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La guerra civile fra Vitellio e Vespasiano

di Francesco Lamendola - 21/08/2007

 

 

 

 

 

 

1.     INVASIONE FLAVIANA DELL’ITALIA.

 

Al momento della loro adesione al movimento flaviano, le legioni danubiane non si trovavano più ad Aquileia, ma erano tornate indietro, nei loro rispettivi quartieri abituali. I loro capi avevano tenuto una conferenza generale a Poetovio in Pannonia, similmente a quanto avevano fatto i generali d’Oriente a Berito, per concordare la condotta strategica da assumere. Molti di essi peroravano la strategia dell’attesa, suggerendo che Muciano stava arrivando da Bisanzio, e che sarebbe stato opportuno attenderlo, per iniziare una guerra con tutte le forze riunite. Facevano notare inoltre che, con Vespasiano padrone dell’Egitto, Vitellio si sarebbe trovato presto in difficoltà, sia per il rifornimento alimentare di Roma e della Penisola, sia per il pagamento del soldo alle truppe. E quale più desiderabile prospettiva, che quella di ridurre il partito nemico alla resa, senza provocare altro spargimento di sangue e senza attirare su Vespasiano l’odiosità di nuove devastazioni belliche in Italia, dopo quelle – crudelissime – della guerra civile fra Otone e Vitellio?

      A questi prudenti consigli, Antonio Primo si oppose risolutamente, sostenuto da uomini altrettanto temerari e spregiudicati, quali Arrio Varo e Cornelio Fusco. Secondo la sua tesi, attendere sarebbe stato più pericoloso che attaccare subito: non lavorava infatti il tempo a favore di Vitellio, almeno quanto non facesse a favore di Vespasiano? Non avrebbe consentito all’avversario di ricevere nuovi, imponenti rinforzi dai paesi transalpini, dalla Spagna, dalla Gallia, dalla Britannia e soprattutto dalla Germania, donde il movimento vitelliano aveva avuto principio? Non esponeva le indifese coste dell’Acaia agli attacchi della poderosa flotta vitelliana? E, infine, non avrebbe dato agio a Cecina e Valente di riorganizzare le loro forze, oggi guaste dall’indisciplina e dai disagi del clima, domani nuovamente formidabili, e anche superiori di numero?

       Queste argomentazioni, esposte con vigore e convinzione, per quanto audaci finirono per strappare il consenso dell’assemblea e, soprattutto, dei soldati, più che mai impazienti di battersi. Di attendere l’arrivo di Muciano non si fece più parola; le cinque legioni danubiane si raccolsero e iniziarono celermente la marcia verso l’Italia. Superarono Emona, valicarono senza trovare ostacoli la catena delle Alpi Giulie, raggiunsero e oltrepassarono Aquileia. Le città venete orientali – Concordia Sagittaria, Opitergium, Altinum – accolsero a braccia aperte e con manifestazioni di giubilo le truppe di Antonio Primo. Valicato il Sile, esse scesero lungo una duplice direttrice d’invasione, la via Popilia e la via Postumia, e sempre senza combattere arrivarono fino a Padova. Ad Ateste, ai piedi dei Colli Euganei, seppero che non lungi di lì tre coorti vitelliane e una unità di cavalleria erano impegnate nella costruzione di un ponte di barche sul fiume Tartaro. Le truppe di Antonio Primo, mossesi velocemente, piombarono sul nemico cogliendolo di sorpresa, e gl’inflissero la perdita di numerosi morti e prigionieri; tuttavia, la loro avanzata subì una sosta forzata perché i vitelliani avevano fatto in tempo ad interrompere il ponte.

      Queste prime operazioni avevano visti impegnati, come al solito, solo reparti scelti delle legioni danubiane, armati alla leggera. Il grosso delle legioni VII “Galbiana” e XIII “Gemina” arrivò a Padova solo dopo il combattimento sul fiume Tartaro e vi si accampò alcuni giorni, per riorganizzarsi dopo la lunga marcia da Poetovio. La sosta, come al solito,venne turbata dagli abituali fenomeni di inisciplina, così caratteristici di questa guerra. Giova inoltre ricordare che l’esercito di Antonio Primo era affiancato da unità ausiliarie di barbari Iazigi, e perfino dal nipote del re dei Quadi e dal figlio del re dei Suebi – arruolati, gli ultimi specialmente, più che altro in pegno di neutralità da parte dei rispettivi popoli, durante la forzata assenza delle legioni dalla frontiera danubiana. Era dunque, l’esercito di Primo, come quelli calati in Italia sotto il comando di Cecina e Valente, un esercito misto, semibarbarico, che non provava alcun sentimento di riverenza o particolare soggezione per le contrade civilissime della Penisola, in cui stava avanzando. Gli stessi legionari che lo componevano, in conseguenza del fatto che gli eserciti limitanei del I secolo cominciavano a trasformarsi in vere armate stanziali, dovevano presentare un aspetto ben poco “romano” nel senso tradizionale della parola. Il loro successivo comportamento a Cremona e, poi, nella stessa Roma, fa fede del  basso livello di  “romanizzazione” di queste truppe, fra le quali l’elemento italico doveva essere rappresentato in ben modesta misura. Anche questa volta, dunque, l’ingresso di un esercito in armi nella Penisola dovette assumere i caratteri di una vera e propria invasione barbarica, e fu solo la circostanza che tra Aquileia e Verona la popolazione si mostrasse favorevole a Vespasiano che ritardò lo scoppio delle solite atrocità. Ma oltre Verona gli invasori gettarono la maschera e mostrarono il loro vero volto di brutali saccheggiatori, interessati più a sfogare il loro risentimento di provinciali e di semibarbari contro le ricche contrade italiche, che a combattere per un preciso ideale politico.

      La conquista della regione veneta occidentale fu completata dai flaviani con un ulteriore balzo fino a Vicenza e a Verona, patria di Cecina la prima, ottima base d’operazioni e piazzaforte di prim’ordine la seconda, non solo per il controllo della via Postumia, ma anche per sbarrare la valle dell’Adige, da cui potevano eventualmente scendere in Italia rinforzi dalle Germanie per il nemico. Fino a questo punto il grosso delle forze vitelliane non era minimamente intervenuto per contrastare l’ingresso di Antonio Primo e la serie dei suoi successi nella Venezia. Per esse, come già per le forze di Otone sette mesi prima, era adesso di vitale importanza mantenere almeno la linea del fiume Po, ben guardata da alcune robuste fortezze, e dalla quale era possibile muovere al contrattacco contro le forze  nemiche, tuttora inferiori.

