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Alle radici della sfida ecologica

di Alain de Benoist - 10/10/2007

 

All’ecologia e ai molteplici problemi che essa oggi solleva è già stata dedicata una letteratura considerevole. Il

nostro intento in questa sede è quello di porne in evidenza tre tendenze fondamentali che ci paiono

corrispondere ai tre aspetti più interessanti di questa disciplina relativamente nuova, delle preoccupazioni che

essa esprime e delle prospettive che sembra aprire in questa fine secolo.

La nostra prima osservazione è una semplicissima constatazione: con l’ecologia, l’ideologia del progresso,

quantomeno nei termini in cui sinora si è espressa, è entrata in una crisi radicale.

Questa ideologia del progresso affonda le sue radici, come tutti sappiamo, nella concezione finalistica e

unilineare della storia propostaci dalla Bibbia. Nel cristianesimo, essa trova l’elaborazione definitiva in sant’

Agostino: ogni visione ciclica della storia viene abbandonata e sostituita dall’idea di una temporalità vettoriale

che si estende da un inizio assoluto a una fine necessaria, dall’imperfezione umana alla perfezione divina.

Come ideologia, la teoria del progresso emerge, come del resto molte altre cose, a seguito del Rinascimento. Si

fa profana o, per essere più precisi, assume la forma di una religione laicizzata, giacché il “progresso” lascia

sperare, per un futuro situato nell’ aldiquà, quella salvezza che i teologi cristiani collocavano precedentemente

nell’aldilà.

L’ideologia del progresso cinge infine i suoi panni definitivi nel XVII e soprattutto nel XVIII secolo nel contesto

dell’illuminismo: la storia si trasforma in un vero percorso lineare, caratterizzato da un miglioramento che

cresce progressivamente via via che l’umanità passa da uno stadio all’altro. Nella Esquisse d’un tableau

historique des progrès de l’esprit humain (1793), Condorcet predice l’avvento della società felice attraverso

l’applicazione alle scienze umane dei metodi utilizzati nelle scienze esatte. “Ogni secolo”, dichiara,

“aggiungerà nuovi lumi a quelli del secolo che lo avrà preceduto; e questi progressi, che niente ormai può

fermare o sospendere, avranno come unici limiti quelli della durata dell’universo”. Con lo stesso animo, Turgot

afferma che “il genere umano, considerato a partire dalle origini, appare agli occhi di un filosofo un tutto

immenso che, come ogni individuo, ha un’infanzia e i suoi progressi”. Dopo di lui, Kant definirà l’era dei Lumi

come “l’uscita dell’uomo dalla minore età, di cui egli stesso è responsabile”. Formulata così, l’ideologia del

progresso associa un certo numero di idee-chiave: l’idea che la novità vale per il solo fatto di essere nuova, da

cui risulta che la storia progredisce necessariamente verso il meglio e che il futuro è sempre superiore al

passato («Niente blocca tanto il progredire delle cose quanto l’ammirazione degli Antichi», diceva Fontenelle);

l’idea che il mondo è fondamentalmente imperfetto, ma altresì perfettibile, e che bisogna di continuo

modificarlo per migliorarlo (questa svalutazione di principio del mondo si basa sulla credenza in un retromondo

assunto come modello da seguire o in un’età dell’oro che il futuro necessariamente ricreerà, togliendole

soltanto la degradabilità e la reversibilità); l’idea che l’umanità percorre un cammino unico che, di tappa in

tappa, la dirige verso futuri radiosi, dal che si deduce che la storia è universalmente “continuista” e la relatività

delle culture è solo una contingenza provvisoria; l’idea che certe società sono più «avanzate» di altre in questa

marcia in avanti, il che dà ad esse il diritto, e anche il dovere, di imporre ai “ritardatari” i mezzi adatti per

colmare il loro ritardo; l’idea, infine, che l’accrescimento del benessere materiale del maggior numero di

individui è uno dei modi migliori per misurare il “ progresso del progresso “ (dal che deriva il ruolo essenziale

del referente economico), poiché la natura dell’uomo “progredisce” anch’essa man mano che migliorano le sue

condizioni di vita (la massimizzazione del Prodotto Nazionale Lordo si trasforma così in un obiettivo morale).

Nel XIX secolo questa teoria conosce un notevole successo e si esprime nelle forme più diverse. Fra i ricercatori

alimenta le certezze positivistiche e scientiste. La dottrina di Darwin, sostenendo che il migliore o il “ più

adatto” prevale automaticamente, ovverosia che ciò che vale di più elimina ciò che vale di meno, sembra

conferire una sorta di legittimazione all’ideologia del progresso, nel mentre giustifica il diritto del più forte 1.

Karl Marx, invece, predice l’irresistibile avvento della società senza classi, stadio terminale della storia. I

liberali, infine, annunciano essi pure che la storia tende verso un progresso indefinito chiamato a risolversi in

uno stato finale più o meno stabile. Sarà la «fine della storia» annunciata da Fukuyama, la quale postula che

non esiste alcunché al di là della democrazia liberale e del mercato (i due termini venendo peraltro considerati

più o meno intercambiabili); ovvero che il progresso sfocia in un “ momento” nel quale non è più possibile

ipotizzare un mondo radicalmente diverso che sia nel contempo radicalmente migliore. In tutti questi casi,

l’ideologia del progresso annuncia la società felice, la trasparenza sociale, l’unità dell’umanità riconciliata con

se stessa e l’ingresso definitivo nel “regno della libertà”.

Si può subito notare che questa ideologia è viziata alla base da due contraddizioni principali. La prima consiste

nel fatto che il progresso viene ad esservi presentato simultaneamente come un dato oggettivo e necessario,

che si impone alla volontà degli uomini e ne determina l’esistenza, e come un affrancamento progressivo da

tutte le determinazioni naturali, biologiche o sociali, che hanno sinora prevalso. Da un Iato, infatti, il progresso

viene identificato con una legge “naturale”, una spinta irresistibile che può, sì, essere ostacolata o rallentata

dall’intolleranza, dalla “superstizione”, dal dispotismo o dalla guerra, ma il cui trionfo finale è fuori discussione.

