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Alcuni concetti fondanti del pensiero ecologico di Edward Goldsmith

di Eugenio Orsi - 16/12/2005

Fonte: ecoblog.it

 

Introduzione
 Con questo saggio intendo fare luce su alcuni degli aspetti più pregnanti del pensiero di Edward Goldsmith un ambientalista poco noto in Italia, ma di grande importanza tanto da essere spesso chiamato in causa come un “padre fondatore” del movimento ambientalista e di recente non è difficile incontrarlo citato fra gli ispiratori di quel movimento improvvisamente apparso nel ’99 a Seattle per contestare la riunione dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC)[1].

Edward Goldsmith, inglese di famiglia benestante, nasce a Parigi nel 1928; laureatosi ad Oxford in Scienze Economiche e Politiche e in Filosofia, nel 1975 è stato professore alla University of Michigan. Tuttavia la vita e l’opera intellettuale di Goldsmith si svolgono a distanza dagli ambienti accademici e procedono invariabilmente interrealate con l’impegno in prima persona in battaglie ambientaliste e sociali. Nel 1969 egli fonda la rivista The Ecolgist[2] che si affermerà come fucina di un dibattito che ha contribuito a creare quella che oggi viene chiamata “cultura ambientale”.  La rivista diretta da Goldsmith rappresenta anche un laboratorio delle proteste e delle campagne internazionali da lui condotte con passione e dedizione contro lo sviluppo scriteriato, la distruzione ambientale, la minaccia nucleare e così via. Famose le lettere alla Banca Mondiale accusata di sponsorizzare la fame e le ricerche sui danni della politica di sviluppo della FAO.  Nel 1972 scrive, assieme a Robert Allen e agli altri editori della rivista The Ecologist il libro A Blueprint for Survival (tradotto in italiano con il titolo La morte ecologica edito da Laterza sempre nel ’72). Si tratta di un libro-manifesto che fa il punto sulla non sostenibilità dello sviluppo economico e che profetizza e progetta la società stazionaria. Il lavoro darà seguito a un vivace dibattito che farà conoscere le idee di Goldsmith al grande pubblico anglosassone.  Nel 1999 l’impegno di Goldsmith viene riconosciuto con l’attribuzione del Right Livelhood Award, conosciuto come il “Premio Nobel alternativo”.

Goldsmith è un pensatore radicale nel senso più proprio del termine in quanto nessuna analisi per lui è rigorosa se non è portata alle sue logiche conclusioni; nessuna soluzione è accettabile nel lungo periodo se non affronta il problema alla radice. In questo senso credo che la lettura di questo pensatore sia più che mai utile in questo momento storico in cui l’ambientalismo sta subendo un rapido processo di banalizzazione causato dalla metabolizzazione delle sue istanze da parte di larga parte del settore industriale che ha scoperto il valore pubblicitario dell’immaginario “ecologico”.

In questo saggio mi concentrerò sulle idee di questo pensatore anticonformista e mi avvalorerò di diversi testi con un occhio di riguardo al libro Il Tao dell’ecologia, il lavoro summa di Goldsmith al quale ha lavorato per più trent’anni e nel quale esprime in maniera organica e onnicomprensiva la sua visione ecologica del mondo. La struttura dell’opera dice già molto: il libro è diviso in 66 capitoli e ognuno può essere letto singolarmente, ma il senso profondo si svela solo considerandolo nel suo complesso. Questo richiamo olistico è di per sé un invito a ritrovare nella parte il tutto e viceversa. I capitoli di questo saggio, invece, riportano singolarmente gli aspetti  fondamentali che più ricorrono  nell’opera di Edward Goldsmith.

 

Il modernismo: un paradigma prometeico

Chiunque voglia analizzare il pensiero di Goldsmith non esagererà mai nel sottolineare quanto sia marcata, in questo pensatore, l’avversione per il progresso. Goldsmith non accenna mai, in nessuna delle sue opere, che potrà essere qualche nuova rivoluzione tecnologica ad aiutare l’umanità a risolvere l’attuale crisi ecologica. Nessun espediente a breve termine o provvedimento ad hoc può essere d’aiuto, ma solo un inversione netta di tendenza potrebbe dare un futuro dignitoso alla Terra e all’uomo.