      La situazione era, dunque, la seguente. Presso Verona stava accampato Antonio Primo con tre sole legioni al completo: la VII “Galbiana”, la XIII “Gemina” e la VII “Claudiana”, or ora arrivata. L’esercito vitelliano, assente tuttora Fabio Valente, era diviso in due tronconi: uno, a Cremona, forte delle legioni I “Italica” e XXI “Rapax” e alcune ali di cavalleria; l’altro nei pressi di Ostiglia, in un campo costruito nelle vicinanze del Foro Alieno, comandato da Cecina in persona e costituito da tutte le altre forze giunte da Roma.

      Vi fu una scaramuccia iniziale; dall’una e dall’altra parte il morale era molto elevato, perché i legionari germanici, attaccatissimi a Vitellio, orgogliosi della propria fama e  al corrente dell’inferiorità numerica degli avversari, non erano certo meno ottimisti dei flaviani circa l’esito finale della lotta. Quesi ultimi poi, proprio in presenza del nemico, si abbandonavano ogni giorno di più all’indisciplina e all’anarchia. Le campagne tutto intorno erano terrorizzate dal comportamento sfrenato delle legioni danubiane, e  lo stesso accampamento era sconvolto da continue agitazioni. Un giorno lo stesso Antonio Primo dovette sguainare la spada per impedire il linciaggio di Tampio Flaviano, uno dei capi flaviani, sospettato dai soldati di intesa col nemico; e, per un istante, ci fu da temere che venisse ucciso. Comunque, alla fine, sia Flaviano sia il legato Aponio Saturnino dovettero fuggire sotto minaccia di morte delle truppe, e questo, indirettamente, favorì la posizione di Primo, che si ritrovò comandante unico e indiscusso. Egli immediatamente avviò delle trattative con Cecina, invitandolo a desistere dalla lotta e a fermare le proprie truppe, e presentandogli la causa di Vespasiano come inevitabilmente vittoriosa.

      Tali approcci trovarono ottima accoglienza da parte del generale vitelliano. Già prima di uscir da Roma egli aveva avuto dei segreti abboccamenti con il prefetto Sabino, fratello di Vespasiano; inoltre nutriva una malcelata invidia nei confronti di Valente. Resta solo da aggiungere che, prima di raggiungere l’esercito sul Po (al quale aveva falsamente detto di assumere, d’accordo con Valente, l’intero comando) aveva compiuto una sosta poco chiara a Ravenna. Colà pare si fosse incontrato con Lucilio Basso, prefetto d’ entrambe le flotte di Ravenna e di Miseno, il quale – come lui – nutriva sospetti e ingiustificati risentimenti nei confronti dell’imperatore. L’oggetto dei loro colloqui segreti può solo essere oggetto di ipotesi; sta di fatto che poco dopo vi fu una insurrezione tra i marinai della flotta, che giurarono fedeltà a Vespasiano e rovesciarono le immagini di Vitellio e poi, in mezzo a una spaventosa confusione, condussero le navi nel porto di Adria.

      La notizia dell’ammutinamento della flotta ravennate giunse a Cecina mentre si trovava nel campo di Foro Alieno, in faccia al nemico. Senza por tempo in mezzo, egli decise di giocare il tutto per tutto:  raccolti i centurioni, disse loro che la causa di Vitellio era perduta; che, dopo la defezione della flotta, essi rischiavano di restar privi di vettovaglie, e concluse facendo rovesciare le effigi dell’imperatore e invitandoli a passare, con lui, dalla parte di Vespasiano. Ma il traditore aveva fatto male i propri calcoli. Quando la notizia  si sparse per il campo, i soldati inferociti insorsero contro di lui, lo misero in catene e decisero che mai avrebbero abbandonato la lotta così vergognosamente. Essi erano sinceramente affezionati a Vitellio; inoltre non si sentivano affatto battuti e non avevano alcuna intenzione di cedere le armi a un nemico inferiore di numero, e che per di più disprezzavano. Si scelsero quindi due nuovi comandanti, purtroppo in nulla simili a Cecina o Valente in quanto ad abilità strategica; rialzarono le statue di Vitellio e, massacrati alcuni disgraziati marinai, capitati lì per caso e ignari del tradimento della flotta, levarono il campo dirigendosi su Cremona.

      Era loro intenzione ricongiungersi con le altre due agguerrite legioni colà accampate e col resto della cavalleria, e dare quindi battaglia al nemico incautamente avanzatosi fin là. Ma Antonio Primo fu subito informato dei loro movimenti e, a sua volta, si mise in marcia a tappe forzate, per tagliare la strada al primo esercito vitelliano, e impedirgli il congiungimento col secondo. Ne nacque la famosa “corsa su Cremona”, che i flaviani – più ordinati e veloci – vinsero, superando la distanza fra Verona e Bedriaco in soli due giorni, e venendo a cadere sulla Postumia, proprio davanti alla colonna nemica (fine ottobre del 69).

 

 

2. LA SECONDA BATTAGLIA DI BEDRIACO.

 

      Un caso singolare volle che le sorti della guerra fra Vitellio e Vespasiano fossero decise sul medesimo campo di battaglia che aveva visto lo scontro risolutivo fra Vitellio e Otone. Il mattino del 27 ottobre gli esploratori di Antonio Primo riferirono al loro comandante che l’esercito vitelliano di Cremona era in marcia e si stava avvicinando. Poichè l’avanguardia nemica era descritta come debole e avanzava palesemente senza sospetti, l’audace Arrio Varo con la cavalleria volle attaccarla senza nemmeno attendere l’autorizzazione di Primo. Com’era da immaginarsi, i vitelliani, colti di sorpresa, dapprima si sbandarono, ma la cavalleria flaviana spintasi troppo avanti andò a incappare nel grosso della formazione nemica, e fu volta essa stessa in fuga precipitosa. Così la battaglia, iniziatasi sfavorevolmente per i flaviani a causa della sconsideratezza di Varo, stava già per trasformarsi in una catastrofe, poiché la cavalleria in preda al panico, rifluendo in disordine, fu sul punto di scompaginare completamente le legioni che tenevano dietro. Come se non bastasse, mentre i vitelliani procedevano per la Postumia in formazione compatta, le truppe danubiane si trovavano ancora sparpagliate in una vasta zona all’intorno, moltre di esse impegnate in un disordinato saccheggio della regione.