Dall’altro Iato, questo medesimo progresso viene assimilato ad una sempre maggiore libertà, che si conquista

essenzialmente attraverso l’emancipazione da tutto ciò che ha a che vedere con la “natura” e con la

“tradizione”. «È divincolandosi dalla natura che l’uomo diviene se stesso», ha scritto di recente Luc Ferry, «è

rivoltandosi contro il determinismo e la tradizione che costruisce una società di diritto, è evadendo dal proprio

passato che si apre alla cultura ed accede alla conoscenza [...] Dalla Rivoluzione francese in poi, tutta la nostra

cultura democratica, intellettuale, economica, artistica, si fonda su questo obbligato sradicamento» 2. È chiaro

perciò che l’ideologia del progresso sottrae l’uomo ai determinismi “naturali” solo per sottometterlo al

determinismo di una storia necessariamente orientata. La «libertà» non ha nulla a che spartire con tutto ciò.

L’altra contraddizione, che deriva dalla precedente, è più temibile. Se l’uomo è davvero uomo solo in quanto

recide ogni legame con la “natura” e con le tradizioni che un tempo governavano la sua vita sociale, se ne

deduce che le società tradizionali, che non hanno ancora interiorizzato i “benefici” dello sradicamento,

raccolgono solo uomini imperfetti. Detto chiaramente: dei sottouomini. E quindi evidente come l’ideologia del

progresso, proprio a causa delle sue pretese di universalità, abbia potuto alimentare il razzismo più insidioso.

Essa infatti proclama l’universalità del genere umano in nome dell’unicità della ragione «in tutti e in ognuno».

Ma questa proclamazione, nella misura in cui identifica il progresso con la ragione, fa paradossalmente

esplodere l’umanità, scavando un fossato tra popoli reputati “primitivi” e civiltà considerate oggettivamente

superiori in quanto più “avanzate” sulla via del progresso. Come ha scritto Blandine Barret-Kriegel, «c’è un

volto piacevole dell’ideologia del progresso [...] ma esiste anche il suo rictus, quello che scava la

contrapposizione tra natura e cultura, quello che condanna una parte dell’umanità alla barbarie e una parte

dell’uomo all’imbecillità» 3.

Claude Lévi-Strauss ha dimostrato con notevole maestria che l’uomo occidentale, d’un sol colpo, si è voluto

affrancare dalla natura e ha tagliato ogni legame con un certo numero di altre culture che non giudicava degne

di considerazione, confinandole nell’ambito della “semplice natura”, o addirittura dell’animalità. «Mai cosi

chiaramente come al termine degli ultimi quattro secoli della sua storia», scrive Lévi-Strauss, «l’uomo

occidentale può capire che, arrogandosi il diritto di separare radicalmente l’umanità dall’animalità,

concedendo all’una ciò che negava all’altra, ha aperto un ciclo maledetto, e che la medesima frontiera,

continuamente spostata più indietro, sarebbe servita ad allontanare alcuni uomini da altri uomini, e a

rivendicare, a vantaggio di minoranze sempre più ristrette, il privilegio di un umanesimo che si era già corrotto

alla nascita, avendo tratto il proprio principio ed il proprio concetto dall’amor proprio» 4, Aggiungendo poi: “Ho

la sensazione che tutte le tragedie che abbiamo vissuto, prima con il colonialismo, poi con il fascismo, infine

con i campi di sterminio, non si collochino in contrasto o in contraddizione con il sedicente umanismo, nella

forma in cui lo pratichiamo da vari secoli a questa parte, bensì, direi, nella sua scia naturale “ 5.

Già Georges Sorel aveva sottolineato che “la teoria del progresso è stata accolta come un dogma nell’epoca in

cui la borghesia era la classe conquistatrice “ 6. Questa teoria tendeva infatti a legittimare l’ottimismo di

quella classe in ascesa, ottimismo fondato sulla sensazione di una crescita illimitata dei profitti procurati dal

commercio e dall’attività economica. Di fatto, come ha notato Edgar Morin, l’ideologia del progresso ha in un

certo senso informato l’intera modernità: «La certezza del futuro migliore era il mito che l’Occidente aveva

sparso nel mondo e che sia l’Est che l’Ovest condividevano. Ad Est il futuro era ufficialmente radioso. Ad Ovest

era eccellente, era quello della società industriale avanzata. Altrove si attendevano le promesse dello sviluppo,

secondo un modello o “socialista” od occidentale. Insomma, la fede in un futuro migliore era universalmente

diffusa e riceveva impulso dalla certezza del progresso, che appariva come la legge storica fondamentale» 7.

La storia recente ha raffreddato quei begli entusiasmi. Due secoli di “progresso” hanno portato a due guerre

mondiali, ai più grandi massacri di ogni tempo, a regimi dispotici di un genere ancora mai visto, mentre l’uomo

devastava la Terra con la sua attività “pacifica” ancor più di quanto non fosse riuscito a fare in passato l’uso

delle armi. Le risorse che si dicevano illimitate si sono dimostrate tragicamente ridotte. A che le forze

produttive si sono rivelate forze distruttive. La crisi delle ideologie, la fine dello storicismo, il generale vacillare

delle certezze in precedenza dispensate da una sovrastruttura di apparati e istituzioni, hanno fatto il resto.

Chi crede ormai al “progresso”, cioè a un futuro necessariamente migliore? A quanto sembra, più nessuno. L’

11 marzo 1993, il settimanale francese «Le Nouvel Observateur» ha pubblicato un dossier intitolato: « Si può

ancora credere al progresso? » Porre la domanda significa già darle risposta. Oggi il sociologo Jean Viard

constata che l’idea di progresso è « intellettualmente morta » 8 Edgar Morin afferma che bisogna ormai

“abbandonare ogni legge della storia, ogni credenza provvidenziale nel progresso, e estirpare la funesta fede

nella salvezza terrena» 9. In un famoso discorso tenuto in Liechtenstein, Alexsandr Solzenicyn ha a sua volta

affermato che «un progresso illimitato mal si accorda con le limitate risorse del nostro pianeta» e, constatando

che «in media l’agiatezza materiale cresce mentre lo sviluppo spirituale regredisce, ha concluso predicando

l’«autolimitazione» come unico modo per impedire all’umanità di continuare nell’attuale fuga in avanti, che

non le consente più di dare un senso alla propria attività né di individuare lo scopo della propria esistenza 10.