Il pensiero del filosofo della scienza Thomas Kuhn rappresenta per Goldsmith un sicuro punto fermo attorno al quale rotare la sua visione del mondo scientifico. In sintesi Kuhn sostiene che i paradigmi scientifici che si susseguono durante il corso della Storia non possono essere considerati a prescindere dai presupposti  e scopi, per lo più impliciti, dei rapporti sociali e dei fattori culturali. Le rivoluzioni scientifiche vanno intese per Kuhn non come confutazioni di singole ipotesi prima accreditate, ma come cambiamenti complessivi degli impegni teorici di una comunità scientifica.  Alla luce di questi fattori non sorprende il fatto che benché il paradigma riduzionista e meccanicista della scienza newtoniana sia stato superato dalla fisica quantistica, rimanga quello predominante perché è quello che meglio si adatta alle visioni tecno/scientifiche delle società industriali che ha contribuito a creare e nelle quali siamo ancora immersi. “Purtroppo” constata Goldsmith “il paradigma della scienza, in base al quale il mondo è considerato casuale, atomizzato e meccanicistico è l’unica visione capace di produrre i manufatti industriali basati sulla scienza necessari a soddisfare scopi commerciali (pesticidi, antibiotici e microrganismi prodotti dall’ingegneria genetica, per esempio)”[3] . Il paradigma scientifico modernista riflette fedelmente l’assioma economicista e tecnologico che considera tutti i benefici e cioè il nostro benessere, derivanti dal processo di civilizzazione. La salute viene dunque considerata come qualcosa dispensato negli ospedali. L’educazione una merce da acquistare nelle scuole e nelle università. La legge e l’ordine pubblico sono elementi forniti dalle forze di polizia in combinazione con tribunali e sistema carcerario[4].   

   Se dunque è l’opera dell’uomo a generare il suo benessere è più che lecito massimizzare le attività antropiche. Da ciò non deriva solamente l’idea che il progresso che sostituisce la tecnosfera all’ecosfera sia buono e altamente desiderabile, ma contestualmente comporta anche l’idea che l’ecosfera non sia più considerata come l’elemento cruciale che garantisce la vita sul pianeta ma come un non-beneficio la cui privazione non comporta danni superiori ai guadagno che la sua trasformazione fornirebbe all’uomo.

Nel Tao dell’ecologia -il libro nel quale lo stile di scrittura dell’autore, fortemente documentativo, è talmente sviluppato da trasformare il testo in una miniera di citazioni e riferimenti- si possono trovare anche passaggi piuttosto singolari che descrivono alcune idee degli scienziati modernisti più estremi come quelle di Lester Ward che lamenta l’inefficienza della natura dichiarando: “i fiumi, invece di scorrere diritti, scaricando così le loro acque nel mare con il minimo dispendio di energia, serpeggiano pigramente attraverso valli e pianure”[5].   Il professore Alexander Abian dell’Iowa state University invece ritiene che la Luna sia la causa del cattivo tempo. Essa esercita un’attrazione sul nostro pianeta tale da inclinarne l’asse di 23°. Da ciò derivano estati troppo calde e inverni troppo freddi in molte regioni del pianeta. A suo avviso il problema potrebbe essere risolto distruggendo la luna con missili nucleari. Dopo di che il pianeta godrebbe di un’eterna primavera[6]. Se tale proposito può sembrare al limite della  provocazione è comunque il caso di ricordare che ad esempio in passato si fece esplodere una bomba nucleare nella fascia di Van Allen senza sapere affatto quale fosse la sua esatta funzione nell’assicurare l’abitabilità del nostro pianeta. Non troppo tempo fa gli scienziati della National Academy of Science proposero al governo degli Stati Uniti un progetto per piazzare cinquantamila specchi da cento chilometri quadrati in atmosfera per riflettere il calore del sole al fine di ridurre il riscaldamento globale da gas serra[7].

Il tipo idee appena esposte discendono invariabilmente da un paradigma[8] comune: il paradigma scientifico modernista adottato dagli scienziati ortodossi. L’analisi e la critica di tale paradigma viene instancabilmente elaborata da Goldsmith che lo valuta  con un espressione che ricorre spesso nelle sue opere e che non concede sfumature: altamente aberrante. 

Un interessante esempio dei rapporti relativi tra teoria scientifica e contesto valoriale è la teoria darwinista. L’adesione al pensiero positivista portò Darwin a formulare ipotesi che persino egli stesso riteneva poco convincenti. Darwin, come è noto, rifiutava qualsiasi ipotesi teleologica, infatti secondo lui il corso dell’evoluzione segue l’occasione piuttosto che un piano. Ma, fa notare Goldsmith, questa è un idea paradossale in quando un individuo non coglie un occasione per produrre un mutamento casuale. Dice: “il cogliere un’occasione è di per sé un evento teleologico”[9]. Allo stesso modo l’enfasi sul mutamento che la teoria darwinista condivide con il paradigma della scienza è esagerata. In realtà è la continuità e la cooperazione ad essere la caratteristica più sorprendente del mondo degli esseri viventi. Lo stesso Darwin se ne rendeva conto e in una lettera ammise che se avesse cominciato ex novo avrebbe utilizzato il termine “conservazione naturale” piuttosto che “lotta per la sopravvivenza”[10]. Vi sono molti indizi per supporre che in realtà i sistemi naturali non tendano al mutamento ma ad evitarlo. Il processo evolutivo avviene che lo si voglia o no, nonostante i patrimoni  genetici (al tempo di Darwin i replicatori) siano orientati ad uno sforzo per impedirlo. Come potrebbe conciliarsi la visione della natura come tendente alla stabilità e animata da forze conservatrici con un mondo umano che vuole procedere in direzione opposta, verso il mutamento?