      Fu allora che balzò in evidenza Antonio Primo con tutto il suo sangue freddo e la sua temerarietà. Mandate delle staffette a richiamare i reparti dispersi, si gettò nel folto della mischia, rianimando con l’esempio le truppe vacillanti, arrestando a mano armata i fuggiaschi, richiamandoli e impugnando personalmente un vessillo, dopo aver abbattuto il portinsegna che stava fuggendo. Il suo comportamento intrepido infuse nuovo coraggio tra i soldati, che serrarono le file e tornarono in linea con rinnovato ardore. I vitelliani, che ormai si stavano disunendo nella certezza della vittoria, non seppero resistere al contrattacco, e furono volti completamente in fuga.

      Non vi fu però il tempo di sfruttare a fondo il successo, perché subito dopo, a quattro miglia da Cremona, i flaviani videro sopraggiungere le due legioni I “Italica” e XXI “Rapax” che avanzavano sulla Postumia in perfetto ordine di battaglia. Fu un momento critico: ma i flaviani, per nulla intimoriti, si raccolsero nuovamente e piombarono con tutto lo slancio della vittoria sui sopraggiunti. I vitelliani, che erano usciti dalla città dopo le prime notizie sullo scontro di cavalleria a loro favorevole, rimasero sgomenti per quell’attacco violentissimo e si trovarono stretti tra la fanteria di fronte e la cavalleria sul fianco. Infine, l’intervento degli ausiliari della Mesia diede loro il colpo decisivo, e li volse disordinatamente in fuga verso Cremona.

      Antonio Primo aveva dunque già sostenuto due duri combattimenti nel giro di poche ore ed era uscito vittorioso da entrambi, però con l’esercito spossato e in vicinanza dell’accampamento nemico, ben protetto e appoggiato alle robuste mura di Cremona. I suoi soldati, come al solito, nonostante la stanchezza erano desiderosi di proseguire l’attacco e si illudevano di poter conquistare di slancio non solo il campo vitelliano ma la città stessa, e Primo dovette faticare non poco per trattenerli da quella nuova, sconsiderata audacia.

      Fu proprio allora, quando già cominciavano ad allungarsi le ombre della sera, che sopraggiunse l’intero esercito vitelliano ch’era stato al comando di Cecina. Marciando a sud del Po, si era portato da Foro Alieno a Ostiglia e fin quasi a Cremona, coprendo cento miglia in quattro giorni. Entrambi gli eserciti erano stremati: l’uno per la battaglia, l’altro per la marcia; eppure non esitarono a gettarsi l’un contro l’altro con furia selvaggia. Il vantaggio del numero era dalla parte dei vitelliani: sei legioni al completo contro cinque, senza contare la I “Italica” e la XXI “Rapax” che s’erano ritirate a Cremona; ma ad essi difettava un comando unificato ed energico, mentre i flaviani erano condotti con ardimento eccezionale da Antonio Primo. Questi era stato informato del sopraggiungere dell’armata nemica solo all’ultimo momento, in tempo tuttavia per impartire le disposizioni per la nuova battaglia: fu una vera fortuna che, con la sua autorità, fosse riuscito a dissuadere i soldati dall’assalto del campo nemico, poiché in tal caso difficilmente, presi tra due fuochi, avrebbero potuto adesso evitare una disfatta. E fu del pari una fortuna che l’esercito di Ostiglia fosse giunto sul posto soltanto a sera: appena qualche ora prima, avrebbe certamente rovesciato le sorti della lotta davanti a Cremona. I soldati vitelliani che lo comandavano, informati della sconfitta toccata ai loro commilitoni, intendevano far pernottare l’esercito nerll’accampamento sotto la città, e attaccare battaglia l’indomani, con forze fresche e riposate. Ma quando, nell’oscurità crescente, i due eserciti avversari entrarono accidentalmente in contatto, essi mutarono i propri piani e ordinarono l’attacco generale.

      Ancora una volta, in questa guerra civile venivano trascurate le più elementari regole della tattica, puntando invece entrambi gli eserciti sull’entusiasmo delle truppe, sempre impazienti di battersi. I vitelliani, del resto, s’illudevano di poter facilmente avere la meglio su di un nemico meno numeroso e anche più stanco di loro; ma presto si accorsero di aver commesso un grave errore di calcolo.

      Dalle nove di sera del 27 al mattino del 28 ottobre si combattè senza tregua, con violenza inaudita, sui due lati della via Postumia. Era lo stesso terreno della battaglia di aprile, fitto di vigneti, intersecato da fossi e canali, disseminato di alberi da frutto e di siepi, reso ancor più surreale dall’oscurità della notte, ove era necessario scambiarsi la parola d’ordine per non colpire gli amici. Gli ausiliari barbari dell’una e dell’altra parte combatterono in prima fila, e con le loro pelli ferine e con le aste lunghissime conferivano un aspetto ancor più selvaggio alla scena.

      Nella enorme confusione della battaglia notturna cominciò a delinearsi un certo vantaggio per i vitelliani. Una gigantesca balista apriva dei vuoti paurosi tra le file dei flaviani e più tremendi ne avrebbe fatti, se alcuni coraggiosi non l’avessero assalita e messa fuori uso a prezzo della vita. Finalmente spuntò la luna su quel tragico scenario, e la sua luce spettrale rinnovò la mischia con raddoppiato furore: ma il favore, questa volta, era dalla parte dei flaviani, perché la luce lunare, cadendo alle loro spalle, illuminava in pieno i vitelliani, mentre lasciava i loro avversari nel seno di una complice oscurità. Tuttavia le sorti della battaglia erano ancora sospese e, forse, i flaviani non sarebbero mai riusciti a spuntarla se, al sorgere del sole, i soldati della III legione “Gallica” non avessero salutato, secondo l’uso siriaco, la comparsa dell’astro. Il clamore rivolto a oriente fece nascere la voce, subito alimentata dall’astutissimo Primo, che l’esercito di Muciano stava sopraggiungendo. Questa semplice diceria bastò a decidere le sorti della giornata, riaccendendo un’estrema scintilla di vigore negli esausti flaviani e gettando il panico tra i loro nemici. I vitelliani tuttavia non cedettero di schianto, ma durante la notte il loro fronte si era enormemente allungato, sì che adesso non disponevano di riserve con cui manovrare in profondità, e, per giunta, le loro retrovie erano ingombre di carri e veicoli abbandonati alla rinfusa. Primo rinnovò allora l’attacco con forze concentrate, riuscì a sfondare la debole linea nemica e avanzò oltre velocemente, prima che i vitelliani riuscissero a ricostituirla.