D’improvviso, i poli si invertono. L’avvenire, ormai, non porta più speranze ma inquietudini. Il timore delle

catastrofi future ha sostituito lo slancio verso un domani ritenuto paradisiaco; un certo senso di decadenza

prende il posto della certezza del progresso. Fa quindi la sua comparsa un nuovo principio di responsabilità, di

cui il filosofo Hans Jonas ha definito le grandi linee 11. Rifiutando il programma baconiano della modernità, che

mira a far arretrare di continuo, in ogni campo, i limiti del potere umano, e mettendo in discussione la

dinamica “suicida” di una crescita che ha per unica finalità le capacità di assorbimento del mercato, Jonas

introduce, sulla base di un pensiero influenzato da Heidegger, Rudolf Bultmann e Hannah Arendt, l’idea di

«preoccupazione per le generazioni future». Il che lo porta a riformulare l’imperativo kantiano nei seguenti

termini: «Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con il permanere di una vita

autenticamente umana sulla Terra» e «non distruggano la possibilità futura di una vita di tal genere». La

responsabilità, di conseguenza, non ricade soltanto sull’azione presente ma anche sulle sue conseguenze nel

lungo periodo. Non riguarda più unicamente i danni inflitti a terzi individualizzabili, ma anche quelli che

potrebbero colpire in maniera irreparabile le generazioni che verranno. Essa implica un principio di prudenza

che ricorda la phronésis aristotelica e che può essere posto in contrasto con la hybris, la dismisura o l’eccesso.

«La solidarietà di destino fra l’uomo e la natura “, aggiunge Jonas, « solidarietà nuovamente scoperta

attraverso il pericolo, ci fa anche scoprire la dignità autonoma della natura e ci ordina di rispettarne l’integrità

al di là di ogni aspetto utilitario» 12.

È evidente: l’ideologia del progresso è morta. Il secondo aspetto che troviamo particolarmente interessante nei

dibattiti che si svolgono attorno all’ecologia consiste nel fatto che come del resto molti altri dibattiti più

importanti di questi ultimi quattro o cinque anni essi toccano tutte le famiglie politiche e rendono per parecchi

versi assolutamente obsoleta la distinzione destra-sinistra. Non solo, infatti, l’ecologia politica, rappresentata

dai partiti « verdi » che esistono in vari paesi, è attraversata da correnti diverse, ma, dato ancor più

significativo, gli avversari dichiarati dell’ecologismo si reclutano oggigiorno nei settori più lontani del paesaggio

politico.

Per certa destra reazionaria, gli ecologisti sono al massimo degli «estremisti di sinistra edulcorati» 13 o,

peggio, degli «agenti della sovversione», sostenitori del «socialismo meno l’elettricità». L’attenzione che

rivolgono al deterioramento dell’insieme del pianeta vale loro l’accusa di «mondialismo». La critica

dell’ideologia del dominio tecnico e di un prometeismo distruttivo consente anche di accusarli di egualitarismo

e pacifismo. Eredi insieme di Rousseau e del maggio ‘68, gli ecologisti non sarebbero altro che orfani della

contestazione riciclatisi in una nuova forma di socialismo rivoluzionario, in cui il tema dell’inquinamento

dell’ambiente naturale sostituirebbe quello della pauperizzazione e dell’alienazione dei lavoratori. Per bollarli è

dunque d’obbligo l’uso della metafora del cocomero: «verdi all’esterno, rossi all’interno», metafora quasi

provvidenziale all’indomani del crollo del sistema comunista 14. I liberali invece li accusano di essere

«maltusiani» 15, ostili alla società mercantile e ciechi agli effetti benefici del libero scambio. Gli ecologisti si

vedono perciò addebitare un ideale «costruttivista», che manifesterebbe l’aspirazione ad un strutturalismo

radicale, frammisto ad un completo irrealismo economico 16. Sono quelle che Alain Laurent chiama le

«impasses mistiche dell’ecolatria».

A sinistra, l’ecologismo solleva altrettanti dubbi. Mentre la destra vede nell’amore per il pianeta Terra una

nuova forma di «cosmopolitismo», la sinistra teme di vederlo deviare verso l’amore del suolo o della terra

natia. Non si manca, perciò, di ricordare il principio caro al regime di Vichy secondo cui «la terra non mente ,

ed alcuni autori si sono addirittura specializzati nel prendersela con gli “ecolo-pétainisti” o con i “grigioverdi”

17. I sostenitori dell’ideologia illuminista, dal loro canto, rimproverano agli ecologisti di voler reintegrare

l’uomo nella natura, dando in tal modo prova di un «irrazionalismo» e di un «antiumanismo» sospetti, mentre

la vecchia sinistra, da sempre attaccata al produttivismo, vede in loro dei conservatori passatisti che rifiutano il

“progresso” tecno-scientifico, legati come i romantici al “culto delle foreste” e a valori “rurali” caratteristici di

un mondo scomparso 18. Queste critiche piuttosto contraddittorie sono significative. Se gli ecologisti sono di

destra per tanta gente di sinistra, e di sinistra per tanta gente di destra ci sono davvero buone probabilità che

si trovino sulla strada giusta! Quel che è certo, in ogni caso, è che nell’ecologia politica si ritrovano temi

provenienti da campi politico-ideologici sin qui troppo di frequente considerati opposti. Per un verso, ad

esempio, l’ecologismo rappresenta una forma contemporanea di un «pessimismo culturale» che, storicamente,

si è manifestato soprattutto a destra, proprio in reazione all’ideologia del progresso. Per un altro verso, questo

pessimismo culturale è diretto prima di tutto contro l’assiomatica dell’interesse e l’ossessione del risultato

quantificato, contro la fuga in avanti provocata da una società atomizzata fondata sull’egoismo concorrenziale;

il che fa pensare piuttosto ad un atteggiamento di sinistra.

La verità è che il movimento ecologista è nel contempo conservatore, per il fatto che intende difendere la

qualità della vita, la socialità organica, i contesti di vita tradizionali, le specificità culturali e la biodiversità, ed

anche rivoluzionario, nel senso che intende rompere in modo radicale con l’ideologia produttivistica che è

sottesa nel mondo attuale alla logica planetaria del capitalismo e del mercato. Il che porta Luc Ferry a vedere

in esso il luogo privilegiato di un’alleanza di fatto tra «antimoderni» e «postmoderni», ossia il luogo in cui

potrebbero confluire aspirazioni comuni a un certo “neoconservatorismo romantico e Controrivoluzionario“ e a

una “sinistra radicale situata ai margini dei sistemi politici classici”. Questa miscela di temi di destra e di

sinistra è particolarmente evidente fra i Verdi tedeschi, i Griinen, il cui orientamento “alternativo” si fonda su

una sintesi specifica di valori nuovi e valori esistenziali, fra i quali troviamo tanto la ricerca di una certa

creatività spontanea quanto una critica della razionalità funzionaie, un’apologia dell’autonomia,

dell’autorealizzazione, dell’autenticità corporea e dello spirito di comunità. In Germania, la riflessione verdealternativa

ha anche consentito, in una certa misura, di recuperare una tematica identitaria sino a quel

momento paralizzata dall’inibizione del sentimento nazionale, e ciò in una prospettiva a volte pacifista e

neutralista, a volte libertaria e regionalista. Significative, da questo punto di vista, sono le espressioni

«conservatorismo dei valori» (Wertkonservatismus) e “conservatorismo vitale” (Lebenskonservatismus), usate

da Rudolf Bahro 19, o l’opinione del cattolico di sinistra Cari Améry, quando afferma che la frase di Burke

secondo cui “il conservatorismo è un rapporto di convivenza fra i morti, i vivi e i non ancora nati” è «la sola,

ma essenziale, idea che la sinistra dovrà far propria, nell’insieme delle idee e dei termini conservatori» 20.