Pare che la scienza ufficiale non abbia mai accettato di ricorreggere l’idea che l’evoluzione naturale proceda a caso. I neodarwinisti e successivamente i sostenitori della teoria sintetica dell’evoluzione considerano l’evoluzione come un processo che può portare sia ad una “esosfera climax ecologico”[11] sia ad un’ecosfera industriale. Essi assumono una posizione che ritiene che i primi stadi evolutivi si siano svolti in maniera istintiva per poi diventare oggetto di arbitrio nella fase di espansione del progresso tecnologico ed economico. Il progresso è dunque ad avviso dei neodarwinisti e di tutti gli scienziati ortodossi un nuovo stadio emancipato e cosciente facente parte dell’evoluzione naturale.      

Per Goldsmith è vero l’opposto. Il progresso o “evoluzione umana” è la negazione stessa dell’evoluzione; il termine da impiegare sarebbe piuttosto “antievoluzione”. Vediamo perché.

Via via che si sviluppano, i sistemi ecologici aumentano di complessità e di diversità sino a quando non raggiungono uno stato di climax ecologico. Una complessità crescente permette ad un ecosistema di garantirsi l’omeostasi nelle condizioni specifiche in cui esso vive e cioè di essere in grado far fronte ai disturbi ritornando in un posizioni simili a quelle precedenti il disturbo. Una diversità crescente gli permette invece di mantenersi stabile in un’ampia gamma di condizioni, facendo fronte a sfide che sono meno probabili in termini della sua esperienza evolutiva. L’evoluzione biologica ha portato alla nascita e allo sviluppo di una trentina di milioni di specie vegetali ed animali, l’evoluzione sociale allo sviluppo di raggruppamenti sociali complessi ed a una grande varietà di gruppi etnici diversi, ciascuno adattato all’ambiente in cui è sorto (si consideri ad esempio che nella sola Nuova Guinea è probabile che sorsero almeno settecento tribù diverse).

Il progresso procede nella direzione esattamente opposta: gli ecosistemi climax vengono distrutti e sostituiti con da una serie di sistemi sempre meno complessi. Si consideri l’esempio più drammatico di tale processo: la distruzione degli ecosistemi forestali. Foreste primarie di età millenaria, vengono sostituite da foreste secondarie, poi da piantagioni di alberi esotici a crescita rapida e da pascoli e alla fine da insediamenti urbani ad alto tasso di cementificazione. Culturalmente il progresso opera in maniera analoga. Interi gruppi etnici subiscono processi di sradicamento che trasformano i loro membri in una massa omogenea di persone alienate. Il grave fenomeno esistenziale dell’alienazione può anche essere spiegato attraverso il “principio di tolleranza” ecologico che afferma che i sistemi naturali possono funzionare adattativamente solo in un ambiente le cui caratteristiche fondamentali  non si siano scostate troppo da quelle ottimali. Ad esempio la temperatura dell’acqua deve mantenersi entro minimo e un massimo ecologico perché i pesci possano deporre le uova. Similmente una tigre la cui evoluzione si è svolta nella giungla, ad essa è adattata e rappresenta per la sua specie l’ambiente ottimale. Nella giungla si trova il cibo al quale la tigre è stata adattata a mangiare e  digerire, gli odori ai quali è stata adattata a scoprire e così via. Lo scostamento eccessivo da questo ottimo causerebbe il disadattamento della specie. Anche l’uomo si è evoluto nella natura e per la massima parte del milione e mezzo di anni che ha posto i piedi sulla terra ha vissuto come cacciatore raccoglitore. Il corpo in cui noi oggi ci troviamo è stato adattato dall’evoluzione per quello scopo; presumibilmente se fossimo stati designati per l’agricoltura avremmo braccia molto più lunghe. L’ambiente ottimale per l’uomo sarebbe dunque quello in cui si sono evoluti i nostri antenati cacciatori-raccoglitori. Non è difficile comprendere come la società industriale stia spingendo l’uomo molto al di fuori dell’ ”intervallo di tolleranza” ecologico. Questo scarto genera un disadattamento psicologico che rende l’uomo vittima di grande sofferenza emotiva e incapace di adattarsi ad un mondo per il quale non è filogeneticamente designato.

In natura man mano che l’evoluzione raggiunge “ecosistemi climax” si assiste ad una riduzione dei comportamenti competitivi in favore di comportamenti cooperativi, fenomeno che in ecologia prende il nome di “mutualismo”. Man mano che il progresso si sviluppa si assiste, invece, al fenomeno opposto: un aumento esponenziale della competizione intracomunitarie e fra  stati. E’ logica conseguenza che là dove gli ecosistemi e le società climax producono un aumento dell’ordine, le società progredite producono un aumento del caos.   

