fondato sul bipolarismo.

3. Come si avrà modo di vedere la nostra ricostruzione assegna un peso significativo al «ritorno» delle tradizioni religiose. Questo «ritorno», che testimonia la persistenza, a fronte di una crisi dell'universalismo dell'Occidente, della pluralità delle tradizioni culturali del pianeta, è un problema, ma non necessariamente un pericolo. Tale particolarismo non è insuperabile, ma richiede la costruzione di una sintesi molto più complessa e matura di quella che a lungo l'Occidente ha pensato di poter elaborare da solo.

4. «Il confine più naturale e generalmente riconosciuto è il grande spartiacque storico, che esiste da secoli e divide i popoli dell'Occidente cristiano da quelli musulmani e ortodossi» (S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 1997, p. 228). Per non lasciare dubbi nel lettore circa la rilevanza attuale di questa antica contrapposizione, lo stesso Huntington sente il bisogno di affiancare al testo una cartina, sulla quale sono tracciati i confini orientali della civiltà occidentale (p. 229).

5. La torsione fondamentalista di una tradizione non costituisce, come vorrebbero i suoi sostenitori, la sua versione più pura, ma solo quella più rozza e polemica, che, riducendo la ricchezza delle fonti, la conduce spesso ad esiti paradossali. Questo esito paradossale è osservabile anche nel caso della tradizione protestante, che, laddove scivola verso l'esaltazione del liberismo oggi dominante, finisce per indebolire proprio alcuni suoi principi-cardine di grande rilievo, come la responsabilità personale e il rigore dei controlli (cfr. nota 1).

6. R. Kagan, Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, Milano, Mondadori, 2003.

7. S. Weil, Sul colonialismo. Verso un incontro tra Occidente e Oriente, Milano, Medusa, 2003, pp. 42-55.

8. F. Braudel, Il Mediterraneo. Lo spazio la storia gli uomini le tradizioni, Milano, Bompiani, 1992, p. 118.

9. Per una lunga fase la discussione sull'identità europea (da Gadamer a Morin, a Derrida) si è soffermata sul carattere costitutivamente plurale ed aperto del soggetto in via di costruzione. Noi pensiamo che la discussione possa fare un altro passo avanti e che un tratto unitario dell'identità europea possa essere individuato in questa capacità di mediazione, nell'idea di un «altro Occidente», oggi forse più evidente a seguito dell'incrinatura del rapporto con gli Stati Uniti.

10. J. Brodskij, Fuga da Bisanzio, Milano, Adelphi, 1987, p. 153.

11. A. Camus, La culture indigène La nouvelle culture Méditerranéenne. Cadres de la Conférence inaugurale faite à la Maison de la Culture le 8 février 1937, «Essais», Paris, Gallimard, 1965, p. 1323).

12. Il tentativo più esplicito di omologare in chiave subalterna la tradizione cattolica a quella protestante è quello compiuto da Michael Novak (di cui sono da vedere L'etica cattolica e lo spirito del capitalismo, Milano, Comunità, 1994, e Spezzare le catene della povertà, Macerata, Liberilibri, 2000). Noi riteniamo che un dialogo fruttuoso tra le due tradizioni possa avvenire solo mettendo al bando ogni presunzione di primato e di assimilazione. È fuori discussione che nella tradizione protestante la dimensione della libertà e della responsabilità individuale abbiano uno straordinario risalto. È da vedere come si possa armonizzare la gelosa custodia della libertà con il sermone della montagna e la cura degli ultimi. Una cura ovviamente ben distinta da quella che Dostoevskij rimproverava alla Chiesa di Roma, personificata nella figura del Grande Inquisitore. Questo gioco delicato e prezioso per l'Europa sarà possibile solo con almeno tre giocatori.

13. La mediazione cui pensiamo non è quindi, come vorrebbe Etienne Balibar, una mediazione «evanescente», che farebbe dell'Europa un gigantesco non luogo, il semplice e concavo campo di esercizio per la decostruzione delle frontiere e delle identità. Come abbiamo cercato di argomentare, l'identità europea ha una fisionomia positiva, che sta nella sua capacità di sviluppare una versione della forma di vita occidentale più capace di dialogare con le altre tradizioni, di intenderne le ragioni e far intendere ad esse le proprie. L'impressione che si ricava invece dalla generosa riflessione di Balibar, per molti aspetti parallela alla nostra, è che tutto debba precipitare nella proposta di un nuovo «radicalismo democratico», di una cittadinanza universale, liberata da ogni frontiera e da ogni particolarismo territoriale. Insomma siamo di fronte ad un universalismo finalmente buono, ad un nuovo rimedio universale prodotto dall'Occidente, che si può esportare dovunque, perché ormai emendato del suo fardello particolaristico. Noi pensiamo che il compito della mediazione europea sia più complesso, che non si fondi sull'universale esportazione di un rimedio, ma sulla sollecitazione all'interno delle altre culture, di spinte riflessive e critiche, che lavorino contro la chiusura e il fondamentalismo, a quella cultura laica allargata cui abbiamo prima accennato. Noi tendiamo a diffidare di tutti i rimedi universali, e pensiamo che l'unico universalismo accettabile potrà venire solo da un lavoro paziente e a più mani. Questa preoccupazione non è estranea alla proposta di Balibar, che però ci sembra oscillare costantemente à la Derrida, nelle sue diverse formulazioni, tra un relativismo decostruttivo, che sembra negare la possibilità stessa di un'identità, e l'assoluto di una nuova forma di internazionalismo (E. Balibar, L'Europe, l'Amérique, la guerre. Réflexions sur la médiation européenne, Paris, La Découverte, 2003).

 *(Università di Bari)