Tendenze di questo genere, beninteso, sono state criticate all’interno delle molteplici correnti del movimento

alternativo tedesco, ma sono già adesso abbastanza affermate, tanto da consentire a Thomas Keller, autore di

un’opera recente particolarmente ricca di informazioni sui Grunen, di sostenere che “la missione dei Verdi

consiste nel difendere un’etica conservatrice dai modernizzatori socialdemocratici e democristiani” 21.

L’ecologia politica non sfugge, beninteso, a un certo numero di difetti. Al suo interno si ritrovano molti dei tratti

caratteristici del movimento operaio delle origini: ingenuità e previsioni imprudenti, una troppo frequente

assenza di riflessione teorica in profondità, divisioni tra “riformisti” e “radicali”. Il movimento ecologista deve

inoltre fare i conti con le reincarnazioni del politicantismo, le ambizioni personali, i tentativi di

strumentalizzazione. Non deve, infine, sottovalutare i rischi di sviluppo di una sorta di “capitalismo verde” che

subisce la tentazione di limitarsi ad integrare le preoccupazioni ecologiche nel modo di produzione dominante,

senza più metterlo in discussione. Resta però il fatto che l’ecologismo rappresenta nel mondo attuale una

novità radicale, di cui sarebbe sbagliato sottovalutare la portata. A questo proposito, Jacques Julliard ha visto

giusto quando ha dichiarato di vedere nell’ecologia «l’ultima forma di critica sociale in una società che ha

rinunciato a criticarsi» 22. In un mondo nel quale il pensiero critico sembra scomparso e il conformismo si

estende neutralizzando punti di vista un tempo antagonistici, l’ecologia politica è attualmente l’unica corrente

di pensiero che rifiuta di considerare la società in cui viviamo come il meno peggiore dei mondi possibili e

propone quantomeno l’abbozzo di un progetto di società che si discosta, come ha detto Cornelius Castoriadis,

dall’“immaginario capitalista che domina oggi il pianeta” 23. Alla discriminante destra/sinistra l’ecologia ne

sostituisce un’altra, più fondamentale, tra produttivismo e antiproduttivismo tra quantità di beni prodotti e

qualità della vita, tra la felicità come accumulazione quanto più rapida possibile del maggior numero possibile

di cose materiali e il raggiungimento della pienezza attraverso la realizzazione-e-il compimento di sé. È la

vecchia opposizione tra essere e avere, tra giusta misura e «sempre più».

Alla base dell’ecologismo si trova infatti prima di tutto la critica basilare dell’idea secondo cui l’economia

sarebbe la chiave del nostro destino. La nostra epoca è quella di un’economia autonoma, liberata da ogni

costrizione, emancipata dal politico e indifferente al sociale, che si scatena tramite il gioco dei flussi finanziari e

borsistici, della concorrenza sui liberi mercati e della mondializzazione degli scambi. L’economia è diventata un

fine in sé, ove nulla più limita l’espansione della merce. La produzione non è più uno strumento per soddisfare i

bisogni degli uomini; si è trasformata in una semplice tecnica che permette al capitale di accrescersi grazie alle

eccedenze che l’uomo è obbligato a consumare, piegandosi completamente alle esigenze del sistema salariale

e a quelle di “bisogni” fabbricati di continuo ex novo. «Il capitalismo», osserva André Gorz, «ha abolito tutto ciò

che, nella tradizione, nel modo di vita, nella civiltà quotidiana, poteva servire da ancoraggio a una norma

comune del sufficiente; e nel contempo ha abolito l’ipotesi che la scelta di lavorare e consumare meno possa

dare accesso ad una vita migliore e più libera» 24. Dinanzi a questo imperialismo della razionalità economica,

dinanzi allo scatenamento planetario del dominio tecnico, dinanzi a una tecnoscienza che, per la sua stessa

natura, fa automaticamente ritenere necessario quel che è tutt’al più possibile, l’ecologia politica ha l’immenso

merito di rompere con le rivendicazioni interne al sistema, di interrogarsi sul futuro del lavoro in un mondo nel

quale si fabbricano sempre più cose con sempre meno uomini, di denunciare l’impatto catastrofico delle

attività produttive sull’ambiente naturale e sulla vita degli uomini; insomma, di rifiutare il motivo centrale

dell’ideologia del profitto, «secondo il quale il nostro destino è quello di aumentare di continuo la produzione e

il consumo» 25.

Una vera politica ecologista va pertanto contro i postulati classici sui quali si sono fondati pressoché tutti i

regimi che i paesi occidentali hanno conosciuto da due secoli a questa parte. L’ideologia della crescita è infatti

stata comune tanto alle società capitaliste quanto alle società comuniste o fasciste, tutte quante figlie della

stessa modernità. In quest’ottica Dominique Bourg ha potuto scrivere, rispetto all’ecologia, che «mai critica più

radicale era stata formulata» 26. Spiegando: «In quanto comprensione fondamentale dell’organizzazione delle

società, l’ecologia politica i può essere definita, negativamente, in opposizione a quella che Louis Dumont

chiama l’ideologia economica: ovvero la concezione secondo cui la società degli individui, essenzialmente

percepiti come produttori si fonda sul meccanismo autoregolativo del mercato» 27.