      Allora fu la rotta; una rotta così tragica e caotica, che vi si videro delle scene raccapriccianti. Un soldato della VII legione colpì a morte il proprio padre, che militava nella XXI “Rapax” e poi, riconosciutolo, gli si gettò sopra piangendo e invocando gli dèi. Infine l’intero esercito vitelliano, o ciò che di esso restava, trovò un momentaneo rifugio nell’accampamento fortificato davanti a Cremona.

 

 

3.LA DISTRUZIONE DI CREMONA.

 

      In quel momento le sorti delle truppe flaviane si trovavano paurosamente sospese come su un filo di rasoio. Infatti, nonostante le tre vittorie consecutive, esse avevano ora di fronte le poderose fortificazioni di Cremona ed erano oltre modo spossate dalle marce, dai combattimenti e dalla mancanza di cibo e di riposo. Davanti c'erano i vitelliani, vinti ma non disfatti, solidamente trincerati e decisi ad una resistenza ad oltranza; dietro, l'aperta campagna, senza valli ove ristorarsi e senza difese ove proteggersi. Se si decideva di sospendere la lotta per far riposare le truppe e tornare all'attacco con forze fresche, sarebbe stato necessario tornare indietro fino a Bedriaco, dando modo al nemico di riorganizzarsi e sprecando, così, i principali frutti della vittoria. Le truppe erano esauste, eppure chiedevano di battersi nuovamente; del resto, non erano esausti anche i vitelliani?

      Fu così che, al mattino del 28 ottobre, Antonio Primo accondiscese a proseguire l'azione senza concedersi alcuna sosta, e condusse le sue cinque legioni in un assalto concentrico contro l'accampamento nemico. Era un'altra pazzia; ma ormai, giunti a quel punto, dopo aver vinto grazie a una serie di follie tattiche, tanto valeva giocare la carta dell'audacia sino in fondo. Si riaccese una lotta furibonda sulle palizzate del vallo; i vitelliani, battendosi con la forza della disperazione, erano già sul punto di stroncare quell'attacco sconsiderato, quando i capi flaviani - per farla finita una volta per tutte e infondere un'ultima scintilla di energia nei soldati - additarono loro la città di Cremona, promettendo libertà di saccheggio. Tanto bastò perché i legionari pannonici e mesii e le truppe ausiliarie si slanciassero con impeto rinnovato contro le opere difensive, le sbrecciassero, le oltrepassassero menando strage. Travolti gli ultimi difensori, i flaviani arrivarono così, di slancio, fin sotto le mura dellà città.

      Qualunque altro comandante, in condizioni normali, non avrebbe certo osato assalire una città fortificata senza disporre di macchine da guerra e con truppe ormai tanto provate: ma Antonio Primo, da quel giocatore d'azzardo che era, proseguì l'azione a dispetto di tutto. Ed ebbe fortuna! I flaviani avanzarono contro le mura in formazione a testuggine, proteggendosi solamente con la barriera degli scudi e incuranti dei proiettili d'ogni genere che piovevano loro addosso. Non disponevano né di torri d'assedio, né di baliste o catapulte, e forse nemmeno di arieti dalla punta di ferro. Fu semplicemente un attacco alla disperata, imposto - senza alcun piano preciso - dalla furia incontenibile dei soldati e dalla loro brama di saccheggio.

      Dall'alto delle mura di Cremona si difenevano strenuamene sia i soldati vitelliani, sia la popolazione cittadina e la numerosa folla cosmopolita affluitavi colà per la fiera, e rimastavi bloccata con le merci e i denari dal furore della guerra civile. Allora Antonio Primo, contando più che altro sulla stanchezza e sulla sfiducia crescente dei difensori, ricorse a un estremo espediente. Fatte portare delle fiaccole, ordinò di appiccare il fuoco alle magnifiche ville patrizie, sparse per la campagna subito fuori delle mura.

      Quello spettacolo diede il colpo di grazia al già vacillante morale dei Cremonesi. Cecina, il traditore, fu sciolto dalle catene dai suoi stessi soldati, che lo supplicarono adesso di intercedere per loro presso il nemico vittorioso. Era uno spettacolo penoso, scrive Tacito, vedere quei valorosi umiliarsi così dinanzi a colui che li aveva traditi, e che era stato la causa principale della loro disfatta. Rami d'ulivo e bende vennero sventolati dai bastioni della città: e così Cremona - le mura ancora intatte, una guarnigione numerosa e bene armata - si diede senza colpo ferire nelle mani di un nemico, che mai sarebbe riuscito a conquistarla di slancio, ma solo dopo un lungo e difficile assedio.

      Quello che seguì allora fu una vergogna senza nome, una infamia che mai sarebbe stata cancellata dagli annali delle legioni. Mentre Antonio Primo riusciva a stento a salvare la popolazione da un massacro generale, i suoi soldati - senza più curarsi di ordine né di disciplina - si gettarono al saccheggio indiscriminato. Quattro giorni durò l'obbrobrio: quattro giorni interminabili, eterni, che videro flaviani e vitelliani, vincitori e vinti, alleati di un momento nella devastazione della città. Particolarmente inaspriti dal ricordo dell'umiliazione inflitta, proprio a Cremona, ai reduci otoniani della prima battaglia di Bedriaco, i legionari del Danubio frugarono casa per casa alla ricerca delle ricchezze nascoste, torturarono gli abitanti, violentarono le donne, incendiarono tutto quel che non poterono portar via, compresi gli edifici pubblici ed i templi. Gli ausiliari barbari sfogavano il loro odio nativo contro la civiltà romana con ferocia non minore di quella dimostrata dai loro antenati Cimbri e Teutoni al tempo di Caio Mario. E i legionatri gallici e illirici, rozzi contadini reclutati tra le frange più misere della popolazione, con gioia selvaggia derubavano, percuotevano e assassinavano i patrizi, gli ottimati: rappresentanti di quella civiltà urbana che, ai loro occhi, era sempre vissuta a spese del mondo rurale e proletario. Si ebbe insomma un primo saggio di quegli odii sociali che, scoppiati nuovamente alla scomparsa della dinastia antonina e poi, di nuovo - per cinquant'anni - alla scomparsa di quella severiana, provocheranno la grande trasformazione sociale del mondo antico, attraverso l'anarchia del III secolo. Che la ferocia sfogata dai soldati-contadini e dai barbari arruolati nell'esercito romano contro la borghesia commerciale di Cremona non fosse un episodio isolato, del resto, è provato dal comportamento che terranno quelle medesime truppe nella presa di Roma, sette settimane più tardi.

