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Le ombre dello sviluppo sull'ecologia *

di Wolfgang Sachs - 18/12/2005

Fonte: ecologiapolitica.it

 

 

 

Nella metropolitana di Tokio, le pareti erano in genere ricoperte di cartelli pubblicitari. Le autorità - consapevoli che in Giappone il legno è scarso - decisero di trovare una strada per ridurre quello spreco e, prontamente da par loro, trovarono la soluzione "ecologica", cioè enormi video che bombardano i passeggeri di pubblicità. Il problema "carta" era risolto.

L'aneddoto esemplifica un approccio al problema ecologico, simile a quello dei delegati alla conferenza di Rio de Janeiro, sulla riconciliazione tra ambiente e sviluppo. In breve, questo è il risultato della conferenza delle Nazioni Unite: a Rio, i governi hanno rico-nosciuto il peggioramento dell'ambiente, ma hanno insistito sul rilancio dello sviluppo. L'accanita difesa di alcuni partecipanti, al proprio "diritto allo sviluppo" ha acceso la discussione: da questo punto di vista, non c'è molta differenza tra la posizione della Malesia, contraria alla convenzione sulle foreste; quella dell'Arabia saudita, che ha cercato di sabotare la convenzione sul clima; e l'inappellabile dichiarazione di Bush, che il livello di vita degli americani non è negoziabile. Forse non è esagerato dire che il "balletto" dello sviluppo è riuscito a tenere insieme soggetti conflittuali, grazie ad un rituale comune dove ciascuno ha sacrificato qualcosa sull'altare dell'ambiente. La Dichiarazione finale di Rio ha pomposamente certificato la sacralità dello sviluppo, richiamandone l'importanza a ogni pié sospinto. Solo dopo aver sancito il "diritto allo sviluppo", il documento è passato a considerare «i bisogni ambientali e di sviluppo delle generazioni presenti e future» (Principio n.3).

La conferenza delle Nazioni Unite a Rio ha di fatto inaugurato una nuova fase dell'ambientalismo, come l'ultimo stadio dello "sviluppismo." Riconfermare la centralità dello sviluppo nella discussione internazionale serve indubbiamente a garantirsi il sostegno dei più importanti protagonisti nel governo, nell'economia e nella scienza, ma impedisce la rottura necessaria per scongiurare i pericoli che il futuro riserva all'umanità. Blocca la percezione del discorso ecologico dentro una visione negativa e consegna l'azione alle forze sociali - governi, organismi internazionali e imprese – responsabili del presente stato delle cose. Ciò può provocare un autogol. Il tema dello sviluppo è infatti intriso di certezze occidentali come progresso, crescita, integrazione dei mercati, consumi, bisogni universali, tutte nozioni che fanno parte del problema, non della sua soluzione.

Possono solo contribuire ad inquinare la discussione sul nostro rapporto con la natura, perché ci impediscono di vedere le società che vivono con stile al livello dei propri mezzi e i cambiamenti sociali che traggono ispirazione dalle concezioni locali della vita buona e giusta. L'incapacità a separarsi da alcune di queste certezze, che hanno modellato l'era dello sviluppo, è il risultato più negativo di Rio. Lo steccato che divide sostenitori e dissenzienti dello sviluppo è alla radice dei conflitti futuri sull'ecologia globale.

 

Le conseguenze del discorso di Truman

La storia va avanti a piccoli passi, ma l'era dello sviluppo è iniziata in un dato giorno e a una data ora. Il 20 gennaio 1949, nel suo discorso inaugurale davanti al Congresso, il presidente Harry Truman richiamò l'attenzione del suo uditorio sulle condizioni dei paesi più poveri, per la prima volta definiti "sottosviluppati". (1)

Nacque così un concetto, da allora diventato indispensabile, che omologa le infinite differenze del Sud del mondo in una sola categoria - il sottosviluppo. Il fatto che Truman inventasse una nuova parola non è un fatto accidentale, ma espressione precisa di un punto di vista mondiale: per lui, tutti i popoli del mondo si muovevano lungo una stessa traiettoria, alcuni più in fretta, altri più lentamente, ma tutti nella stessa direzione. In testa c'erano i paesi del Nord, in particolare gli Usa, mentre il resto del mondo - con il suo reddito pro-capite tremendamente basso - era restato indietro, distaccato. In questo modo veniva proiettata sul resto del mondo l'immagine che le economie del Nord avevano da tempo acquisito di se stesse, e cioè che il livello di civilizzazione di un paese dipende dal suo livello di produzione. A partire da questa premessa, Truman concepiva il mondo come un'arena economica dove tutti i paesi sono in gara per migliorare la loro posizione nella graduatoria del reddito nazionale.

I valori dei peruviani, dei kikui o dei filippini non contavano, per Truman i popoli erano tutti egualmente impegnati nel compito storico di partecipare alla gara dello sviluppo, per recuperare il distacco dai propri concorrenti. Il fine della politica di sviluppo, dunque, era far entrare in campo tutti i paesi, permettendo loro di partecipare alla gara.

Trasformare tutti i paesi in concorrenti economici era un obiettivo formidabile. Richiedeva non solo apporti di capitale e trasferimento di tecnologie, ma anche una rivoluzione culturale. Molti dei "vecchi" sistemi di vita si rivelarono infatti "ostacoli allo sviluppo". La gente possedeva ideali e abitudini mentali, modelli lavorativi e di apprendimento, reti di solidarietà e regole di governo che fanno a pugni con le caratteristiche di una società economica. Nel tentativo di superare queste barriere alla crescita, la struttura sociale tradizionale doveva essere fatta a pezzi, e i pezzi dovevano poi essere riassemblati in base ai modelli macroeconomici dei libri di testo.

Lo "sviluppo" ha sicuramente avuto molti effetti, ma uno dei più insidiosi è stata la distruzione delle culture non congeniali alla frenesia dell'accumulazione. Il Sud è stato così costretto a trasformarsi secondo il modello indicato dal Nord: la sottomissione graduale di un numero sempre maggiore di aspetti della vita sociale al dominio dell'economia. Quando studiavano un paese, gli esperti dello sviluppo erano vittime di una strana miopia, non vedevano una società che possiede un'economia, ma una società che è un'economia. Di conseguenza inserivano nel sistema istituzioni di ogni tipo - nel lavoro, nella scuola e nelle leggi - purché al servizio della produttività, svalutando via via i sistemi indigeni di fare le cose. Ma lo spostamento ad una società prevalentemente economica comporta un costo considerevole, perché mette a repentaglio la capacità autonoma di una società ad assicurare il benessere della gente, senza piegarsi ed entrare nella gara economica. L'indiscussa egemonia del produttivismo occidentale ha reso vieppiù impossibile imboccare strade diverse dal circuito della gara globale, e ciò ha ridotto lo spazio di manovra dei paesi, specie in tempi di incertezza. Anche da questo punto di vista, i paesi del Nord forniscono un esempio ambiguo: sono stati così bene addestrati al produttivismo, da non saper fare altro di diverso. Possono solo partecipare alla gara.