Vi è in effetti una contraddizione di fondo tra la continua ricerca dell’innovazione e della performance

economica fondata sul principio di rendimento e la conservazione, o la semplice riproduzione, dell’ambiente

naturale. La causa essenziale di questa discrasia consiste semplicemente nel fatto che «la natura non funziona

secondo le leggi dell’ottimizzazione economica» 28, mentre invece, per definizione, ogni quantità mercantile

può sempre essere aumentata di un’unità. In un’epoca in cui, come dice Michel Serres, «più un paese, oggi,

prospera e si sviluppa, più ci dirige in breve tempo dalla paccottiglia all’immondizia» 29, in un’epoca in cui

inoltre la crescita economica impedisce meno che mai l’emarginazione e la regressione sociale, è quindi

importante integrare la logica del vivente nell’analisi economica 30. l’ecologia si sforza di farlo partendo dal

concetto di limite che va inteso In varie maniere. Esistono i limiti naturali, che devono essere valutati in modo

dinamico, tenendo conto sia delle risorse non rinnovabili che del ritmo di costituzione di quelle che possono

essere rinnovate. Ma ci sono altresì i limiti sociali, come ad esempio l’aggravarsi della disoccupazione causato

dall’informatizzazione della società, che rende caduca l’idea di un aggiustamento naturale tendente

all’equilibrio tra offerta e domanda di lavoro. Ovviamente si può sempre discutere il valore puntuale di questa

nozione di limite (chiedendosi, ad esempio, in che misura la cappa di ozono sia stata intaccata dall’attività

umana, se la foresta tropicale sia o no il vero « polmone del pianeta» oppure se, dal punto di vista della

demografia mondiale, ci si stia già avvicinando al livello di saturazione), ma il principio in sé sembra

indiscutibile: non viviamo nell’illimitato. Uscire dal produttivismo significa dunque far proprio il concetto di

limite, cioè smettere di identificare il meglio con il più, l’ottimo con il massimo, la qualità con la quantità.

Politicamente, non è un caso se l’emergere dell’ecologismo va di pari passo anche con la crisi dello Stato

nazionale. Il rifiuto delle strutture ipertrofiche e centralizzate 31 va nel senso di un più elevato conoscimento

delle lingue e delle culture regionali, o dei costumi e delle tradizioni locali viste come altrettanti freni che

permettono di ritardare o canalizzare un’evoluzione indirizzata all’uniformazione e alla spersonalizzazione. Fra

i Verdi tedeschi, Antje Vollmer si batte per la riabilitazione dei dialetti locali dinanzi a una «civiltà

uniformatrice» e nel contempo si sforza di collegare l’ecologia politica con l’eredità del Movimento giovanile e

del «socialismo religioso» 32. Con lo stesso spirito, Cari Améry ha proposto la creazione di una federazione o

confederazione europea formata da circa quaranta Stati regionali. Più in generale, nel corso degli ultimi anni, i

movimenti ecologisti si sono sforzati di oltrepassare la soIa critica del modello industriale, per cercare progetti

di vita alternativi capaci di radicarsi nell’esistenza quotidiana 33. Si è quindi cercato di rimediare alla

destrutturazione del legame sociale, che espropria gli individui del loro vissuto e li rende estranei gli uni agli

altri, e di ricreare la «cultura del quotidiano» efficacemente definita da Andrè Gorz «l’insieme dei saperi

intuitivi, dei savoir-faire vernacolari (nel senso che Ivan IIlich attribuisce a questo termine*), delle abitudini,

delle norme e dei comportamenti spontanei grazie ai quali gli individui possono interpretare, capire e far

proprio l’inserimento ne mondo che li circonda» 34. Negli Stati Uniti, la preoccupazione ecologica è uno dei

temi prediletti dal movimento comunitarista, che respinge l’individualismo della « teoria dei diritti» sviluppata

da John Rawls. In altri paesi, l’emergere dell’ecologismo stimola la volontà di ricreare una cittadinanza attiva

all’interno di nuovi spazi pubblici. Pone l’accento sull’importanza della socialità primaria e dell’autonomia,

ovvero del «far da sé» (Selbstbestimmung, Selbstverwaltung, Selbstverwirklichung) come strumento

privilegiato di autorealizzazione. Insiste sulla necessità di un’iniziativa popolare e di una democrazia

partecipativa di base («think globally, act locally!»), in opposizione alla rappresentanza classica 35. Infine

invita ad esplorare piste inedite, come la divisione del lavoro o l’idea di un reddito di cittadinanza, che si

collocano al di là delle linee di frattura alle quali eravamo sino ad oggi abituati 36.

Il terzo ed ultimo dei nostri rilievi miranti a cogliere la sostanza delle sfide dell’ecologia riguarda la nuova

immagine del mondo svelataci da questa disciplina e le sue potenziali capacità di trasformare il modo in cui

possiamo e dobbiamo considerare noi stessi in rapporto all’insieme del cosmo.

Anche in questo caso dobbiamo tornare indietro di qualche secolo.

Nel Medioevo, l’idea ereditata dall’Antichità di una società «mondana» ricalcata su un modello «celeste» era

ancora presente, anche se il cosmo veniva ricollegato all’intelletto divino. L’uomo veniva dunque concepito

come un microcosmo all’interno del macrocosmo, e la relazione fra i due livelli apparteneva all’ordine della

corrispondenza analogica: la società umana aveva come telos il riflesso dell’armonia del mondo.

Nel Rinascimento, questo modello di cosmo vivente lascia il posto all’immagine di un universo-macchina.

L’«ordine naturale» diventa assimilabile a un insieme di ingranaggi, a un «orologio» che, come è noto, presto

non avrà più bisogno di un “orologiaio”. Nel 1637, nel suo Discours de la méthode, Cartesio fa del cosmo un

vasto sistema matematico di materia in movimento, gettando le fondamenta di una visione puramente

meccanicistica del mondo. Parallelamente il dualismo cartesiano, separando il corpo e lo spirito, finisce col

sottrarre lo spirito dall’ordine del mondo. Infine, ponendo Dio in disparte, come ha sottolineato Pascal (e, dopo

di lui, Sainte-Beuve), Cartesio riduce l’etica a semplice regola di convenienza, facendo piazza pulita del senso

della vita. La natura diviene pura res extensa, materia grezza, campo omogeneo e semplice deposito di oggetti

che la volontà dell’uomo può sfruttare, manipolare e strumentalizzare a suo piacere. La formula ex analogia

hominis sostituisce la formula ex analogia universi, per riprendere le parole di Francis Bacon. Con Cartesio e

Bacone s’inaugura l’era della «filosofia della natura che è all’origine della tecnologia e delle prassi industriali.

Così si apre l’era di un pensiero nuovo, quello del pensatore solitario che si sostituisce a quell’interlocutore che

era l’essere umano» 37.