      Quando Tacito afferma che, nell'inferno di Cremona, si scatenò un esercito "ch'era un mosaico di lingue e di costumi", non fa che sottolineare il carattere "straniero", rurale, semibarbarico di quell'orda devastatrice. Se la civiltà greco-romana fu essenzialmente un fenomeno urbano, è certo che negli eserciti contadini non italici, dalla metà del I secolo in poi, si manifestò la doppia tendenza rivoluzionaria - anti-cittadina in campo economico-sociale, e larvatamente anti-romana in campo politico-culturale, originata dalla mancata assimilazione del mondo rurale transalpino, specialmente celtico e germanico - e, in una certa misura, perfino di quello italico. E così come la crisi del 68-69 significò la fine del predominio politico dell'alta aristocrazia romana e l'avvento di una nuova dinastia, di origini borghesi e italiche, ma non urbane, essa segnò pure il definitivo tramonto della base tradizionale della forza militare dello Stato romano, le milizie di origine italica e, particolarmente, dei pretoriani, per spalancare le porte della scena politica agli eserciti provinciali, quali campioni dei ceti contadini extra-italici, finora sottoposti a una politica di tipo semi-coloniale a esclusivo vantaggio dell'Italia e di Roma.

       Quando i quarantamila soldati flaviani, finalmente sazi di rapina, si lasciarono alle spalle l'infelice città di Cremona, essa non era ridotta che a un cumulo di rovine fumanti. La distruzione fu così totale che solo un tempio dedicato alle dèa Mefite rimase in piedi in mezzo all'universale rovina, fatto tanto eccezionale da passare alla memoria dei contemporanei. Uno dei primi provvedimenti di Vespasiano, rimasto vittorioso  al termine della guerra civile, sarà proprio quello di far ricostruire la sventurata città padana,  sia come gesto pratico di riparazione, sia come atto simbolico di riconciliazione nazionale destinato a cancellare, per quanto possibile, anche il ricordo di vicende tanto tragiche e vergognose.

 

 

4. DA CREMONA A NARNI.

 

      Dopo la battaglia presso Bedriaco e la presa di Cremona, la situazione di Vitellio si fece, quasi di colpo, disperata. È pur vero che - da un punto di vista strettamente militare - la sconfitta non appariva in alcun modo irreparabile. Vitellio disponeva ancora delle sedici coorti pretorie e delle quattro urbane, di alcune unità di cavalleria e di una nuova legione di marinai di recentissima formazione, la II "Adiutrix", dunque di forze almeno equivalenti a quelle che aveva schierato Otone, a suo tempo, in difesa dell'Italia. Tali forze erano certamente sufficienti per organizzare una linea difensiva e, forse - come ha osservato taluno studioso moderno - anche bastanti per organizzare una controffensiva a raggio limitato. Inoltre, se è vero che  l'imperatore aveva perso, con Cecina, uno dei suoi migliori generali, gli restava pur sempre Fabio Valente, il quale oltretutto godeva di una notevole popolarità fra le truppe.

      Ma il fatto è che Vitellio, in quel difficile frangente, si dimostrò assolutamente impari alle circostanze. Il primo suono di campane a morto fu recato dalla notizia che la flotta di Ravennna era passata al nemico. La notizia raggiunse Vitellio mentre si trovava d Ariccia, presso il tempio di Diana, e lo scosse al punto da indurlo a rientrare immediatamente nella capitale, da cui non sarebbe più uscito tranne che per una timida puntata all'esterno, come vedremo, quando ormai era tardi. Fabio Valente, rimessosi dalla malattia, era partito finalmente da Roma - sotto le pressanti insistenze di Vitellio - per raggiungere l'esercito, che lo aveva preceduto sulla via di Cremona. La sua marcia, macchiata da soprusi e violenze, e accompagnata da un codazzo di concubine e parassiti, pareva preannunciare il crepuscolo di un regime brutale e corrotto. Attardatosi in tal modo lungo la Flaminia, Valente seppe della defezione della flotta adriatica assai prima di giungere a Ravenna, e, arrestatosi, mandò dei messi  a Roma per informare Vitellio e per sollecitare l'invio immediato di rinforzi.

      L'imperatore gli mandò tre coorti e un po' di cavalleria, che Valente utilizzò in gran parte per coprire Rimini da possibili minacce delle navi di Lucilio Basso, ma non tentò neppure di aprirsi la via verso il settentrione. Indi, dopo qualche indecisione, piegò verso l'Umbria e passò in Etruria, procedendo solo con un piccolo seguito. La notizia del tradimento di Cecina e della disfatta di Cremona raggiunse Valente in Etruria, e Vitellio a Roma. Il primo si affrettò, allora, verso il porto di Pisa, con l'intenzione di imbarcarsi per la Gallia Narbonense e procedere, poi, a una nuova leva di truppe in Germania; il secondo, per diversi giorni, non fece assolutamente nulla, limitandosi a proibire tassativamente che si parlasse in pubblico del disastro.

      Sulla capitale di un regno vacillante piombò, allora, un silenzio irreale: proibito anche solo ricordare che esisteva una guerra, parve alla fine che Vitellio finisse per rassicurarsi - come se il pericolo, per il fatto di venire passato sotto silenzio, avesse anche cessato di esistere. E si arrivò a un  tal punto che, quando un centurione recò all'imperatore i dettagli del disastro di Cremona, non venne creduto, e dovette uccidersi di propria mano per far capire a queglli irresponsabili la verità di cui era latore.