Infine una considerazione sull’autosufficienza e il riciclaggio. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a processi totalmente divergenti. Le società climax come quelle vernacolari[12] massimizzano il riciclaggio di ciò che impiegano per le loro attività che in effetti non producono residui di alcun tipo perché i prodotti di scarto di un processo sono le materie prime di quello successivo. Questo processo aumenta enormemente il grado di autosufficienza della comunità. Ancora una volta nel progresso avviene l’opposto. Le società aumentano l’interdipendenza formando grandi aree di libero scambio economico fra gli stati, l’autosufficienza scompare e la produzione di materiali di scarto inutili e spesso tossici aumentano costantemente producendo inquinamento e ponendo le basi per la scarsità futura.

 

Ripensare il passato: le Società Vernacolari

Come ho già accennato nell’introduzione, l’opera di Edward Goldsmith è strettamente connessa con la sua attività di ambientalista. Il pensiero deve dunque informare e gettare le basi per l’azione. Goldsmith considera le società vernacolari come la fonte principe di ispirazione per una visione ecologica della società. Non un futuro utopico da costruire dunque, ma un recupero attivo del passato, un passato in cui l’uomo fu capace di risolvere il conflitto cultura-natura in maniera efficace.  Non si tratta del lamento di un nostalgico per un passato arcadico definitivamente corrotto ma di uno sforzo di superamento. Questo concetto viene bene espresso nell’introduzione di Serge Latouche all’ultimo lavoro curato da Edward Goldsmith intitolato Processo alla globalizzazione[13] : “Allora quale speranza? Non si ritorna alle culture perdute. Si tratta piuttosto di costruire una post-modernità, tramite una Aufhebung hegeliana della modernità, tramite il superamento critico che non neghi il passato modernista e razionalista.”  Goldsmith non si fa propositore di un pensiero innovativo ma al contrario richiama costantemente l’attenzione sul fatto che l’evoluzione umana è avvenuta nel mondo naturale e è ad esso che siamo adattati.

E’ opinione comune e largamente condivisa che gli uomini primitivi conducessero una vita selvaggia, derelitta e premorale. Questo luogo topico a cui siamo stati “addestrati” a credere è semplicemente falso. Per la massima parte del tempo (più del 99%) in cui la specie umana ha abitato il pianeta  essa ha vissuto una vita nomade vivendo in tribù di cacciatori-raccoglitori o praticando l’agricoltura itinerante o la pastorizia e raramente i nostri antenati dovevano affrontare problemi di scarsità di cibo. Continuare a considerare i nostri antenati come dei miserabili è una pratica miope e arrogante proprio quando in verità essi hanno generato gli unici modelli a noi noti di stabilità sociale e di equilibrio ecologico[14]. L’equilibrio che le società tribali hanno saputo mantenere con la natura che li circondava non è dovuto semplicemente al fatto che essi non disponevano dei mezzi tecnologici per soggiogarla, ma perché consideravano l’ordine della natura cruciale e inviolabile.

Goldsmith osserva stupito come tutte le migliaia di società tradizionali studiate dagli antropologi abbiano in comune una visione unificante della natura. Quell’olismo che tutt’oggi non riesce a conquistare gli ambienti ufficiali della scienza nonostante le sorprendenti dimostrazioni dell’ipotesi Gaia di Lovelock, era per gli uomini tradizionali una verità mai dubitata. Inoltre il linguaggio con cui veniva pensata la totalità era mitologico ed era strutturato in modo che ogni membro della comunità potesse accedervi. L’ordine cosmologico rifletteva l’ordine della società e il linguaggio con cui veniva tramandato era emozionale e morale. Nella società vernacolari l’ordine cosmologico, che è spesso anche una legge morale, precede la società che a sua volta precede l’individuo. Ciò è esattamente analogo a ciò che avviene nell’evoluzione naturale ove l’unità evolutiva non è il singolo organismo, ma Gaia (espressione usata da John Lovelock che designa la biosfera assieme al suo sostrato geologico).

L’uomo vernacolare concepiva la propria vita come un anello di una lunga catena di esseri; la morte non lo spaventava eccessivamente perché egli vedeva se stesso soppravvivere nella persona dei suoi figli. L’uomo moderno, al contrario, concependosi come qualcosa di assolutamente unico pensa alla morte come il momento in cui tutto è finito. Questo è il motivo principale della estrema paura che l’uomo moderno nutre nei confronti della morte.

Goldsmith considera anche un altro aspetto fondamentale del comportamento umano: la guerra[15]. Come negli altri casi anche in questo la società industriale ha prodotto esiti aberranti. Riferendosi al mondo della guerra fredda egli osserva con amara ironia che”sembra del tutto straordinario che abbiamo creato una situazione in cui una guerra mondiale di orrore senza precedenti possa essere evitata solo spendendo queste enormi somme  in strumenti di morte sempre più sinistri”. Chiaramente, continua, “la deterrenza reciproca è la soluzione industriale per eccellenza[16]”.