Dopo quarant'anni di sviluppo, la situazione è drammatica. La distanza tra chi corre in prima posizione e gli altri non si è accorciata; si è allargata fino al punto da rendere impensabile chiudere la forbice. La speranza di recuperare le distanze si è rivelata un errore di proporzioni planetarie. Le cifre parlano da sole: negli anni '80, il contributo al reddito mondiale da parte dei paesi in via di sviluppo - dove vive due terzi dell'umanità - si è ridotto al 15 per cento, mentre la quota dei paesi industriali - dove vive il 20 per cento della popolazione mondiale - è aumentato fino all'80 per cento. Guardando meglio, si scopre che il quadro è assai diversificato, e che né i tanto declamati casi del Sud est asiatico né quello dei paesi produttori di petrolio cambiano il risultato, e cioè il fatto che la gara si è trasformata in disastro. Questo è ancora più vero se si considera il destino della maggioranza della popolazione nella maggior parte di questi paesi, che vive in difficoltà e miseria maggiori rispetto al periodo pre-coloniale. Il meglio che si può dire è che lo sviluppo ha creato una classe media mondiale che possiede l'automobile, il conto in banca e una carriera assicurata, pari in totale all’8 per cento della popolazione mondiale (i soli che possiedono un'automobile), formata da una maggioranza del Nord e ristrette élites del Sud. I contrasti interni a questa classe fanno molto rumore nella politica mondiale, condannando al silenzio la stragrande maggioranza della gente.

Dopo tanto sviluppo, il problema della giustizia riemerge più aperto che mai. Un altro risultato dello sviluppo è venuto drammaticamente a galla negli ultimi tempi. È diventato evidente che la corsia della gara va nella direzione sbagliata. Truman poteva ancora dare per scontato che il Nord era alla testa dell'evoluzione sociale, oggi questa supposta superiorità è stata totalmente e definitivamente smascherata dall' ecologia. Ad esempio, buona parte del grandioso aumento di produttività è stato ottenuto con una gigantesca immissione di energia fossile, e ciò comporta bucare la terra da una parte e ricoprirla di rifiuti dall'altra. Ormai l'economia globale ha oltrepassato la capacità della terra ad essere miniera e discarica al tempo stesso: l'economia mondiale aumenta ogni due anni di 60 miliardi di dollari, in misura pari alla dimensione assoluta raggiunta nel 1900.

Nonostante solo una limitata parte del mondo abbia sperimentato la crescita economica su vasta scala, l'economia mondiale grava sulla natura in misura superiore alle sue possibilità. Se tutti i paesi seguissero l'esempio di quelli industrializzati, sarebbero necessari cinque o sei pianeti per procurarsi le necessario fonti degli inputs e le discariche per i rifiuti del progresso economico. Si è così creata una situazione, dove la certezza che ha governato per due secoli la crescita economica si rivela un grande inganno: la crescita non è una rappresentazione a lieto fine. L'espansione economica si scontra con i limiti bio-fisici del pianeta. La finitezza della terra ha inferto un colpo mortale all'idea dello sviluppo accarezzata da Truman.

 

Le ambigue pretese di giustizia

La conferenza delle Nazioni Unite sull'ecologia e lo sviluppo si è svolta nel contesto di questi quarant'anni di storia post-bellica. Come si evince dal titolo della conferenza, nessuna considerazione sull'ecologia globale è possibile senza tener conto sia della crisi della giustizia sia di quella della natura. Mentre i paesi del Nord erano soprattutto interessati alla natura, il Sud è riuscito - nel corso della preparazione della conferenza - a mettere in primo piano il problema della giustizia. Nel dibattito che ha preceduto la conferenza, gli osservatori più attenti non credevano ai loro occhi, e pensavano di assistere ad una rappresentazione già vista. Erano tornate di moda le parole d'ordine degli anni '70 sul "nuovo ordine economico internazionale". Il miglioramento dei termini di scambio, la ristrutturazione del debito, l'accesso ai mercati del Nord, il trasferimento delle tecnologie e 1' aumento degli aiuti allo sviluppo sono riemersi nel discorso ambientalista. Era difficile non vedere le tendenze regressive della controversia che si stava aprendo: il Sud, ferito dal fallimento delle illusioni sviluppiste, rilanciava la domanda di altri rounds di sviluppo. La dichiarazione del gruppo dei 77, a Pechino nel giugno 1991, lo diceva in modo esplicito: «I problemi ambientali non possono essere trattati a parte; devono essere legati al processo di sviluppo, raccordando le preoccupazioni per l'ambiente con gli imperativi della crescita e dello sviluppo economico. In questo contesto, deve essere pienamente riconosciuto il diritto allo sviluppo dei paesi in via di sviluppo.» (2)Dopo anni di difficoltà da parte del Sud, ad occuparsi delle questioni ambientali nei termini del Nord, la commedia da recitare a Rio aveva una trama: il Nord chiedeva correttezza nel comportamento ambientale a tutto il mondo, e il Sud coglieva questa occasione, usando le concessioni ambientali come armi diplomatiche. Il Sud rilanciava le richieste inevase sin dal lontano 1970, come scambio rispetto alle domande del Nord.

Le cose vanno male in termini ambientali; secondo i paesi del Sud, le cose vanno ancora peggio in termini di sviluppo. Dopo il decennio perso negli anni'80, il Sud è riuscito a rimettere all'ordine del giorno, a livello internazionale, la divisione Nord-Sud. I riflettori erano puntati soprattutto sulla disponibilità del Nord a rendere disponibili 125 miliardi di dollari all'anno di aiuti, concretizzando il vecchio impegno a spendere lo 0,7 per cento del reddito in aiuti allo sviluppo, fornire al Sud tecnologie pulite e permettergli l'accesso ai brevetti bio-industriali. A livello diplomatico, tutto questo era ovvio perché è noto che il Terzo mondo - intrappolato dal fallimento della politica per il superamento del divario - teme che il mondo sarà eternamente diviso tra le supereconomie del Nord e le sventurate economie del Sud. Ma ad un livello più profondo, l'impegno profuso per partecipare alla competizione dello sviluppo lascia i paesi del Sud in una posizione insostenibile. I documenti firmati a Rio non mostrano alcuna intenzione del Sud di liberarsi dal modello di vita del Nord , nemmeno a livello di utopia. Usando il linguaggio sviluppista, il Sud avalla l'idea che le società del Nord possano indicare la strada al resto del mondo. Il Sud è dunque incapace di sfuggire all'egemonia culturale del Nord, e infatti lo sviluppo senza egemonia è come una corsa senza direzione. Oltre alla pressione economica, l'adesione allo "sviluppo" mette il Sud in posizione di debolezza strutturale politicamente e culturalmente, porta all'assurdo che il Nord possa presentarsi come un benefattore, in grado di risolvere la crisi ecologica.