     Il comportamento di Vitellio, in          quei giorni di novembre, fu un misto sconcertante di torpore, rabbia e paura. I suoi banchetti continuavano come sempre, ma parecchi degli esponenti più in vista della classe senatoria, sospettati di parteggiare per Vespasiano, vennero mandati a morte e i loro beni furono confiscati. Pupilio Sabino, il prefetto del Pretorio sostenuto da Cecina, venne naturalmente rimosso e imprigionato. Per il resto, nonostante che le truppe e gli strati più bassi della popolazione fossero sempre dalla sua parte, Vitellio fece ben poco. Sfortunatamente per lui, proprio in quei giorni fu colpito seriamente da una malattia e dalla perdita della vecchia e saggia madre, venuta meno in buon punto perché le fosse risparmiato l'epilogo sanguinoso di quella avventura imperiale. Le uniche concrete disposizioni che diede, furono quelle relative all'occupazione  dei valichi dell'Appennino da parte di alcune coorti pretorie - essendo divenuta indifendibile, per la sconfitta di Cremona e la diserzione della flotta, la linea del Po. La stagione invernale si avvicinava ed egli, forse, cullava l'illusione di poter tenere a bada le forze di Antonio Primo, con l'aiuto del terreno montuoso e dell'inverno, almeno fino a quando Valente fosse stato in grado di tornare alla riscossa con un secondo esercito germanico per la via delle Alpi, la stessa percorsa vittoriosamente un anno prima.

      Tuttavia, se le maggiori speranze di Vitellio riposavano ormai sull'audace ma disperato piano di Valente, esse erano destinate a naufragare nel più misero dei modi. Salpato dal Porto Pisano, dapprima Valente era era sbarcato tra Monaco e Nizza, ove il procuratore delle Alpi Marittime, Mario Maturo, lo aveva ammonito circa la pericolosità di proseguire il viaggio da solo e in mezzo ai continui voltafaccia dei governatori locali, ansiosi di abbandonare la causa di Vitellio prima che fosse troppo tardi. A Fréjus, infatti, il procuratore della Gallia Narbonense, Valerio Paolino, si era già dichiarato per Vespasiano e stava armando i provinciali. Valente allora, rinunciando all'idea di spingersi all'interno, riprese il mare, ma fu gettato dalla burrasca sulle Isole Stècadi, al largo di Marsiglia. Quivi cadde in potere delle navi nemiche e fu da Paolino spedito in Italia, ad Antonio Primo, che lo fece giustiziare nel carcere di Urbino poco tempo dopo. Nessun aiuto alla causa di Vitellio, dunque, sarebbe mai più giunto dalle province renane; e questo rendeva la sua fine solamente una questione di tempo.

      Dopo aver forzato la linea del Po, le legioni danubiane si erano spinte fino alla radice dell'Appennino, fiancheggiate dalla flotta ravennate, che operava efficacemente lungo la costa.  Né Muciano, né Vespasiano erano adesso desiderosi  che Primo avanzasse troppo rapidamente verso Roma. Vespasiano era stato raggiunto dalla notizia della battaglia di Cremona mentre si trovava ad Alessandria d'Egitto e stava interrogando la divinità nel tempio di Serapide circa l'esito della guerra. Muciano, invece, era stato ulteriormente ritardato nella sua marcia verso l'Italia da un improvviso attacco dei Daci, che avevano attraversato il basso Danubio profittando della guerra civile in corso, e che lo aveva costretto a distogliere una legione per fronteggiarlo.  L'attacco venne respinto abbastanza facilmente, ma Muciano aveva così perduto dell'altro tempo prezioso, ed era sempre più inquieto all'idea che Primo potesse spingersi fino a Roma senza fermarsi ad attenderlo. La tragica sorte di Cremona, i cui abitanti erano stati tratti schiavi come un gregge dalle soldatesche scatenate, non solo aveva atterrito le popolazioni italiche e spento ogni velleità di resistenza, ma aveva vivamente impressionato tanto Vespasiano che Muciano, i quali erano ben più attenti di Primo alle implicazioni politiche di un tal modo di condurre la campagna.

      Essi si trovavano ora in un crudele imbarazzo: da un lato, non osavano ordinare esplicitamente a Primo di fermarsi, perché sapevano che le nevi avrebbero tra poco bloccato i passi dell'Appennino e, se egli non li avesse superati al più presto, sarebbe stato necessario rimandare di un altro anno la conclusione della guera; dall'altro, cominciavano a diffidare delle sue segrete ambizioni, e desideravano assolutamente evitare che egli si spingesse fino all'Urbe e vi entrasse con la forza. Infatti, essi erano più che mai preoccupati per la brutalità dei metodi impiegati dalle truppe di Primo a danno della popolazione, e avevano ragione di temere che episodi come quello di Cremona gettassero una luce sinistra sugli inizi del principato di Vespasiano, che ambiva a presentarsi invece quale restauratore della pace, dell'ordine e del diritto - un po' come Augusto, dopo la vittoria su Marco Antonio.

      Le missive equivoche e titubanti che gli giungevano dai suoi superiori non ebbero alcun effetto sulla determinazione di Antonio Primo di spingersi avanti quanto più velocemente possibile, e con un nuovo balzo si portò sino a Fanum, all'imbocco della via Flaminia. Da lì, mandò in avanscoperta alcuni reparti di cavalleria, per esplorare il territorio e saggiare lo spirito combattivo del nemico. Vitellio, come si è detto, aveva schierato le coorti pretorie e la II legione "Adiutrix" a difesa dei valichi dell'Appennino, e, quando seppe che l'esercito flaviano si avvicinava, per rialzare il morale dei propri soldati uscì da Roma e si recò al campo di Mevania, sempre sulla Flaminia. Qui lo raggiunse la notizia che la flotta di Miseno, cioè del Tirreno, aveva seguito l'esempio di quella ravennate, ed era passata al partito di Vespasiano. Allora si lasciò travolgere dal panico, lasciò senza ordini e senza capi i suoi bravi soldati, che ancora credevano in lui ed erano disposti a combattere strenuamente, e rientrò a precipizio nella capitale. Colà distaccò una delle coorti urbane e un contingente di gladiatori, li pose al comando di Claudio Giuliano, ex comandante della flotta di Miseno, e li spedì contro i marinai che si erano ribellati. Ma non appena Giuliano raggiunse le forze che avrebbe dovuto combattere, si pronunciò invece per Vespasiano, unì ad esse le proprie truppe, e si attestò a Terracina.