L’aggresività, caratteristica normale in uomini e animali, è il punto di partenza per capire il fenomeno della guerra. Nel mondo animale esistono due forme di aggressività, una extraspecifica finalizzata alla predazione e una intraspecifica per stabilire posizioni gerarchiche. Il comportamento è diverso a seconda del caso. Nel primo caso l’animale si accosta alla preda nel modo più furtivo possibile; nell’altro caso il comportamento è all’opposto improntato all’ostentazione della propria forza potenziale al fine di intimidire il rivale. Significativamente le guerre premoderne erano condotte in questo secondo modo (si pensi anche solo ai colori delle divise). Nella guerra attuale al contrario le guerre vengono condotte prendendo alle spalle i nemici, furtivamente e l’intenzione infatti non è quella di atterrire ma di distruggere il nemico di modo da conquistare il suo territorio e le sue risorse. 

Il combattimento fra membri della stessa specie è un comportamento pressocché universale, dai pesci all’uomo non c’è organismo che non lotti con i suoi simili. Malinoswski fu probabilmente il primo a notare che la guerra nelle società primitive adempisse allo scopo di dividere e distanziare unità sociali che divenute troppo grandi rischiano la disintegrazione in società di massa incapaci di generare il comportamento adattativo dei membri. La divisione mediante conflitto garantisce che i membri dell’unità sociale conservino la loro identità; tale coesione è la base per la cooperazione fra i membri e l’aggressività viene ridotta al minimo. Quando invece la pressione demografica è eccessiva la scissione non è più praticabile e le lotte per il territorio generano più vittime.

In quanto componente fondamentale del comportamento, è inutile augurarsi che l’aggressività possa venire eliminata, ma la distruttività che essa comporta può tuttavia essere ridotta in più modi. Un modo l’abbiamo appena considerato, gli altri sono la ritualizzazione, l’imparare a conviverci e la riduzione.   La ritualizzazione è il migliore sbocco per sublimare l’aggressività, ma è totalmente estranea alla società industriale poiché essa assicura il minimo dei risultati con il massimo dello sforzo, ovvero l’opposto di ciò che si prefigge il sistema moderno. L’elevata ritualizzazione permette che la guerra si consumi con un numero di vittime bassissimo, si consideri ad esempio che fra gli aborigeni d’Australia le ostilità cessavano al morire di un solo uomo, o che fra i Maori la leadership era talmente importante che appena un capo veniva messo fuori combattimento la guerra era finita.

L’aggressività può assumere aspetti anche orribili, ma non è scontato che essi vadano aboliti. Come ha fatto notare Conrad Lorenz, tra i cacciatori di teste questa pratica era così legata al tutto della società che la sua abolizione ha messo a repentaglio la sopravivenza stessa della popolazione. Fra gli Eschimesi invece, durante la stagione di caccia, si pratica  a volte l’infanticidio delle femmine. Questo comportamento per quanto sgradevole svolge tuttavia l’importante ruolo di pareggiare i maschi e le femmine stabilizzando la società nel suo complesso. E possibile che tale comportamento serva ad evitare situazioni peggiori. 

 

3. Soggettività ed emozioni come categorie fondanti.
Negli scritti di Goldsmith il discorso relativo al lato emozionale dell’uomo può sembrare secondario solo se si considera la non eccezionale frequenza con cui il tema emerge. In realtà l’aspetto emozionale è forse il più profondo teste di analisi. Un passaggio in particolare non lascia dubbi a riguardo. Scrive Goldsmith: ”L’ecologia di cui abbiamo bisogno non è l’ecologia che implica l’osservazione dell’ecosfera dalla quale dipende la nostra sopravvivenza a una certa distanza e con distacco scientifico. Non salveremo il nostro pianeta mediante una decisione cosciente, razionale e non emotiva, una specie di contratto ecologico basato su un’analisi dei costi e dei benefici. E’ necessario un impegno morale ed emotivo. In effetti, uno dei compiti chiave dell’ecologia deve essere quello di riorientare le nostre emozioni in modo che esse possano svolgere il ruolo che esse furono destinate a svolgere aiutandoci a conservare l’ordine cruciale dell’ecosfera.”[17] Questa dichiarazione programmatica che riecheggia la famosa etica della terra di Aldo Leopold[18] ha alla base considerazioni epistemologiche di indubbia rilevanza. Ora, evidentemente l’esperienza emotiva è l’esperienza soggettiva per eccellenza. All’umana e fallace soggettività la scienza moderna ha tentato di porre fine; Francesco Bacone fu uno fra i primi  fautori di questo progetto. Bacone famoso per aver teorizzato l’indipendenza della scienza dai valori mise da parte i vecchi valori del bene e del male, ma per poi sostituirli in realtà con altrettanti valori dell’ “utile” e  “inutile”. Come osserva Goldsmith questo non successe in un momento qualsiasi, ma in un momento cruciale per vicende umane, “il Nuovo mondo era appena stato scoperto e le possibilità finanziarie fornite dal saccheggio e dal commercio degli schiavi sembravano illimitate”[19].   