Accentuando il dualismo tra materia e spirito, Cartesio apre infatti la strada ad uno spiritualismo slegato dalla

realtà e ad un materialismo sprovvisto di coscienza. Nel contempo incoraggia l’idea di un mondo creato

paragonabile a un sistema meccanico accessibile alla conoscenza umana attraverso la semplice ragione e che

ha l’unico scopo di perseguire la propria utilità. Il crollo di tutte le visioni del mondo organicistiche accelera

pertanto il processo di “disincanto” del mondo. Il sentimento che un tempo spingeva l’uomo a porsi in armonia

con quello che considerava l’ordine generale dell’universo si trasforma in un semplice sapere di cui l’umanità è

chiamata a servirsi per aumentare il proprio controllo delle cose, senza più doversi interrogare sulla finalità di

tale controllo. Il mondo è determinato, e dunque prevedibile. L’anima diventa privilegio dell’uomo, nel quale si

interiorizza, mentre gli animali non sono più altro che “automi”. Fa così la sua comparsa l’umanismo, nel senso

moderno del termine. L’uomo diventa un soggetto che si attribuisce la sovranità su un mondo trasformato in

oggetto, sperimentando in tal modo una “libertà” che lo pone a fondamento di ogni norma. Questa evoluzione

fa nascere una nuova forma di umanità; equivale ad una trasformazione dell’essenza della verità. «Sino a

Cartesio», scrive Heidegger, «ogni cosa sussistente in sé aveva valore di “soggetto”; ma adesso l’ “io” diventa

il soggetto insigne, in rapporto al quale le cose stesse diventano “oggetti”» 38. La tecnica, che era all’origine

dell’ordine della cooperazione con il mondo, si fa ora considerare come il vettore privilegiato di un potere

illimitato. In un mondo svuotato di senso e di valore, semplice riserva di energia e di risorse, l’uomo si può

imporre come utilizzatore sovrano di una natura divenuta puro strumento per i suoi scopi, una natura che esso

ritiene integralmente spiegabile e dunque passi. bile di appropriazione. L’uomo, in altri termini, può ormai

“dominare” il mondo, sottometterlo completamente all’assiomatica dell’interesse e al principio di ragione, allo

spirito di calcolo e all’esigenza del rendimento. Si può notare che l’emergere di questa concezione

meccanicistica della natura corrisponde strettamente alla valutazione monetaria “oggettiva” e alla

determinazione del valore delle cose attraverso il prezzo di mercato, che stanno al centro della concezione del

mondo del capitalismo mercantile. Quanto al dualismo cartesiano tra corpo e spirito, esso finisce con il far

svanire ogni idea di “natura” nella definizione della natura dell’uomo, sfociando in tal modo nella teoria della

tabula rasa, che fa dell’animo umano una cera vergine al momento della nascita, e nella moderna teoria dei

“diritti naturali”, che fa riferimento a una” natura umana” ritenuta a priori radicalmente diversa dalla natura

tout court.

La medesima visione delle cose sarà peraltro ripresa da una gran quantità di ricercatori e teorici. Nel XVII

secolo, Francis Bacon si assegna l’obiettivo di «stabilire il potere e il dominio della razza umana sull’universo»,

arrivando al punto di immaginare, nella sua Nuova Atlantide (1624) un “clero scientifico” che ha il compito di

razionalizzare tutte le attività dell’uomo. Con Galileo comincia a regnare la matematizzazione delle scienze

della natura, poiché si reputa che soltanto gli aspetti quantitativi della materia esprimano la verità del mondo

che ci circonda. Nel XVIII secolo, Kant afferma che solo gli esseri in grado di fondare la propria libertà

sull’autonomia della volontà sono fini in sé. La natura e gli animali, che non ricevono alcuna considerazione,

hanno in lui lo status di cose e di strumenti: «Gli esseri la cui esistenza non dipende dalla nostra volontà ma

dalla natura non hanno che un valore relativo, e di conseguenza devono essere chiamati cose» 39. Lo stesso

accade in Fichte, il quale interpreta il mondo come un esclusivo campo di attività per l’uomo, cosicché, come

ha opportunamente notato Max Horkheimer, «il rapporto fra l’ego e la natura è un rapporto tirannico. L’intero

universo diventa uno strumento dell’ego, benché l’ego non abbia alcuna sostanza né alcun senso, salvo che

nella propria attività illimitata» 40.

L’apologia del produttivismo che discende da questa visione del mondo, e che ritroviamo nel XVIII e nel XIX

secolo in tutti i teorici liberali, è presente anche in Marx. Esattamente come Adam Smith, Marx concepisce

l’istituzione sociale solo attraverso un’attività produttiva concepita come scontro con la materia e

trasformazione di tale materia in valore tramite il lavoro. Attraverso il lavoro l’uomo non trasforma solo la

natura, «modifica la propria natura e sviluppa le facoltà che sonnecchiano dentro di essa» 41. L’idea di lavoro

produttivo riassume dunque tutta la socializzazione delle capacità umane. Ne risulta che la produzione è un

bene in sé, i cui progressi comporteranno automaticamente quelli della condizione generale dell’umanità.

Certo, questa produzione viene oggi effettuata sotto l’orizzonte del capitalismo, ma quest’ultimo, senza

saperlo, prepara l’avvento del comunismo. Come scrive Ted Benton, «con il suo ruolo storico progressista, il

capitalismo accelererebbe lo sviluppo delle forze produttive a tal punto che la transizione verso un’era di

libertà e di abbondanza [diverrebbe] una possibilità reale [...] La produzione industriale moderna, generata

dalle relazioni economiche capitalistiche, è una precondizione della società comunista futura» 42. Marx

afferma infatti: «Lo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale è il compito storico e la giustificazione del

capitale. Assolvendolo, appunto, senza saperlo, esso crea le condizioni materiali di un modo di produzione più

elevato» 43. Marx pensa dunque che il produttivismo sia, nell’essenza, neutro, che l’alienazione che esso

provoca sia esclusivamente legata a un determinato modo di produzione, e che sarà l’accelerazione della

produzione a creare le «contraddizioni» necessarie all’avvento di una società senza classi. Nel lavoro egli non

vede altro che un processo di trasformazione e non di impoverimento della natura, e condivide con il

capitalismo, che ammira e nel contempo condanna, il sovrano disprezzo per le «esternalità» negative.

Vedendo soltanto limiti interni all’espansione del capitalismo, ignora addirittura il concetto di rarità naturale,

che la sua teoria del valore-lavoro, per definizione, esclude 44.

Dai tempi di cui ci stiamo occupando in poi, la Terra è stata costantemente trattata come un oggetto fisico

inanimato, sfruttabile a piacimento. «Dominio e possesso», scrive Michel Serres, «ecco la parola d’ordine

lanciata da Cartesio all’aurora dell’età scientifica e tecnica, quando la nostra ragione occidentale partì alla

conquista dell’universo. Noi lo dominiamo e lo facciamo nostro: filosofia comune soggiacente tanto all’impresa

industriale quanto alla scienza cosiddetta disinteressata, da questo punto di vista non dissociabili l’una

dall’altra» 45. Serres aggiunge: «Abbiamo perso il mondo: abbiamo tra sformato le cose in feticci o in merci

[...] Dobbiamo cambiare direzione e abbandonare il punto di partenza imposto dalla filosofia di Cartesio» 46.