      Vitellio, che forse era tornato al fronte per confortare con la propria presenza le truppe sempre più demoralizzate, ripiegò da Mevania fino a Narni, ove lasciò i due prefetti del pretorio, e ritornò ancora una volta a Roma. Quivi affidò a suo fratello Lucio un esercito di ben sei coorti e cinquecento cavalieri per condurre una decisa offensiva contro i ribelli di Terracina. Mentre egli disperdeva così le sue magre forze in una operazione secondaria e non urgente, l'esercito di Antonio Primo, avanzando con circospezione, trovò i passi dell'Appennino insperatamente sgombri di difensori e, avendo come soli avversari il freddo e la neve, li valicò in massa, scendendo nelle valli dell'Umbria e attestandosi davanti all'esercito vitelliano che difendeva Narni. Così, senza lotta, cadeva il maggiore ostacolo per i flaviani sulla via di Roma, e insorgevano contemporaneamente le popolazioni dei Sanniti, dei Marsi e dei Peligni, schierandosi al fianco del probabile vincitore. In Campania parecchie città e contrade - la grande Pozzuoli, prima tra esse - si univano ai marinai della flotta di Miseno e alle truppe di Giuliano. E in Spagna e in Gallia i vari governatori provinciali e comandanti militari, appresa la disfatta vitelliana di Cremona e l'avanzata di Antonio Primo nel cuore dell'Italia, uno dopo l'altro passavano dalla parte dei flaviani vittoriosi.

      Così, tra la fine di novembre e i primi di dicembre del 69, di tutto il vasto dominio di Vitellio non restava più - come il relitto di un grande naufragio - che l'angusta sezione della Penisola compresa fra Narni a settentrione, Terracina a mezzogiorno, il Tirreno a occidente e i monti della Sabina a oriente. E anche quel relitto continuava a sprofondare, lentamente ma inesorabilmente, giorno dopo giorno.

 

 

5. SITUAZIONE POLITICA A ROMA.

 

      Che la situazione fosse disperata, in Roma lo si poteva ormai arguire da numerosi segnali, nonostante la ferrea censura imposta sulle notizie dal fronte, e il terrore che induceva la maggior parte dei senatori a parlare in pubblico il meno possibile.

      Quando Vitellio, su richiesta dei soldati, s'era recato a Mevania, proprio come Otone nel marzo precedente, una parte del Senato era uscita con lui dalla capitale, ma il ritorno precipitoso dell'imperatore nella capitale aveva lasciato capire anche ai più ciechi che l'ora della fine si stava avvicinando. Un sintomo evidente di questa consapevolezza si aveva nelle riunioni del Senato, ove molto si tuonava all'indirizzo di traditori come Cecina, ma non si faceva mai ad alta voce il nome di Vespasiano. Da parte sua, Vitellio moltiplicava le sue prodigalità nei confronti dei soldati e della plebe e procedeva alla leva in massa fra il popolo, armando perfino gli schiavi e i gladiatori per rimpiazzare le agguerrite coorti cedute a Lucio Vitellio, e preparandosi all'estrema difesa della capitale.

      Tuttavia è difficile dire fino a che punto queste iniziative partissero da Vitellio, che ci viene descritto dalle fonti storiche antiche come totalmente rassegnato e incapace di agire, anzi perfino dimentico d'essere imperatore, se altri non glie lo avessero rammentato. Questa, naturalmente, è una vera esagerazione, perché proprio in quei giorni egli si decise ad assumere ufficialmente il titolo di Cesare, che in gennaio, a Colonia, aveva detto di rifiutare per sempre. Probabilmente Vitellio, come aveva fatto il suo idolo Nerone in circostanze altrettanto sfortunate,  da quel debole che era, passava da un estremo di abbattimento a un soprassalto di fiducia immotivata, incoraggiata, quest'ultima, dal contegno bellicoso dei pretoriani e del popolino, e dalle inutili piaggerie di qualche ministro di corte. Ma che la partita fosse ormai perduta, egli stesso doveva intuirlo sempre più chiaramente, se alla fine si risolse a entrare in trattative con il prefetto urbano Flavio Sabino, fratello di Vespasiano, per cercare in extremis una soluzione diplomatica alla guerra, che sapeva di non poter più vincere.

      La posizione reciproca dei due uomini, invero, non mancava di curiose coincidenze. Vitellio, dopo la sua vittoria su Otone, non solo aveva confermato  Sabino nella prefettura urbana, ma ve lo aveva lasciato anche dopo la proclamazione di Vespasiano da parte degli eserciti d'Oriente. Vi erano stati altri casi di parenti schierati su opposti versanti nella guerra civile, o per scelta o per  puro concorso di circostanze imprevedibili. Questa volta, però, l'eccezionale importanza della carica - militare, oltre che onorifica - rendeva la permanenza di Sabino alla prefettura urbana un qualcosa di veramente singolare e profondamente ambiguo. Egli, fino ad allora, aveva servito la causa di Vitellio con lealtà ed efficienza: aveva consegnato all'imperatore l'infelice Dolabella; aveva ceduto una delle sue coorti urbane per la prima, fallita spedizione contro i ribelli di Miseno. Aveva però anche, a quel che pare, avuto dei segreti abbocccamenti con Alieno Cecina, avanti la partenza di questi da Roma. Abboccamenti il cui scopo era stato ampiamente dimostrato, stando almeno alle apparenze, dal successivo comportamento dello stesso Cecina. Se così fu, bisognerebbe concludere che ancor prima della battaglia di Cremona, quando la forza militare del partito vitelliano appariva ancora formidabile, Sabino era già intimamente persuaso che la vittoria finale sarebbe toccata a suo fratello, e si stava attivamente adoperando per affrettarla. Senonchè, tutto quanto sappiamo dei rapporti esistenti tra i due fratelli prima dello scoppio della guerra civile, non sembra avvalorare la tesi di una loro concordia né, di conseguenza, che Sabino già nell'autunno del 69 tramasse per favorire la vittoria di Vespasiano.