È ovvio che la situazione è manovrata dai paesi del Nord. Con la benedizione dello "sviluppo", i fatalisti della crescita al Nord sono implicitamente autorizzati a proseguire la competizione economica. L'impotenza culturale dei paesi industriali a rispondere adeguatamente alla questione dell'ecologia, a questo punto diventa una virtù. Dopo tutto, la preoccupazione principale delle élites del Nord è vincere la lotta della concorrenza tra Stati Uniti, Germania e Giappone, realizzando nel contempo la modernizzazione ecologica delle loro economie. Sono anni-luce lontani dalla percezione che la pace con la natura richiede anche la fine della guerra economica. Un paese come la Germania, ad esempio, riesce ad apparire come un esempio luminoso dell' ambientalismo, mentre porta avanti una politica di libero scambio che è disastrosa sul piano ecologico, come la Cee e il Gatt. Il fatto che lo "sviluppo", quella gara senza un traguardo, non venga messo in discussione, permette al Nord di perseverare nel sovra-sviluppo e nella conquista del potere economico, in quanto diventa sempre più inimmaginabile pensare che le società possano fare a meno del livello già raggiunto di capacità tecnica. Rio non ha neanche preso in considerazione la necessità di imporre limiti alla costruzione di strade, al trasporto ad alta velocità, alla concentrazione economica, alla produzione della chimica, all'allevamento del bestiame su vasta scala e così via.

La scellerata alleanza tra gli entusiasti dello sviluppo al Sud e i fatalisti della crescita al Nord non danneggia solo l'ambiente, ma anche la giustizia nel mondo. Lo sviluppo ha favorito minoranze assai ridotte ed è stato portato avanti in quasi tutti i paesi a spese della maggioranza delle popolazioni. Nell'era dello sviluppo, la crescita avrebbe dovuto sconfiggere la povertà. Al contrario, ha creato divisione sociale. In molti casi, comunità in grado di sostenersi sono state distrutte, nel tentativo di trasformarle in economie moderne. Le élites del Sud spesso giustificano la loro persistente devozione allo sviluppo con il riferimento rituale alla persistenza della povertà, appellandosi al dogma ormai consunto secondo cui la crescita è la ricetta contro la povertà. Chiusi nei loro interessi di potere e attaccati alla loro vita affluente, non vogliono ammettere che la salvaguardia del sostentamento della maggior parte della popolazione richiede una gestione attenta della crescita. La lezione di questi quarant'anni di sviluppo può essere espressa senza mezzi termini, dicendo che occorre separare il problema della giustizia dalle prospettive dello "sviluppo". In realtà, ecologia e povertà impongono entrambe limiti allo sviluppo. Senza tale cambiamento, la lotta per la redistribuzione del potere e delle risorse tra Nord e Sud, che si riaccenderà di fronte alla questione ambientale, resterà - come negli anni '70 - uno scontro interno alla classe media mondiale, per la divisione della torta.

La finitezza della Terra come problema di gestione

Lo sviluppo è soprattutto un modo di pensare, che non si può ridurre ad una strategia o ad un programma specifico. Serve a ricollegare comportamenti e aspirazioni diverse, intorno ad un blocco di ipotesi. Quale che fosse l'argomento all'ordine del giorno nel periodo post-bellico, le ipotesi relative allo sviluppo - un sistema stradale universale, la superiorità dell'economia, la praticabilità del cambiamento - automaticamente definivano la natura del problema e prospettavano determinate soluzioni, scartandone altre. Inoltre, dato che la conoscenza è strettamente legata al potere, il pensiero sullo sviluppo metteva in azione determinati attori sociali, ad esempio le organizzazioni internazionali, marginalizzandone altri. (3)

Nonostante segni allarmanti di fallimento in tutta la sua storia, la sindrome dello sviluppo è sopravvissuta fino ad oggi, seppure con segni di crescente invecchiamento. Quando negli anni '50 divenne chiaro che gli investimenti non risolvevano il problema, lo "sviluppo della forza lavoro" fu inserito nel pacchetto degli aiuti. Quando negli anni '60 divenne chiaro che le difficoltà continuavano, si inventò lo "sviluppo sociale". Negli anni '70, di fronte all'impoverimento crescente dei contadini, lo "sviluppo rurale" entrò a far parte della strumentazione della strategia di sviluppo, e lo stesso successe dopo con ulteriori trovate come lo "sviluppo uguale" e "l'approccio dei bisogni basilari". Si ripeteva sempre ex novo la medesima operazione concettuale, il peggioramento verificatosi nel corso dello sviluppo veniva ridefinito come un limite che richiedeva una modifica nella strategia dello sviluppo. Lo sviluppo è rimasto inaccessibile a qualsiasi controprova, mostrando un notevole potere di "inclusione": il concetto è stato ripetutamente allargato, fino ad esprimere insieme la strategia che determina il male e quella che definisce la terapia. La sua forza è anche la causa del suo galoppante esaurirsi. Non reagisce più di fronte al mutare generalizzato delle condizioni storiche. La grandezza tragica dello sviluppo si identifica dunque con il suo vuoto monumentale.

Lo "sviluppo sostenibile"che la conferenza di Rio ha incoronato come il protagonista negli anni '90, ha ereditato tutta la fragilità dello sviluppo. Inoltre, la nuova formulazione attenua la novità della sfida ambientale, inserendola dentro il guscio vuoto dello sviluppo, e lascia credere che le ipotesi sullo sviluppo siano ancora valide nonostante la situazione storica sia sostanzialmente mutata. Con la pubblicazione nel 1962 del libro di Rachel Carson, Silent Spring, e la ripresa  del movimento ambientalista, lo sviluppo fu identificato con le ferite da esso arrecate alle persone e alla natura; negli anni 80, con la "strategia mondiale per la conservazione" e il rapporto Brundtland, si è tentato di far apparire lo sviluppo come la terapia per curare le ferite da esso stesso inferte. Come si spiega questo cambiamento?                         

Già negli anni '70, sotto l'impatto della crisi petrolifera, i governi cominciarono ad intuire che la crescita non dipendeva solo dalla formazione di capitale e dalla qualificazione della forza lavoro ma anche dalla disponibilità a lungo termine delle risorse naturali. Il fabbisogno della insaziabile macchina della crescita - petrolio, legno minerali, suoli, materiale genetico - cominciava a scarseggiare. Crebbe la preoccupazione per le prospettive della crescita a lungo termine. Questo cambiamento di prospettiva è decisivo, ma al centro del problema non venne messa la salute della natura bensì quella dello sviluppo. Nel 1992 la Banca mondiale ha sintetizzato questa posizione in modo laconico: «Che significa sostenibilità?  Lo sviluppo sostenibile è quello che dura». (4) Ovviamente è cambiato anche il lavoro degli esperti dello sviluppo di fronte al nuovo imperativo nel senso che l'orizzonte delle loro decisioni deve ora spingersi avanti nel tempo, prendendo in considerazione le generazioni futur. Ma la cornice è sempre la stessa: lo sviluppo sostenibile ha bisogno della conservazione dello sviluppo, non di quella della natura.