La soggettività della scienza come di tutta la conoscenza umana non è dovuta solo ai rapporti inevitabili col potere e la Storia, ma da motivi che stanno alla base delle strutture cognitive di cui siamo forniti. Una rapida analisi della percezione lo può dimostrare. La percezione che è supposta essere la base da cui scaturisce l’intera nostra conoscenza del mondo, ma essa in quanto tale è essenzialmente soggettiva. L’uomo può percepire determinate frequenze sonore e non altre, la pelle è sensibile ad alcune radiazioni termiche, ma non alle onde herziane e a tantissime altre, l’orecchio sente solo suoni compresi fra determinate lunghezze d’onda. Non abbiamo mezzi biologici per percepire realtà al di fuori degli intervalli a cui il nostro sistema cognitivo è disposto e questo presumibilmente perché, nel corso dell’evoluzione, gli altri intervalli non si sono dimostrati rilevanti per il conseguimento dei nostri obbiettivi comportamentali. Inoltre come è stato spesso dimostrato non esiste la possibilità di non discriminare fra i dati sensoriali che altrimenti ci investirebbero come una massa informe e incommensurabile.  La non oggettività del sapere umano è oramai una percezione largamente condivisa e Goldsmith, che non ritiene la cosa come causa di imbarazzo, non fa misteri e afferma: “Non c’è alcuna ragione di supporre che la conoscenza ecologica –nelle sue diverse varianti- sia più oggettiva, meno “carica di valori” o meno diretta a uno scopo [di tutte le altre discipline della scienza moderna]. Essa mira, o dovrebbe mirare, deliberatamente a razionalizzare la visione del mondo dell’ecologia e della società ecologica ad essa associata, adeguata, come deve essere, a mantenere l’ordine cruciale del cosmo”[20].

Come già in parte detto all’inizio del capitolo, non solo la soggettività è ineliminabile, ma anche l’emotività non può essere un aspetto escludibile.

Il distacco emotivo, ad esempio, non è sintomo di un’emotività domata. Lo stile di scrittura con cui i naturalisti dell’ottocento descrivevano la natura era altamente emotivo. Ai giorni nostri molti scienziati descrivono la natura in modo infinitamente  più distaccato,  impersonale e oggettivo. Questo non dipende da un approccio che è diventato più scientifico, ma, in alcuni casi, dal fatto che la natura è considerata sempre più come una risorsa da mappare e classificare a beneficio di qualche organizzazione che è interessata al suo potenziale utilizzo utilitaristico.

Che gli scienziati oggettivi siano uomini emotivi come gli altri ci è ben dimostrato dalla storica caccia alle streghe rivolta contro Rachel Carson -la famosa scienziata che con il libro Primavera silenziosa raccontò al mondo i danni che il DDT stava facendo alla natura. In quel periodo –gli anni cinquanta, primi sessanta- i pesticidi organici sintetici erano considerati uno dei grandi successi scientifici dell’epoca e l’idea che quest’ultimi andassero ritirati dal mercato per via della loro tossicità apparve agli scienziati ortodossi come una specie di bestemmia. Le reazioni furono velenose e immediate. Si diceva che la Carson sostenesse tesi che altro non erano che un cumulo di sciocchezze; molte critiche giocavano sugli stereotipi relativi al sesso. L’appellativo di “isterica” andava per la maggiore. Le due principali riviste scientifiche del mondo anglofono Nature e Science   parlavano di “speculazioni arbitrarie”. La storia tuttavia diede ragione alla Carson.

Non solo gli scienziati esprimono stati emotivi quando si scontrano con tesi eterodosse poco concilianti, ma la stessa attività scientifica procede guidata dai sentimenti. Seguendo le parole di Michael Polanyi, Goldsmith descrive lo stato emotivo degli scienziati che succede alla scoperta scientifica. Tale stato d’esaltazione non è da considerarsi come un sottoprodotto della scoperta ma come un elemento motivante fondamentale, passione scientifica, qualcosa di intellettualmente prezioso[21].

Le emozioni estetiche hanno poi la peculiarità di orientare il giudizio verso intuizioni che spesso sono vere. Le cose belle sono tendenzialmente ecologicamente e socialmente desiderabili. Ad esempio la fattoria tradizionale, ritagliata dai boschi, con i suoi minuscoli campi recintati da siepi, è bella ed è buona. D’altra parte, osserva Goldsmith: “la fattoria intensiva moderna, circondata da enormi capannoni di cemento e amianto, con le sue distese senza fine di monoculture, sembra ed è sbagliata, molto sbagliata”[22].      