Ebbene: quel che oggi propone l’ecologia, ogni volta che cerca di ricollegare l’uomo alla natura e di rispondere

alla perdita di senso causata dalla loro separazione, è proprio l’adozione di un nuovo «punto di partenza». Essa

ci invita ad un « cambio di direzione », ogniqualvolta reagisce ad un antropocentrismo che fa dell’uomo un

valore supremo soltanto nella misura in cui considera la natura un assoluto non-valore.

Comportandosi in questo modo, l’ecologia prende atto di una tendenza generale delle scienze che, dopo le

rivoluzioni copernicana e darwiniana, ci ha insegnato che la Terra era un pianeta in mezzo ad altri pianeti e la

specie umana era l’erede di una lunga catena di esseri viventi. Ma con questo approccio essa si ricongiunge

anche a una concezione del mondo che è sempre stata tipica delle società tradizionali troppo spesso

apostrofate come « società chiuse » mentre al contrario sono aperte alla totalità del cosmo, e quindi in grado

di integrare tutte le componenti del corpo sociale, diversamente dalle società moderne, che Popper ha definito

«aperte» ma in realtà sono chiuse a qualsiasi prospettiva cosmica e provocano al proprio interno esclusioni

d’ogni genere. Di questa apertura sono una testimonianza, ad esempio, l’opinione che nel1855 il capo indiano

Duvamish espresse al presidente Pierce: «Noi siamo una parte di questa terra ed essa è una parte di noi. Non è

stato l’uomo a creare il tessuto della vita; ne è solo un filo. Ciò che voi farete al tessuto lo farete a voi stessi».

O le parole di un capo tribù Wanapum che nel medesimo periodo, spiegava perché il suo popolo rifiutasse uno

sfruttamento troppo intensivo della Terra: «Dovrei forse prendere un coltello per affondarlo nel seno di mia

madre? Ma allora, quando sarò morto, chi mi riaccoglierà nel suo grembo?».

Questa Idea, secondo cui il cosmo è un tutto armonico, questo tutto è animato e vivente e l’uomo ne fa parte

pur occupandovi un posto particolare, cosicché più cresce la sua amichevole convivenza con il mondo più egli

stesso risale alla fonte del suo essere, non ha mai smesso, malgrado Cartesio e i suoi successori, di essere

presente nella storia dell’Europa.

Già nel II secolo della nostra era si legge in Marco Aurelio: «Tutte le cose viventi sono legate le une alle altre;

questo legame è sacro e niente, o quasi niente, è estraneo ad alcuna cosa [...] Rappresentati il mondo come un

essere unico ed un’unica anima. Considera come tutto contribuisce alla causa di tutto, e in quale maniera le

cose sono tessute ed arrotolate assieme». Nel secolo successivo, Plotino fa dell’«anima del mondo»

l’intermediario fra mondo sensibile e mondo divino. Riprendendo da Platone l’idea secondo la quale è l’anima a

contenere il corpo e non viceversa, Plotino afferma che tale «anima del corpo» è ciò attraverso cui tutto può

essere distinto senza essere separato: «È come nel cerchio il centro dal quale partono i raggi. L’anima è nel

contempo una e molteplice, una per se stessa, molteplice per i corpi che anima e che sono composti di parti:

ma essa è tutta intera in ciascuna parte» 47.

La stessa idea si ritrova in Paracelso, quando dichiara: «L’universo è uno [...] È un vasto organismo nel quale le

cose naturali si armonizzano e simpatizzano reciprocamente». Essa è presente anche nei Pensieri di Pascal:

«Tutte le cose essendo causate e causanti, aiutate e aiutanti, mediatamente e immediatamente, e tutte

essendo tenute assieme da un legame naturale e insensibile ma che lega fra di loro anche le più lontane e le

più diverse, ritengo impossibile conoscere le parti senza conoscere il tutto. Nonché conoscere il tutto senza

conoscere le parti». Più tardi Goethe dirà a sua volta che, “nella natura vivente, niente si produce che non sia

inscritto in un tutto”. Novalis scrive: “Non so perché si parli sempre di un’umanità separata. Gli animali, le

piante, i ciottoli, le stelle e i venti non appartengono essi pure all’umanità?”. Adam Müllier afferma che tutti gli

esseri formano un unico grande organismo. Troviamo considerazioni identiche non solo fra i rappresentanti

della filosofia religiosa della natura, da Schelling a Franz Baader, o fra i Naturphilosophen romantici, o ancora

fra gli esponenti di un certo esoterismo cristiano, da Jacob Böhme a Oetinger, ma anche in William Blake, in

Nietzsche, in Albert Schweizer o in Martin Buber.

In questa sede ci limiteremo a citare un brano ispirato dell’autore de Il serpente piumato e L’amante di Lady

Chatterley: «Noi non manchiamo né di umanità né di soggettività », scrive D.H. Lawrence; «manchiamo di vita

cosmica, del sole e della luna dentro di noi [...] Il cosmo e noi siamo una cosa sola. Il cosmo è un grande

organismo vivente, del quale facciamo sempre parte. Il sole è un grande cuore le cui pulsazioni percorrono

sinanco le nostre vene più fini. La luna è un grande centro nervoso scintillante da cui noi riceviamo di continuo

vibrazioni [...] E tutto questo è vero alla lettera, come sapevano gli uomini del tempo passato, e come lo

sapranno di nuovo [...] [Ma] abbiamo perduto il cosmo. Il sole non ci nutre più, né la luna. In linguaggio mistico,

la luna si è oscurata, e il sole è diventato nero. Adesso dobbiamo ritrovare il cosmo, e ciò non si ottiene con un

gioco di prestigio mentale. Dobbiamo far rivivere tutti i riflessi di risposta che sono morti in noi. Ucciderli ha

preso duemila anni. Chi sa quanto tempo ci vorrà per rianimarli? [...] Quel che vogliamo, è distruggere le nostre

false connessioni inorganiche, in particolare quelle che hanno a che fare col denaro, e ristabilire le connessioni

organiche viventi con il cosmo, il sole e la terra, con l’umanità, la nazione e la famiglia. Cominciare con il sole e

il resto verrà lentamente, molto lentamente» 49.