L’inclinazione antropocentrica dell'affermazione salta agli occhi anche scontando una definizione aperta di sviluppo: nell’agenda internazionale non è entrato l'obiettivo di preservare la dignità della natura ma quello di estendere ai posteri l'utilitarismo umano E’ evidente tra l'altro, che questa operazione concettuale taglia fuori la corrente naturalista e biocentrica dell'ambientalismo attuale. Rimesso in sella lo sviluppo, è però cambiata la concezione della natura- il problema è diventato decidere quali "servizi della natura e in quale misura sono necessari al futuro dello sviluppo. Oppure, rovesciando il discorso, quali sono i «servizi della natura indispensabili» e quali invece possono essere sostituiti, ad esempio dai nuovi materiali o dall'ingegneria genetica. In altre parole, la natura diventa una variabile - critica, bisogna aggiungere - per il sostegno dello sviluppo. Non c'è dunque da meravigliarsi che il "capitale naturale" sia diventato in fretta un concetto alla moda tra gli economisti ecologici. (5)

In secondo luogo, le nuove tecnologie post-industriali suggeriscono che la crescita non sia necessariamente legata alla continua distruzione delle risorse, come al tempo delle economie della ciminiera, e possa essere ottenuta con un uso meno intensivo delle risorse. Mentre in passato le tecnologie puntavano all'incremento della produttività del lavoro, sembra ora possibile che l'intelligenza tecnica e organizzativa possa concentrarsi sull'incremento della produttività della natura. In breve, la crescita può essere separata dal crescente consumo di energia e di materie prime. Per gli "sviluppisti", i limiti alla crescita non richiedono di abbandonare la gara, ma di cambiarne la tecnica. Prima è passato lo slogan "niente sviluppo senza sostenibilità", ora comincia a passare l'altro slogan, "niente sostenibilità senza sviluppo".

Terzo, è diventato chiaro che il degrado ambientale comporta una condizione di povertà mondiale. Prima la visione sviluppista dei poveri era caratterizzata dalla mancanza di acqua, di case, di salute e di soldi; ora vi si aggiunge la mancanza di natura. La povertà è esemplificata, ora, con gente alla disperata ricerca di legna da ardere, intrappolata dal deserto che avanza, cacciata dalle proprie terre e foreste, costretta a vivere in condizioni sanitarie terribili. Se la mancanza di natura è riconosciuta come causa di povertà, le agenzie per lo sviluppo - il cui compito è l'eliminazione della povertà – sono obbligate a modificare i propri programmi a favore dell'ambiente.

Ma le popolazioni, la cui sopravvivenza dipende dalla natura, non hanno altra scelta che continuare ad appropriarsi della natura fino all'ultimo pezzettino ancora esistente. Anche il declino della natura è una conseguenza della povertà, dunque i poveri sono tutt'a un tratto diventati agenti della distruzione ambientale. Mentre negli anni '70 la natura appariva minacciata soprattutto dalla civilizzazione industriale, negli anni '80 gli ambientalisti hanno accusato il Terzo mondo per la scomparsa delle foreste, dei suoli e degli animali nel

Sud. In questa nuova visuale, l'ambientalismo in parte cambia colore: la crisi dell'ambiente non è più vista come causata dall'affluenza della classe media mondiale del Nord e del Sud, ma come il portato della presenza umana sul globo. Non importa se la natura è consumata per il lusso o per la sopravvivenza, non importa se la natura finisce a ramengo a causa dei potenti o dei marginalizzati, tutto ciò non fa nessuna differenza per gli ecocrati. Può così accadere che un  Vertice della Terra venga convocato per prendere decisioni per le quali sarebbe bastato l'Ocse, o addirittura una riunione dei G7.

Il persistere dello sviluppo, i nuovi sentieri di crescita meno intensivi in termini di risorse e la scoperta che l'umanità in genere è nemica della natura, questi sono i nuovi ingredienti concettuali del nuovo modo di pensare, che ha ricevuto la sua benedizione diplomatica alla Conferenza Unced: il mondo può essere salvato con una gestione migliore e con più gestione. Il messaggio, recitato ritualmente da molti politici, industriali e scienziati, recentemente convertitisi al verde, dice: niente deve essere fatto (per i dogmatici) o può essere fatto (per i fatalisti) per mutare la direzione dell'economia mondiale, e ciononostante i problemi saranno risolti strada facendo se ci si misura con la sfida della gestione, che deve diventare più sofisticata e migliore. L'ecologia, che un tempo comportava la ricerca di nuove virtù pubbliche, si è ora trasformata nella ricerca  di nuove strategie manageriali. L'Agenda 21 è piena di espressioni come "approccio integrato", "uso razionale", "correttezza della gestione", "internazionalizzazione dei costi", "più informazione", "miglior coordinamento", "previsioni a lungo termine", mentre c'è poco o niente - se si esclude le timidi frasi inserite nel dibattutissimo capitolo "Cambiamento dei modelli di consumo" - sulla riduzione  degli standards materiali di vita e sui tentativi di rallentare la dinamica dell'accumulazione. In definitiva, le alternative allo sviluppo sono respinte al mittente; quelle dello sviluppo sono accolte.

È tuttavia un risultato positivo dell'Unced aver posto il problema degli strumenti per il risanamento dell'ambiente da un forum mondiale, favorendo così un rilancio dell'ingegneria ambientalista nel mondo. Il prezzo è la riduzione dell'ambientalismo alla gestione dello stesso. Il compito dell'ecologia globale, infatti, può essere definito in due modi: come il tentativo tecnocratico di tenere a galla lo sviluppo respingendo la marea nonostante il saccheggio e l'inquinamento, oppure come un tentativo culturale per superare l'egemonia dei valori occidentali ed uscire gradualmente dalla gara dello sviluppo. Le due strade non si escludono a vicenda, ma sono totalmente diverse come prospettiva. Nel primo caso, il compito principale è la gestione dei limiti biofisici allo sviluppo. Occorre usare tutto il nostro potere di preveggenza per tenere lo sviluppo sull'orlo del baratro, sorvegliando, misurando e manovrandone di continuo limiti fisici. Nel secondo caso, la sfida consiste nel definire i limiti culturali e politici allo sviluppo. Ciascuna società deve trovare i suoi modelli indigeni di prosperità, per tenere il corso della storia ad una distanza di sicurezza dall'orlo del baratro, vivendo armonicamente ad un livello di produzione stabile o in riduzione. È come correre con un'auto veloce verso il canyon: ci sono due sole possibilità, fornirsi di un radar e di un autista provetto, capace di tenere la strada guidando lungo il crinale, o ridurre la velocità e allontanarsi dal baratro, andando a destra e a manca, senza preoccuparsi troppo della guida. Apertamente o meno, troppi ecologisti globali scelgono la prima strada.

