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Eliminare le cause: così si vince il cancro

di Gianna Milano - 12/09/2005

Fonte: Panorama

La prima azione per sconfiggere il male del secolo è evitare che sostanze cancerogene finiscano nell’ambiente. E inneschino un processo cellulare irreparabile. Lo ripete da anni Renzo Tomatis. Ma interessi economici, compromessi scientifici e connivenze continuano a impedire di attuare questa strategia


«Arrivai a O'Hare, il nuovo aeroporto di Chicago, dopo quindici ore di volo da Parigi. Era la fine di un'epoca, pochi mesi dopo, nella primavera del 1960, i quadrimotori Super Constellation sarebbero stati soppiantati dai jet e la durata del volo dimezzata...

L'indomani fui accompagnato nei laboratori, zeppi di apparecchi, matracci, bilance, i tavoli ingombri di carte, spazio ce n'era poco, soprattutto se paragonato a quello degli stanzoni dell'istituto torinese.
Feci conoscenza con un indiano, tre americani, un inglese, un cileno, un altro italiano, un francese, un ungherese, un viennese americanizzato, e infine Spencer, il direttore, che mi tese la mano con una gran risata. “Wellcome, benvenuto” si ridistese sulla poltrona, mise i piedi sul tavolo e continuò a parlare fitto con Guido. Ero davvero in America, pensai».

Giovane, carico di ideali, attratto dalla possibilità di capire quali sono i meccanismi del cancro e di individuarne le cause per prevenirlo, dopo aver lavorato a ore come medico di fabbrica alla Fiat Lingotto («Venivano dalle fonderie, spremuti, esausti, invecchiati precocemente») ed essere entrato in contatto con il circolo chiuso dei cattedratici di Torino, deluso ma determinato a non arrendersi, decide di partire per gli Stati Uniti e occuparsi di ricerca sperimentale sul cancro.

Lui che avrebbe voluto «fare il medico e farlo bene». Protagonista di questa storia, raccontata in Il fuoriuscito (Sironi), è un oncologo famoso, Renzo Tomatis, autore di altri romanzi in cui descrive il complesso e ambiguo mondo della ricerca.
Anche questa volta, ma con un'impronta autobiografica accorata, Tomatis ci fa compiere un lungo viaggio all'interno della disciplina scientifica dominante, la biomedicina, e dell'establishment internazionale della ricerca, spesso intrecciato a forti interessi economici.
Nell'istituto di Chicago, «tutto era semplice, rapido, amichevole» ricorda. «A Torino se si vedeva il direttore in distanza, ci si accostava d'istinto alla parete, pronti al saluto deferente... qui ci si incontrava e ci si salutava come se il direttore fosse un coetaneo».

Siamo alla fine degli anni Cinquanta, la ricerca biomedica cominciava la sua grande espansione «che avrebbe finito per oscurare persino la ricerca in fisica, e i finanziamenti crescevano in proporzione». L'ipotesi che il cancro potesse essere soprattutto di origine virale era sostenuta da parte dell'establishment scientifico e da forti interessi economici.
In contrasto con l'ipotesi, sostenuta da osservazioni cliniche e sperimentali, che a causarlo fossero composti chimici naturali o di sintesi. «E che ciò non riguardasse solo gli operai che li lavoravano» precisa.

È all'istituto di Chicago che Tomatis fa i suoi primi esperimenti sui topi per verificare se un composto nitrosato usato come conservante fosse cancerogeno. In quegli anni «l'induzione sperimentale di tumori negli animali di laboratorio a opera di composti chimici aprì nuove strade alla ricerca, permettendoci di risalire in modo specifico alla sostanza che li aveva causati».
L'attività di laboratorio a Chicago ha avuto poi una sua naturale continuità, allo Iarc di Lione. Anno dopo anno la valutazione delle evidenze di rischio, basate su studi sperimentali ed epidemiologici, ha permesso di confermare (come nel caso di amianto, benzene e nickel) o di verificare (come per il cloruro di vinile) la cancerogenicità di una serie di sostanze. E di stilarne un elenco via via aggiornato.
«Fin da principio questo lavoro di ricerca mi fece intravedere una continuità tra l'attività di laboratorio e ciò che sentivo come il fine ultimo della ricerca, la possibilità di prevenire la crescita iniziale del tumore» racconta.

Il primo test, commissionato dalla sede centrale dell'Oms, a Ginevra, riguardava il Ddt. Dopo aver debellato malaria e tifo petecchiale, era accusato di varie nequizie, da ultima quella di causare tumori. Era successo che invece di contenerne l'uso dove la sua utilità era massima, come contro la malaria, se ne era abusato, anche quando non era indispensabile, con conseguenze ambientali nefaste.
«Fu somministrato a varie concentrazioni nella dieta ai topi per vedere che cosa succedeva. I suoi residui finivano inevitabilmente in ciò che si mangiava e si trattava di stabilire se fosse un pericolo per la nostra salute».

Il Ddt fu all'origine dei suoi primi viaggi ufficiali a Ginevra, poi a Roma, alla Fao. E significò anche entrare in contesa aperta con i vari consulenti o consiglieri delle industrie produttrici: «... ricercatori esperti che si facevano passare per indipendenti ma che in realtà non lo erano, ricercatori che abbinavano a un incarico ufficiale una consulenza più o meno segreta, ricercatori universitari che ricevevano finanziamenti da una multinazionale o ricercatori di organizzazioni governative che davano in privato consigli, così li chiamavano».