 

Rilocalizzazione.
Goldsmith è stato fra i primi a intuire e che la missione ambientalista dovesse inevitabilmente passare dalla contestazione del commercio internazionale. L’unica economia ecologica che sia possibile praticare è quella locale per motivi che adesso vedremo. Si prenda ad esempio un campo di produzione fondamentale: quello agricolo. Nelle società tradizionali le tecnologie sono adattate al terreno di coltura dove nascono. Nel Tao dell’ecologia Goldsmith cita alcuni episodi molto eloquenti a riguardo come il caso di Augustus Voelker, un esperto che alla fine del XIX secolo venne mandato dal governo britannico a studiare l’agricoltura indiana in vista di una sua modernizzazione. Egli riferì di non sapere che cosa sarebbe stato possibile migliorare in un’agricoltura che, se era nel suo complesso arretrata era tuttavia talmente pratica ed ingegnosa da non aver bisogno di altri attrezzi diversi da quelli già esistenti.  Un altro esempio interessante ci proviene dall’aratro etiopico, l’ ard. Anche in questo caso le analisi confermavano che l’attrezzo non potesse essere soggetto a migliorie, ciò nonostante si registrarono numerosi tentativi di sostituirlo con aratri di origine straniera[23]. 

Il motivo per cui non vi sono testimonianze di erosione dei suoli nei sistemi di produzione tradizionali è semplice: le comunità sanno che quella è l’unica terra che possiedono.  Al contrario le aziende che producono per l’esportazione sfruttano al limite massimo la terra per poi trasferirsi altrove.

Per capire il motivo per cui le agricolture tradizionali tendono a scomparire in favore di quello moderne è sufficiente citare le considerazioni che Banca Mondiale fece quando partecipò al finanziamento dello sviluppo economico in Papua Nuova Guinea. Essa ammise che lo stato delle cose nel paese è tale da generare situazioni di abbondanza con sforzi relativamente piccoli e pertanto considerò che l’unico modo per superare lo stadio dell’agricoltura di sussistenza fosse quello di creare nuovi desideri di consumo.

La produzione nelle società vernacolari non è orientata alla massimizzazione ma all’omeostasi e al corso naturale. L’interesse è scarsamente rivolto alla tesaurizzazione della produzione, piuttosto è la conoscenza fattuale sulla realtà biologica a richiamare gli sforzi delle comunità tradizionali. La tecnologia è parte integrante dell’identità della società e al contrario di quanto comunemente si pensi le società tradizionali non cercavano deliberatamente il progresso tecnologico. Si pensi ad esempio all’introduzione del moschetto in Giappone da parte portoghese nel XVI secolo. Esso fu disapprovato e passò molto tempo prima che sostituisse le armi tradizionali. Non si poneva in discussione la sua efficacia come strumento da guerra, ma semplicemente pareva assurdo uno strumento che permetteva ad un bambino di uccidere un samurai che aveva dedicato la vita al perfezionamento delle arti marziali.      

 Come è stato già osservato precedentemente, il procedere dell’evoluzione dei sistemi ecologici li rende sempre più autosufficienti. Questo è vero anche per le società vernacolari. Goldsmith riprende uno dei concetti filosofici fondamentali di Mahatma Gandhi, lo swadesi che è sencodo definizione “lo spirito che ci limita a usare e a servirci del nostro ambiente immediato a esclusione di quello più remoto”. Questo principio che prevede il consumo e la produzione in vista del solo breve periodo è minato alla base dalla concezione moderna di sviluppo economico. Quando lo swadewsi non ha più luogo allora le merci proliferano al di fuori del controllo sociale.

Nelle società tradizionali il scambio libero da vincoli sociali e totalmente inserito nelle leggi di mercato veniva applicato solo agli estranei. Questo perché il mercato, che prevede che i beni siano acquistati al prezzo più basso possibile e rivenduti a quello più alto, funziona solo quando non esiste un rapporto personale di lungo periodo, agli estranei si possono chiedere prezzi che non ci si permetterebbe di chiedere ai congiunti.

Più il mercato estende la sua portata e acquista un’importanza primaria, più esso si sradica dal controllo sociale e morale.  In India sino a quando il sistema feudale non venne soppiantato dall’economia di mercato le carestie riuscivano ad essere poste sotto controllo, successivamente le regole del gioco del mercato non potevano impedire che la gente morisse di fame.

Gli unici ecosistemi ancora inalterati dall’uomo sono quelli che sono rimasti fuori dall’orbita del mercato internazionale. In alcune aree della Tanzania dove recentemente l’economia è in gran parte collassata e non ci sono più soldi per ricostruire le strade, la gente è tornata ad un regime nutrizionale accettabile perché, non essendo più in grado di esportare le propie derrate alimentari, è libera di cibarsene essa stessa.