 

Litigare per quel che resta della natura

Fino a qualche decennio fa', c'era ancora qualche parte della biosfera che non era stata raggiunta dagli effetti della crescita economica. È soprattutto negli ultimi trent'anni che i tantacoli del produttivismo sono arrivati sulle ultime aree vergini, eliminando ogni parte della biosfera non raggiunta dall'uomo. Spesso l'intervento umano si trasforma in un'aggressione totale, che fa a pezzi le intricate trame della vita. Da sempre, l'uomo si difende dalla natura; ora è la natura, che deve difendersi dall'uomo. Sono soprattutto in pericolo, a scala mondiale, "i beni collettivi": l'Antartide, i letti degli oceani, le foreste tropicali e molte specie sono minacciate dalla vorace crescita della domanda di inputs, mentre l'atmosfera è ammorbata dai residui della crescita scaricati in aria. Per questa ragione gli anni '80 hanno visto crescere la consapevolezza ambientale, espressa da molte voci concordi nel mettere sotto processo gli attacchi alla biosfera terrestre e le offese alle generazioni future. Si è fatto appello alla responsabilità collettiva di conservare "il retaggio comune dell'umanità", e "curare la terra" (6) è diventato un imperativo, che ha smosso gli spiriti in ogni angolo della terra. Il rispetto per l'integrità della natura, indipendentemente dal suo valore per le persone, e un'adeguata considerazione dei diritti dell'umanità, richiedono la tutela dei beni collettivi. La diplomazia ambientalista internazionale, però, non la pensa a questo modo. Stante la retorica che fa da ornamento agli appelli per una nuova etica globale, proposti nelle conferenze internazionali, la realtà ai tavoli della trattativa è un'altra. Lì si possono osservare i diplomatici impegnati nel loro abituale gioco, per accaparrare il massimo dei vantaggi a favore del proprio paese, intenti a imbrogliare i concorrenti, adattando astutamente i problemi ambientali agli interessi imposti dalla posizione economica dei rispettivi paesi.

I loro parametri di comportamento sono tali, da costringerli a battersi per allargare lo "sviluppo" del proprio paese. Nelle loro mani, i problemi ambientali diventano pedine da spendere nella lotta degli interessi economici. Da questo punto di vista, Unced non è stato diverso dai precedenti negoziati sugli oceani, sull'Antartide, sul protocollo di Montreal per la riduzione dei CFC, e difficilmente sarà diverso dai futuri negoziati sul clima, sulla protezione degli animali e sulla biodivesità. La novità di Rio - se ce n'è stata una - non sono gli impegni presi per una cura collettiva della natura, ma il riconoscimento internazionale della scarsità delle risorse naturali per lo sviluppo. La fragilità della natura è venuta allo scoperto, perché i servizi che essa può offrire come fonte e come fogna sono diventati incerti. Dopo secoli  di prestazioni gratuite, non si può più fare affidamento sulla natura come collaboratore "silenzioso" della civiltà della tecnica. In altre parole, la diplomazia ambientalista ha riconosciuto che la natura è finita come miniera di risorse e contenitore di rifiuti. Poiché lo sviluppo è intrinsecamente un processo aperto, la logica sottostante le trattative internazionali è del tutto evidente. Primo, i limiti devono essere al livello che permette l'uso più esteso possibile della natura come miniera e come contenitore, fino alla soglia critica oltre la quale inizia il declino ecologico. Qui la palla passa agli scienziati, poiché la legittimità di una tale decisione può basarsi solo su opinioni "scientifiche": discussioni infinite sullo stato della conoscenza sono dunque parte del gioco. Superato questo ostacolo, il secondo gradino del processo di contrattazione è definire la quota di ciascun paese nell'uso della natura come fonte e come fogna. Qui entra di nuovo in scena la diplomazia, perché i vecchi strumenti del potere, della persuasione e dell'imbroglio servono a massimizzare le quote nazionali. Infine, vanno definiti i meccanismi per assicurarsi che tutti i partners - con l'ausilio delle organizzazioni internazionali – si adeguino alle norme di monitoraggio e di controllo fissate dai trattati. Lungi dal "proteggere la terra", la diplomazia ambientalista – che opera nel quadro di riferimento sviluppista - concentra i suoi sforzi nel razionamento di quel che resta della natura. Ne deriva la normalizzazione globale degli eccessi di uso e d'inquinamento della natura, non la loro eliminazione.

Nel panorama della diplomazia ambientalista internazionale sono emersi quattro punti di conflitto: la soluzione delle controversie sui diritti di sfruttamento della natura, il diritto ad inquinare, il diritto alla compensazione e infine la responsabilità in merito a tutti questi diritti. Nella discussione sulla convenzione per le biodiversità, ad esempio, la centralità è andata al diritto di sfruttamento della natura. A chi spetta l'accesso alle declinanti risorse genetiche mondiali? Gli stati nazione possono esercitare la loro sovranità su di esse, o trattasi invece di "risorse colletive"? A chi è permesso trarre profitto dall'uso della diversità genetica? I paesi ricchi di biomasse ma poveri di potere industriale si sono contrapposti a quelli ricchi di  potere industriale e poveri di biomasse. Problemi analoghi nascono  per il legno tropicale, l'escavazione dei letti degli oceani, gli animali selvaggi. Quanto alla convenzione sul clima, gli sforzi dei diplomatici miravano ad ottimizzare nel tempo i diritti di inquinamento. I paesi produttori di petrolio non accettavano alcun limite alle emissioni di C02, mentre i piccoli stati nelle isole, comprensibilmente volevano il più alto limite possibile. I rappresentanti delle economie più dipendenti dall'approvvigionamento energetico erano i meno favorevoli ai vincoli sulle emissioni di C02: gli Usa in testa, i grandi paesi di nuova industrializzazione al secondo posto, mentre Europa e Giappone potevano permettersi di battersi per limiti più severi. Tutti comunque hanno avanzato richieste insistenti idi compensazione. Quale compensazione può chiedere il Sud per il suo mancato sviluppo? Chi deve farsi carico delle  perdite causate dalla riduzione delle possibilità di sfruttamento della natura? Chi deve pagare il conto del trasferimento di tecnologie pulite? Su questi terreni il Sud era ovviamente  all’offensiva, guidato    dai paesi con una larga classe media, mentre il Nord giocava in difesa. Il conflitto sulle responsabilità aleggiava su tutti gli altri. Il Nord era soprattutto sotto tiro: non avevano forse i paesi industrializzati distrutto  le loro foreste per alimentare lo sviluppo? Non avevano usato in passato il mondo intero come retroterra della loro industrializazione? E’ legittimo, quando si parla di effetto serra, mettere insieme le emissioni di metano prodotte dalla coltivazione del riso in India con le emissioni di C02 delle automobili americane? Il meno che si può  dire è che conflitti di tipo nuovo hanno messo in crisi la routine diplomatica. Mentre negli anni '70 le conferenze internazionali si occupavano del modo in cui far partecipare il Terzo mondo alla crescita dell'economia mondiale, le conferenze degli anni '90 si occupano del modo in cui controllare le escrezioni prodotte dalla crescita.  Via via che i limiti bio-fisici dello sviluppo diventano più chiari, gira anche il vento dell'era post-bellica: le trattative multilaterali non si occupano più della redistribuzione della ricchezza, ma della redistribuzione dei rischi. (7)