Queste affermazioni possono sembrare puramente filosofiche o letterarie. Ma anche la scienza si è molto

evoluta da alcuni decenni a questa parte. È nota “l’ipotesi Gaia” avanzata da James Lovelock, che definisce la

Terra «un’entità autoregolatrice della capacità di difendere la salute del nostro pianeta controllandone

l’ambiente chimico e fisico» 10. È naturalmente un’ipotesi controversa, non meno di quella di un’«anima della

natura» ripresa di recente da Rupert Sheldrake, partito da una teoria dei campi morfogenetici la quale

presuppone che tutti i sistemi autoregolativi si organizzino sotto l’influenza di campi creatori di forme 51. Non

è tuttavia esagerato dire che in linea generale, in quasi tutti i campi, il punto di vista riduzionistico e

meccanicistico cede terreno di fronte a interpretazioni del mondo che si richiamano piuttosto a schemi di tipo

olistico, fondati sui concetti di complessità, reciprocità e causalità circolare, i quali tendono a rappresentare

l’universo nell’ottica di una perpetua morfogenesi, i cui elementi sono tutti solidali. L’immagine del mondo che

ne risulta è assai simile a quella degli ecosistemi, la cui capacità rigenerativa si colloca in una prospettiva che

si discosta sia dalla concezione meramente lineare del tempo, sia dalla separazione radicale tra soggetto e

oggetto. Tutte le teorie dell’auto-organizzazione, olistiche o sistemiche che siano, ispirano del resto ecologismo

contemporaneo 52.

«Istintivamente», ha scritto Jean Giono, «tu sapevi che separarti è morire». Nella sua accezione più elevata,

l’obiettivo dell’ecologismo è proprio quello di riunire ciò che era stato arbitrariamente separato: l’anima e il

corpo, la materia e lo spirito, il soggetto e l’oggetto, le parti e il tutto, l’uomo e il resto dell’universo. A tutte

queste dicotomie obsolete l’ecologia contrappone l’idea che l’uomo, distruggendo la natura, si distrugge,

mentre invece, sforzandosi di comprendere meglio la natura alla stregua di una donatrice alla quale è legato

da un rapporto di coappartenenza, egli sarà in grado di conoscersi meglio e di raggiungere i suoi scopi. Questi

tre aspetti ci sembrano cruciali per discutere sensatamente, oggi, di ecologia. Ma non sarebbe onesto passare

completamente sotto silenzio i vicoli ciechi nei quali l’ecologia può andarsi ad infilare. La storia del concetto di

“natura”, ad esempio, ne mostra l’enorme ambiguità. Per millenni, l’uomo ha continuamente cercato di

decifrare i discorsi della natura; e le interpretazioni che ne ha dato sono sempre state contraddittorie. Inoltre,

mentre gli uni vedono nella natura un modello da seguire, altri ritengono che piegare ad essa l’uomo significhi

fargli subire la peggiore delle alienazioni. La natura, certo, può essere considerata sia qualcosa di armonico ed

equilibrato, sia qualcosa di minaccioso, crudele e disordinato. L’ “ordine naturale” può assumere significati

differenti, a seconda che lo si fondi sulla competizione o sulla cooperazione, e le “leggi naturali” sono sempre

tali solo assai relativamente, dal momento che l’uomo, a quanto pare, può violarle.

Taluni parlano di «diritti della natura», come se la natura fosse un soggetto dì diritto, cosa che ovviamente non

è. Un discorso di questo genere rischia di sfociare nel pangiurisdicismo, o di cadere paradossalmente in un

antropomorfismo che sarebbe, in questo ambito, particolarmente fuori luogo. Altri vorrebbero sostituire

all’antropocentrismo ereditato da Cartesio una sorta di “biocentrismo” egualitario, in cui la vita di un uomo in

fin dei conti sarebbe giudicata equivalente a quella di una mucca o di un pidocchio. Un atteggiamento di

questo genere finisce semplicemente col far passare da un eccesso all’altro. Sta infine di fatto che un certo

“integralismo” ecologista tende di frequente a scivolare nel catastrofismo o nell’apocalittismo 53 e può fare da

sostegno a un discorso igienista che le società contemporanee tendono a utilizzare come surrogato dell’ordine

morale. Sarebbe un grave errore sostituire un dualismo con un altro, opporre la natura alla cultura o proporre

come unica alternativa alla devastazione della Terra la scomparsa dell’umanità. In realtà, la natura può essere

percepita solo attraverso la mediazione di una cultura; ciò fa sì che la relazione fra i due termini dipenda prima

di tutto dal principio dell’«unione senza confusione». L’uomo è un essere vivente fra gli altri, ma ha anche una

propria specificità. Specificità che non lo autorizza a distaccarsi dal resto del mondo né a trattarlo come un

mero oggetto di cui rivendicare la proprietà, ma deve anzi incitarlo a prendere coscienza delle particolari

responsabilità che spettano a chi si colloca al suo livello. In altri termini, riconoscere la specificità umana non

legittima il dominio della Terra, così come la difesa e la conservazione della natura non implicano la negazione

di quel che vi è di unico nella specie umana. Il problema non è stabilire chi, fra l’uomo e la natura, debba

dominare l’altro (il che equivarrebbe a conservare il paradigma cartesiano, sia pur invertendone i poli), ma

come possa essere restaurato e mantenuto il rapporto di coappartenenza che li lega. Questo è il compito che il

pensiero contemporaneo deve assumersi. Heidegger ci pare aver indicato, da questo punto di vista, più di una

pista da seguire nel momento in cui, pur decostruendo sistematicamente l’antropocentrismo moderno, fondato

sulla metafisica della soggettività e sullo scatenamento della tecnica, definisce nel contempo l’uomo «pastore

dell’Essere», facendone cioè l’unico essere vivente in grado di testimoniare il senso delle cose e di dare un

fondamento al mondo che abita.

La «natura», la «meravigliosamente onnipresente» di cui parlava Hölderlin, non è quindi un dato cristallizzato

che l’uomo avrebbe soltanto in custodia; è la physis, la crescita in continuo sboccio che consente all’uomo di

far ritorno alla provenienza, riunione nella presenza e nel contempo apertura alla verità 54. Si tratta, in

definitiva, di capire se la Terra non sia altro che un «oggetto fisico inanimato», come afferma Alain Laurent, se

la natura sia «muta», come suggerisce Alain Renaut 55, oppure se abbia qualcosa da insegnarci e costituisca

in un certo senso una parte di noi stessi. Michel Serres sosteneva che il nostr