Da allora prese consapevolezza che «gli esperti» al di sopra delle parti che vivessero una condizione di libertà e autonomia erano una merce rara. Quando l'esperimento con il Ddt cominciò a dare i primi risultati, e comparvero i primi tumori, si misero in dubbio le dosi (che succedeva se fossero state più basse?), si obiettò che i tumori nei topi non potevano predire quelli nell'uomo, si parlò di congetture con prove insufficienti.

Si insinuò che il test sul Ddt voleva in fondo «compiacere le multinazionali che producono pesticidi più costosi e più redditizi del Ddt, che ormai rende poco a chi lo produce». Sotto tiro, racconta Tomatis, venne messa la credibilità predittiva dei test sui topi.
In realtà, la conferma sperimentale della pericolosità di un composto prima che potesse esercitare effetti nocivi sull'uomo e venisse immesso sul mercato, strumento essenziale per una prevenzione primaria efficace, richiedeva tempo. E per l'industria ciò avrebbe significato una battuta di arresto.

Individuare le cause del cancro presupponeva, dice, modificare i sistemi produttivi, forse rivedere la lista delle sostanze in produzione, cambiare la priorità per gli investimenti, ma, soprattutto, poteva significare una limitazione dei profitti legati alle vendite. «Il cancro è una malattia multifattoriale, si obiettò. Vero.

Ma a livelli piccolissimi ci sono sostanze, come il cadmio, che inibiscono il sistema di riparazione del Dna. Non causano il cancro, ma un'instabilità del genoma cellulare e la probabilità che una cellula diventi neoplastica aumenta. Ora, a queste piccolissime dosi di sostanze tossiche noi siamo esposti di continuo ed esse possono modulare negativamente il rischio di sviluppare malattie cronico-degenerative, non solo il cancro».

Il cadmio, usato nei computer e in molte leghe, come succede per altre sostanze tossiche, le industrie lo scaricano nell'ambiente, va in fiumi, falde, entra nella catena alimentare.
Un processo, quello dell'inquinamento ambientale cominciato con la produzione industriale, che aveva contribuito a mutare radicalmente il modo di vivere della gente. «Nuovi composti furono sintetizzati, mentre le risorse minerarie venivano sfruttate con metodi sempre più efficaci.
Sostanze che non costituivano un pericolo se lasciate nei loro depositi naturali lo divennero una volta estratte dalle viscere della terra e immesse nei cicli produttivi, come è stato per cromo, nickel e amianto» scrive Tomatis.

«A cancerogeni antichi, disseminati nell'ambiente, se ne sono aggiunti altri sintetizzati nei laboratori. Le stesse sostanze che causavano tumori nei lavoratori che ne erano esposti, non restavano circoscritte nel perimetro delle fabbriche, si diffondevano nell'ambiente».
Spesso succedeva che se i dati a disposizione, fu così anche per l'amianto, erano sufficienti a classificare una sostanza come cancerogena, il leitmotiv diventava: occorrono ulteriori indagini.

«A un certo punto hanno dovuto però accorgersi di noi, e i nostri documenti scientificamente corretti e inattaccabili fecero presa. Era troppo tardi perché i colossi industriali potessero bloccarci» racconta.
«Ci stanno provando ora. In alcuni ambienti statunitensi si vorrebbe che le monografie, prodotte ogni anno sulla valutazione del rischio cancerogeno dallo Iarc, siano sottoposte al vaglio di loro esperti, prima di essere approvate. Scienziati bravissimi, in apparenza indipendenti, ma con due cappelli, uno dei quali li conduce alle lobby che a Bruxelles cercano di annacquare le procedure per un miglior controllo delle sostanze chimiche in commercio».

Le dinamiche del mercato e dei profitti spesso eludono anche i più elementari principi di protezione della salute. Ancor oggi, nonostante le prove inoppugnabili sul suo effetto cancerogeno per polmoni e pleura, vengono prodotte 2 milioni di tonnellate di amianto. Lo usano nelle costruzioni mescolato con il cemento per renderle più elastiche. Eppure lo si potrebbe sostituire con impasti meno nocivi.
«Col tempo l'amianto mescolato con il cemento si polverizza, soprattutto durante le demolizioni, e lo si respira». Navi da demolire imbottite con amianto continuano a essere mandate nel Sud-Est asiatico in paesi dove il controllo sull'ambiente di lavoro è carente o inesistente.

«Quarantamila operai sono esposti regolarmente alle sue fibre cancerogene fra Bangladesh e India» sottolinea. Tomatis che, dopo una breve esperienza come medico in un ospedale triestino, ha scelto di uscire definitivamente dal mondo della ricerca, cita Primo Levi e quella zona grigia di cui scrive in Sommersi e salvati.

«Spero che questa zona finisca per spostarsi verso un impegno sociale maggiore» confessa. La prevenzione? Si sa, è sempre stata la cenerentola e lo è tuttora. Eppure si potrebbe evitare di essere esposti a ciò che causa tumori e altre malattie croniche e prevenirle.
«Invece di indirizzare la ricerca di base soprattutto, se non esclusivamente, alla messa a punto di terapie personalizzate, inevitabilmente costose che aumentano la discriminazione sociale e sanitaria (e favoriscono però grossi profitti), perché non puntare sull'approfondimento di conoscenze che possano rinforzare la prevenzione primaria?» si chiede Tomatis. Ma la sua domanda ha già una risposta.