Efficienza e sufficienza

Vent'anni fa', i "limiti alla crescita" erano la parola d'ordine del movimento ambientalista in tutto il mondo; oggi il campanello d'allarme degli esperti internazionali di ecologia si chiama "cambiamento globale". I messaggi sono chiaramente diversi. (8)I limiti alla crescita chiedono all'uomo "industriale" di rimettere in discussione il suo progetto e di conformarlo all' ordine naturale. Il cambiamento globale mette l'uomo al posto del guidatore e lo costringe ad impadronirsi della complessità della natura, ad un più elevato livello di auto-controllo. Mentre il primo slogan sembra minaccioso, il secondo pare ottimistico: crede nella resurrezione di homo faber e, più prosaicamente, si presta a far credere che l'economia moderna possiede i mezzi - dall'innovazione di prodotto, al progresso tecnico, alla regolazione del mercato, alla programmazione scientifica – per soddisfare le richieste dell'ecologia.

La cura di tutti i mali si chiama "rivoluzione dell’efficienza, e ciò significa ridurre l'immissione di energia e di materiali nel sistema economico grazie alle nuove tecnologie e alla programmazione. Si tratti di una lampadina dell'automobile, del progetto di un impianto di energia o dei sistemi di trasporto, il punto rimane sempre quello di trovare l'innovazione che minimizza l'uso della natura per unità di prodotto. In base a questa regola, si presume che l'economia smagrisca se osserva scrupolosamente una dieta contro il

sovrappeso di scorie e rifiuti. Questo scenario di efficienza cerca di rendere quadrato il cerchio: propone un cambiamento radicale, da realizzare con il solo riorientamento degli strumenti convenzionali. Mette la società moderna di fronte alla necessità di ridurre drasticamente l'utilizzazione della natura come fonte degli inputs e deposito dei rifiuti. Promette di ridurre, forse, la dimensione fisica dell'economia. Lascia intendere che la possibilità di questa trasformazione risiede nell'uso dell'intelligenza economica sotto forma di nuovi  prodotti, nuove tecnologie e nuove tecniche di gestione: in sostanza, questo scenario propone l'estensione dell'imperativo economico moderno, richiede cioè di ottimizzare il rapporto tra mezzi e fini, (9) dal calcolo dei flussi monetari a quello dei flussi fisici. "Ottenere di più con meno" è il motto di questo nuovo round della vecchia partita. All'ordine del giorno c'è la minimizzazione dell'input, non più la massimizzazione dell'output come nel periodo post-bellico: economisti ed ingegneri hanno spostato il gioco sulla scommessa di minimizzare l'input per unità di output. La speranza che accompagna

questa sterzata strategica è ancora una volta sinteticamente espressa dalla Banca mondiale : «Le riforme dell'efficienza aiutano a ridurre l'inquinamento ed insieme aumentano l'output economico del paese».(10)

La rivoluzione dell'efficienza potrebbe avere effetti importanti. Poiché gli inputs naturali costavano poco e il deposito dei rifiuti era di solito gratis, per un lungo tempo lo sviluppo economico era squilibrato e distruggeva la natura. I sussidi incoraggiavano lo spreco, e il progresso tecnico non era generalmente pensato in funzione del risparmio della natura e i prezzi non esprimevano i valori ambientali. C'è molto da fare per correggere questo andazzo, e l'Agenda 21 manda alcuni segnali inequivoci che si è imboccata una strada nuova. Ma il corso della storia economica - all'Est, all'Ovest e nel Sud, pur con le dovute differenze - suggerisce che lo spazio per le strategie dell'efficienza è ridottissimo nelle prime fasi della crescita, mentre si espande e diventa economicamente sostenibile in seguito, quando è stato raggiunto un certo livello di crescita. Poiché al Sud  una politica di crescita selettiva sarebbe uno strumento potente per ridurre la domanda di risorse, il trasferimento puro e semplice nel Terzo mondo della "rivoluzione dell'efficienza" ha senso, solo se ci si aspetta che il Sud segua lo stesso sentiero di sviluppo del Nord. Anche per il Nord lo scetticismo è d'obbligo. Quanti salutano la nascente società dei servizi e dell'informazione come ambientalmente compatibile, sottovalutano il fatto che tali settori possono crescere solo a seguito dell'industria e in stretta simbiosi con essa. La dimensione del settore dei servizi rispetto alla produzione di merci ha un suo limite, e inoltre la sua dipendenza dalle risorse può essere forte come nel caso del turismo, degli ospedali e dell'informatica. (11)

Persino le merci che non hanno nessun contenuto di natura come i brevetti, l'amministrazione e la moneta derivano il loro valore dal potere che esse permettono di avere sulle risorse naturali. Più specificamente, i guadagni di efficienza ambientale consistono spesso nella sostituzione di materiali energivori con altri materiali high tech, ma ciò presuppone un'economia ad alta intensità di risorse. In breve, il potenziale di efficienza esistente - inutilizzato - nei motori già messi a punto, nei processi bio-tecnologici, nelle tecnologie di riciclaggio e nel pensiero sistemico è intrinseco solo alle economie del Nord. La strategia dell' efficienza è ovviamente nelle mani dei paesi del Nord che, in questo modo, possono offrire al Sud un'altra occasione, ad un prezzo simile a quello già pagato in precedenza per il trasferimento delle tecnologie.