      Sabino serviva lo Stato romano da ben trentacinque anni, era stato per sette anni governatore della Mesia e per altri otto, a intervalli, prefetto dell'Urbe; il suo patrimonio era più consistente di quello del fratello maggiorela stima di cui godeva fra i senatori; e quando Vespasiano, un tempo, si era trovato in difficoltà economiche, egli aveva acconsentito a saldare i suoi debiti, ma in cambio aveva preteso l'ipoteca di alcune sue proprietà. Per di più, mentre Vespasiano era spronato da una segreta ambizione (e fin dalla morte di Nerone teneva un occhio rivolto alle cose di Roma), Sabino già vecchio e stanco, spregiatore del potere e di ulteriori responsabilità, che tanto a lungo aveva già sperimentato, non mostrava alcuna impazienza di gettarsi nell'agone della lotta politica. Egli ci viene descritto come un uomo di animo dolce, giusto e disinteressato; e, in effetti, pare che se l'alta carica da lui ricopeta non lo avesse coinvolto nel pieno delle contese civili, egli per parte sua vi si sarebbe mantenuto volentieri estraneo.

     Dopo la disfatta dei vitelliani a Cremona, la posizione di Sabino divenne ancor più complicata. Mano a mano che una vittoria di Vespasiano si faceva sempre più probabile, egli finiva fatalmente per diventare, quasi suo malgrado, il punto naturale di richiamo del partito flaviano all'interno dell'Urbe, e per attirarsi, per ciò stesso, i sospetti e le inimicizie dei più zelanti sostenitori di Vitellio. Quest'ultimo, da parte sua, aveva buoni motivi per lodare la propria previdenza nel non essersi tagliata una sì comoda via di ritirata dietro le spalle, e, nel pessimismo che cominciava a dominarlo, finì naturalmente per accostarsi al suo prefetto allo scopo di sondare le possibilità di una cessione pacifica del potere.

      Dopo che le truppe di Antonio Primo ebbero forzato i passi dell'Appennino e si furono avvicinate a Roma, i colloqui fra Vitellio e Sabino dovettero assumere un ritmo particolarmente frequente. Gli incontri avvenivano in terreno neutrale, di solto nel tempio di Apollo e alla presenza di pochissimi intimi, che pure non erano ammessi ad ascoltare la conversazione. Di conseguenza, possiamo almeno dire che tutte le voci poi diffusesi circa i termini di un accordo segreto, non possono essere accolte che con beneficio d'inventario. Quel che realmente si dissero i due, e sin dove si spinsero, è un segreto che ben presto si sarebbero portati entrambi nella tomba, Tuttavia, nel corso di quei colloqui una cosa appariva evidente, e fu ampiamente notata: l'aspetto dimesso e abbattuto dell'imperatore e, per converso, l'atteggiamento bonario e comprensivo del prefetto. Era perciò evidente che Sabino non intendeva far pesare inutilmente il fatto incontestabile che le armi di Vespasiano stavano vincendo, e desiderava lasciare socchiusa la porta affinchè si giungesse a un trapasso incruento dei poteri da Vitellio a Vespasiano. Si disse, in seguito, che Vitellio avrebbe accettato di lasciare il potere in cambio della vita e di una somma di cento milioni di sesterzi, nonché di una villa in Campania per trascorrervi indisturbato una splendida esistenza privata; voci che, per ler ragioni anzidette, è impossibile giudicare se, e in quale misura, si possano considerare attendibili.

      Verso la metà di dicembre la situazione militare precipitò nuovamente, e impresse alle trattative segrete un carattere particolarmente drammatico. L'esercito vitelliano schierato in Umbria, a protezione della capitale, aveva fino a quel momento mantenuto una certa parvenza di coesione e di combattività, quantunque la lenta ma continua ritirata attraverso la Penisola, non giustificata sul piano strategico da una vera sconfitta - ché anzi, dopo Cremona, praticamente le armi erano rimaste nel fodero - ne avesse intaccato il morale. Tuttavia i soldati semplici continuavano a nutrire un forte attaccamento alla causa del "loro" imperatore, e la presenza dei due prefetti del pretorio li rincorava, tanto che essi mostravano una determinazione a battersi di gran lunga superiore a quella dei loro esitanti ufficiali. Le loro principali speranze, allora, si appuntavano sul ritorno di Fabio Valente dalla Germania, con un nuovo e formidabile esercito, per passare alla lor volta all'offensiva. Questo erano riusciti a far credere loro i comandanti, ed era ormai quasi il solo, esile filo che ancora li tenesse abbracciati a una causa disperata.

      Una prima, dura scossa alle loro residue speranze venne dalla caduta improvvisa di Interamna, caposaldo avanzato della piazzaforte di Narni, che i flaviani avevano occupato con una manovra inattesa, e incontrando pochissima resistenza nella scoraggiata guarnigione. Ma quando, poi, la testa di Fabio Valente - giustiziato, come si disse, nel carcere di Urbino - venne mostrata loro, attraverso le linee, dai flaviani esultanti, le speranze dei vitelliani ricevettero un colpo decisivo. Le diserzioni si moltiplicarono e presero un ritmo incessante, finchè i due prefetti scesero con tutto l'esercito nella pianura sottostante Narni e, alla presenza dell'armata nemica schierata al completo, si arresero con l'onore delle armi.

      La dimane di questa resa, che segnava la dissoluzione dell'esercito vitelliano settentrionale, e apriva la via di Roma alle poderose colonne flaviane, la situazione politica nella capitale era divenuta esplosiva. Dato ormai per scontato che la fine del regime vitelliano non era che una questione di giorni, forse di ore, restava solo da vedere se la città sarebbe stata presa con la forza, a prezzo di un bagno di sangue, oppure pacificamente, mediante una rinuncia spontanea da parte dell'imperatore soccombente. La posizione di Flavio Sabino, poi, era particolarmente complessa e delicata. Era chiaro che sia lui personalmente, sia Vespasiano, sia - probabilmente - lo stesso Muciano, consideravano preferibile che fosse Sabino ad ottenere la capitolazione di Roma: tanto per istintiva diffidenza nei confroni di Antonio Primo, quanto per evitare un inutile massacro.

      Il prefetto urbano, per carattere e per educazione, rifuggiva all'idea di uno spargimento di sangue non necessario e desiderava indurre Vitellio a cedere il potere pacificamente, prima che fosse troppo tardi. Lo stesso Antonio Primo, ottenuta la capitolazione dell'esercito di Narni, aveva sospeso la propria avanzata e inviato messaggi a Vitellio, offrendogli un ritiro sicuro e onorevole in cambio della resa, pur avendo la possibilità di spingersi fin sotto le mura dell'Urbe in appena poche ore di marcia. Sarebbe stata un'occasione da non perdere: ma Vitellio, che tanto avventatamente aveva fatto ar