Quanto più il mercato si espande fino ad abbracciare il mondo intero tanto maggiore è inevitabilmente la nicchia che esso fornisce alle multinazionali. La “libertà” di questo mercato di cui ogni individuo dovrebbe beneficiare altro non è che “libertà di erodere, salinizzare, impaludare, compattare e desertificare il terreno agricolo per produrre materie prime a buon mercato per l’industria alimentare; è la libertà di saccheggiare gli oceani con pescherecci che annientano letteralmente la fauna ittica con reti a strascico”muro della morte” lunghe spesso 60 miglia. E’ la libertà di estirpare le rimanenti barriere coralline del mondo […] per fornire esemplari per i negozi di souvenir. E’ la libertà di prosciugare i patetici resti delle zone umide del mondo, un tempo, tanto estese per fornire altri pascoli per l’ipertrofica popolazione mondiale di bestiame, o per mettere a disposizione delle società immobiliari altre aree edificabili.” Il fenomeno della globalizzazione dei mercati è senz’ombra di dubbio un processo che acuisce il divario già formatosi fra l’uomo e il suo contesto naturale. Di più, il mercato unico esporta e rende planetaria la crisi ecologica sviluppatasi in Occidente.

La riscoperta della dimensione locale è la tappa obbligata per reiniziare a ricucire quel particolare legame che l’intuito ci dice passare per tutte le specie, per tornare a sentire quel rapporto di corrispondenza elettiva tra micro e macrocosmo. La comunità locale genera un’identità territoriale a partire dai limiti di frontiera che funzionano come un membrana connettiva con il mondo circostante.  Il localismo è il normale modo di vedere l’uomo: vista limitata, sensi limitati, possibilità di spostamento limitata. Il localismo può a ragione essere considerato come il modo di pensare ecologico per eccellenza, in quanto lega l’uomo alla natura e al territorio. Alla vettorialità del progresso il localismo contrappone una cultura fondata sul limite che rende nuovamente l’uomo abitante della sua terra, abitante del luogo.

 

Bibliografia.
-          E. Goldmith, Il Tao dell’ecologia, Ed Muzzio, Padova, 1997

-          E. Goldsmith (a cura di), Processo alla globalizzazione, Ed Arianna, Bologna, 2003

-          P. Buynyard, E. Goldsmith (a cura di), L’ipotesi Gaia, Ed Red, Como, 1992.

-          E. Goldsmith, Ecologia della salute, Ed. Muzzio, Padova, 1992.

-          E. Goldsmith, R. Allen, La morte ecologica, Ed. Laterza, 1972, Bari.

-          E. Goldsmith, 5000 giorni per salvare il pianeta, Ed. Zanichelli, 1990,

Note
[1] L’Organizzazione mondiale per il commercio è nota anche come WTO acronimo della dicitura inglese World trade organization.

[2] La rivista è fruibile anche su internet al sito www.theecologist.org. (In lingua inglese).

[3] E. Goldmith, Il Tao dell’ecologia, Ed Muzzio, Padova, pag26.

[4] Il punto di vista ecologico su questi temi è sviluppato in maniera sistematica nel libro di Goldsmith The Great U-Turn, tradotto in italiano con il titolo Ecologia della salute, 1992, Muzzio.

[5] E. Goldmith, Il Tao dell’ecologia, Ed Muzzio, Padova, pag. 189.

[6] Ivi, pag. 336.

[7] Ivi, pag197.

[8] Goldsmith usa il termine per riferirsi a una teoria o modello elaborato da studiosi della stessa opinione per spiegare un determinato insieme di fenomeni nel loro campo di studi.

[9] E. Goldmith, Il Tao dell’ecologia, Ed Muzzio, Padova , pag.180

[10] Ivi, pag. 117

[11] Il Climax ecologico è lo stato di maturità di un ecosistema ed lo stato più stabile nelle condizioni

[12] Goldsmith impiega il concetto di “società vernacolare” riprendendolo da Ivan Illich.  Sono società vernacolari quel tipo di società non organzzitate dallo Stato e dalle sue istituzioni, bensì autogovernate e autorganizzate. Per approfondire si veda il capitolo seguente ad esse dedicato.

[13] E. Goldsmith (a cura di), Processo alla globalizzazione, Ed. Arianna, Bologna.

[14]  L’ecologo  S.A. Forbes riteneva che l’equilibrio ideale fosse quello che promuoveva il massimo bene di tutte le specie. Questa potrebbe essere una buona definizione per quello che intendiamo qui. 

[15] Cfr E.Goldsmith, Ecologia della salute, Ed. Muazzio, Padova,  Cap.VI

[16] Ivi, pag.147.

[17] Ivi pag.87

[18] Voglio qui riportare quelle belle parole: “Che la terra sia una comunità è l’idea fondamentale dell’ecologia, ma che debba essere amata e rispettata è un’estensione dell’etica. Noi abusiamo della terra perché la consideriamo un bene che ci appartiene, ma quando la consideriamo come una comunità alla quale apparteniamo possiamo cominciare a usarla con amore e rispetto.” V. Bettini, Elementi di ecologia urbana, Ed. Einaudi, cit. pag. 65.

[19] E. Goldmith, Il Tao dell’ecologia, Ed Muzzio, Padova,  pag.72.

[20] Ivi, p. 77,78.

[21] Ivi, pag.87.

[22] Ivi, pag. 48.

 [23] Ivi pag.330.