Gli ambientalisti che capiscono solo il linguaggio dell'efficienza delle risorse, concentrano l'immaginazione sociale sulla revisione degli strumenti piuttostoché dei fini. Sono così abili da proporre una strategia che valorizza soprattutto le qualità positive dell'economia; la loro forza sta nel fatto di proporre una prospettiva che non si sogna neanche di mettere in discussione l'imperativo della crescita. La parola magica "efficienza delle risorse" ha tuttavia i suoi lati oscuri, e se la si ammira troppo a lungo si rischia di rimanere ciechi, almeno da un occhio: molti ambientalisti soffrono ormai di questa malattia. Privilegiando la sola "efficienza delle risorse", finiscono per non vedere che la riforma ecologica deve camminare su due gambe: la selezione degli strumenti e la moderazione dei fini. La loro dimenticanza è un boomerang, tuttavia, e mette in forse il loro progetto ecologico. Infatti un aumento di efficienza delle risorse non porta da nessuna parte, se non è accompagnato da un' intelligente riduzione della crescita. Anziché chiedere quanti supermercati o quante macchine sono abbastanza, è più opportuno concentrarsi sul modo in cui tutte queste cose - e persino di più - possono essere ottenute con un minore input di risorse. Se non si riduce la dinamica della crescita, i risultati della razionalizzazione saranno immediatamente azzerati dalla successiva fase di crescita. Si consideri il caso dell'auto a basso consumo di energia. I motori delle auto di oggi sono sicuramente più efficienti di quelli del passato; ma la crescita costante del numero di auto e di chilometri percorsi ha riassorbito quel miglioramento. La stessa logica vale dovunque, dal risparmio energetico all'abbattimento dell'inquinamento, al riciclaggio. Senza contare il fatto che la continua rimozione degli effetti distruttivi della crescita richiede a sua volta nuova crescita. Quel che in definitiva importa è la scala fìsica complessiva dell'economia rispetto alla natura, non solo l'allocazione efficiente delle risorse. Herman Daly ha presentato un esempio illuminante (12): anche se il carico di una nave è distribuito efficientemente, la barca affonderà comunque se è troppo carica - a parte la soddisfazione di affondare in modo ottimale! L'efficienza senza sufficienza è controproduttiva, e infatti spetta alla seconda fissare i confini della prima.

Tuttavia il dilagante credo sviluppista impedisce ogni serio dibattito sulla modernizzazione della crescita. Al suo confronto, una società che decide - almeno in alcune aree - di non crescere oltre certi livelli di intensità di merci, di performance tecnica o di velocità, appare arretrata. Di conseguenza, l'opzione zero, e cioè la scelta di non fare tutto quel che è tecnicamente possibile, è considerata un tabù nella discussione sull'ecologia globale, fino al punto di ridicolizzare gli eventuali accordi in questo senso. Si prenda ad esempio la sezione trasporti dell'Agenda 21, al capitolo 9: nonostante l'universo delle auto cresca, ai tassi odierni, quattro volte più in fretta della popolazione, gli autori dell'Agenda 21 non sono stati in grado di suggerire nessuna strategia per ridurre il traffico, né di fare la  scelta di un sistema di trasporti a bassa velocità. Ciò dipende da molte ragioni ma - al fondo - questo fallimento indica che la sindrome dello sviluppo ha inciso sull'immaginazione sociale del Nord e del Sud: il Nord continua a porsi nell'ottica di un futuro economico infinito, e il Sud non riesce a sottrarsi all'imitazione costrittiva del Nord, e pertanto la capacità di un cambiamento locale auto-centrato si è affievolita in tutto il mondo. La politica che sceglie livelli intermedi di ricchezza materiale, non ottiene il consenso sociale; la ricerca dei modelli indigeni di prosperità, che ridimensionano la spinta al sovrasviluppo, sono considerati un'apostasia. Chiaramente una tale prospettiva sarebbe in primo luogo a carico dei più ricchi, ma senza una politica di sufficienza non ci può essere né giustizia né pace con la natura.

 

L'egemonia del globalismo

Sviluppo sostenibile significa cose diverse a seconda di chi parla, ma contiene un messaggio valido per tutti, quello di tenere il volume delle estrazioni dalla natura ed emissioni nella natura in linea con le capacità rigenerative della natura. La cosa sembra ragionevole, e invece nasconde un conflitto che ancora non ha guadagnato l'attenzione del pubblico, nonostante metta in discussione questioni essenziali come il potere, la democrazia e l'autonomia culturale.

Sostenibilità, ma a quale livello? Dove si chiude il cerchio dell'uso e della rigenerazione? A livello delle comunità di villaggio, di un paese o dell'intero pianeta? Fino agli anni '80, gli ambientalisti si preoccupavano soprattutto dello spazio locale e nazionale; idee come l'eco-sviluppo ambivano a potenziare l'indipendenza economica e politica di un luogo ricollegandone i flussi di risorse ecologiche. (13) Negli anni successivi cominciarono a guardare le cose da un'angolatura più ampia: adottarono il punto di vista degli astronauti,

cogliendo il mondo intero con un solo colpo d'occhio. L'ecologia attuale si propone niente meno che salvare il pianeta. Quel globo suggestivo, che oscilla nel nero dell'universo, delicatamente cosparso di nubi, oceani e continenti, è diventato oggetto della scienza, della programmazione e della politica.

La modestia non è certo il segno distintivo di questo tipo di pensiero. Un numero speciale di Scientific American, nel 1989, dall'impegnativo titolo "Gestire il pianeta Terra" diceva, «Siamo una specie globale, che trasforma il pianeta. È soltanto come specie globali - mettendo assieme le nostre conoscenze, coordinando le nostre azioni e dividendoci quel che il pianeta ci offre - che possiamo avere una qualche speranza di guidare la trasformazione del pianeta sul sentiero dello sviluppo sostenibile. La gestione intelligente, autoconsapevole del pianeta è una delle maggiori sfide davanti all'umanità alle soglie del ventunesimo secolo». (14) L'assunzione della terra come oggetto di gestione ecologica è - al livello cognitivo  - il risultato dei viaggi spaziali, che hanno trasformato la terra in oggetto visibile, una rivoluzione nella storia della percezione umana. (15) Ma vi è anche una ragione politica, scientifica e tecnologica. Dal punto di vista politico, è stato solo negli anni '80 che le piogge acide, il buco dell'ozono e l'effetto serra hanno reso evidente che l'inquinamento industriale riguarda il globo intero, indipendentemente dalle frontiere. Il pianeta è apparso come la discarica di ultima istanza. Dal punto di vista scientifico, la ricerca ecologica - dopo essersi concentrata per anni su ecosistemi singoli ed isolati -recentemente ha spostato la sua attenzione sullo studio della biosfera, che comprende l'aria, la vegetazione, l'acqua e le rocce, che sostengono la vita a livello globale. Dal punto di vista tecnologico, come spesso accade nella vita della scienza, il merito è di una nuova generazione di strumenti e di impianti, che ha creato la possibilità di raccogliere e analizzare i dati a livello globale. Grazie ai satelliti, ai sensori e ai computers, la tecnologia disponibile da dieci anni a questa parte permette di studiare e modellare la biosfera. Poiché questi fattori sono emersi simultaneamente, l'arroganza umana ha scoperto il suo ultimo possedimento, il pianeta Terra.

Solo pochi anni fa, l'unità del globo significava un'altra cosa. Gli ambientalisti sventolavano la fotografia della terra presa dallo spazio, per ricordare alla gente la finiteza maestosa della terra e per diffondere l'idea che, alla fine, non si sfugge alle conseguenze delle azioni umane. Mentre loro facevano appello alla realtà del pianeta, invitando la gente all'umiltà, una nuova squadra di ecocrati globali si apprestava ad operare sulla realtà appena scoperta del pianeta, immaginando di poter governare il mondo. La ricerca sulla biosfera  diventò subito "big science": sostenuta da un gran numero di programmi intemazionali, (16) le "scienze planetarie" - incluso l'osservazione dei satelliti, le spedizioni negli oceani, l'elaborazione dei dati globali - vengono istituzionalizzate in molti paesi. A questo punto, la sostenibilità è sempre più concepita come una sfida da gestire a scala globale. I nuovi esperti si attrezzano per trovare l'equilibrio tra estrazioni/emissioni umane da una parte, e capacità rigenerative della natura dall'altra parte, a scala planetaria, facendo mappe e con il monitoraggio, misurando e calcolando i flussi delle risorse e i cicli

biogeochimici intorno al globo. «Tutto ciò è essenziale – dice l'Agenda 21 - se si vuole arrivare ad una stima accurata della capacità di carico del pianeta Terra e della sua elasticità alle molte sollecitazioni create dalle attività umane». (17) L'obiettivo implicito è riuscire un giorno a controllare il sistema planetario, sovrintendendo alla diversità delle specie, alle zone di pesca, ai tassi di abbattimento degli alberi, ai flussi di energia e ai cicli dei materiali. Difficile dire quali di queste aspettative possano diventare realtà, ma è fuori di dubbio che il collegamento tra i viaggi nello spazio, la tecnologia dei sensori e la simulazione al computer hanno accresciuto notevolmente la capacità di monitoraggio della natura, di individuare l'interferenza umana, di fare previsioni. Da questo punto di vista, la

gestione del budget delle risorse è entrata a far parte della politica mondiale.

Le fotografie prese dal satellite mostrano le vegetazioni che ricoprono il globo, lo scorrere dei grafici del computer, le curve che si intersecano nel tempo, livelli di soglia considerati norme mondiali:  questo è il linguaggio dell'ecologia globale. È un mondo con montagne di dati, ma senza le persone. I dati non possono dire perché i Tuareg sono costretti a svuotare le loro riserve d'acqua, o perché i tedeschi sono ossessionati dall'alta velocità sulle autostrade; non dicono a chi appartiene il legno proveniente dall'Amazzonia o quale industria si sviluppa grazie all'inquinamento del Mediterraneo; ne dicono qual'è il significato degli alberi delle foreste per le tribù indiane, o il significato dell'acqua in un paese arabo. In breve, forniscono una conoscenza senza facce e senza luoghi. Una conoscenza di questo tipo è del tutto astratta e comporta un considerevole costo: mette nel dimenticatoio la cultura, il potere e i valori locali. Offre dati, non storie; mostra diagrammi, non attori; fornisce dei calcoli, ma non dice chi ha torto e chi ha ragione; cerca la stabilità, non la bellezza. Il punto di vista globale comporta di appiattire tutte le differenze e di  trascurare tutte le circostanze. Raramente la distanza tra chi osserva e chi è osservato è stata maggiore di quella tra la foresta vista dal satellite e la giungla per i seringueros del Brasile. Gli obiettivi della gestione globale entrano inevitabilmente in conflitto con l'aspirazione alla propria cultura, alla democrazia e all'auto-determinazione. Un'ecocrazia che opera in nome di "una terra" può facilmente diventare una minaccia per le comunità locali e i loro sistemi di vita. Dopo tutto, è mai esistito nella storia del colonialismo un motivo per raddrizzare il mondo più importante dell'obiettivo di far pace con il pianeta?

Il Nord ha però un problema da risolvere. La lotta per ottenere la gestione del globo, ha dato luogo ad una nuova configurazione del mondo. Fin dall'arrivo di Colombo a Santo Domingo, il Nord si era sottratto alle conseguenze tragiche derivanti dalla sua espansione

all'estero. Il peso delle malattie, dello sfruttamento e della distruzione ecologica era ricaduto sugli altri. Ora, il vento sta cambiando; per la prima volta anche i paesi del Nord sono esposti  agli amari risultati dell'occidentalizzazione del mondo. L'immigrazione, la pressione della popolazione, il tribalismo delle armi e soprattutto le conseguenze ambientali dell'industrializzazione mondiale minacciano di destabilizzare il sistema di vita del Nord. È come se, alla fine di questo secolo, stesse per chiudersi il ciclo aperto da Colombo. Il Nord è alla ricerca di mezzi e strumenti per prevenire e gestire i rischio a livello mondiale. La pianificazione razionale del pianeta diventa una questione di sicurezza, per il Nord.

Si potrebbe concludere che il tanto decantato controllo dell'uomo (occidentale) sulla natura lascia molto a desiderare. La scienza e la tecnologia sono in grado di trasformare la natura su vasta scala, ma - almeno finora - con conseguenze spiacevoli e imprevedibili. Solo il controllo di queste conseguenze ci permetterebbe di dire che la dominazione sulla natura ha avuto successo. È a questo punto che entra in scena l'ambientalismo tecnocratico. Da questo punto di vista, lo scopo della gestione globale dell'ambiente è nient'altro che il controllo di secondo ordine; c'è bisogno di un più elevato livello di osservazione e di intervento, per tenere sotto controllo le conseguenze del controllo sulla natura. Tale mossa diventa sempre più urgente, via via che continua a vele spiegate la tendenza a trasformare il mondo in una società economica in espansione e profondamente interrelata. La forza persistente della sindrome dello sviluppo impedisce di rallentare la dinamica dell'industrialismo mondiale, e l'unica strada percorribile è regolamentare la trasformazione della natura globale nel modo migliore possibile. Alla luce di queste considerazioni, il Scientific American ha recentemente così definito le questioni centrali nel processo decisionale futuro: «Bisogna rispondere a due interrogativi: Quale pianeta vogliamo?... Quale pianeta possiamo avere? Quanta diversità delle specie dovrebbe essere assicurata nel mondo? La dimensione della popolazione umana, o almeno il suo saggio di crescita, deve essere ridotto? Quale cambiamento del clima deve essere considerato accettabile?» Se non ci sono limiti alla crescita, non ci saranno di sicuro limiti all'arroganza.

 

1. Vedi la voce sottosviluppo nel vocabolario inglese Oxford del 1989 (vo.XVII,

p.960). Un'indagine approfondita del tema dello sviluppo si trova in Wolfgang