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La vita sulla terra: l'evoluzione non è sufficiente

di Carlo Sgorlon - 21/12/2005

Fonte: gazzettino.it

 
Di evoluzionismo e creazionismo hanno parlato recentemente il Gazzettino e molti altri giornali. Mi permetto di tornare sull'argomento perché di esso si è discusso soprattutto in termini statistici. Il tema è diventato d'attualità perché i nuovi libri di scienze compilati con le direttive della riforma Moratti ignorano l'evoluzionismo, o ne parlano in modi evasivi e insufficienti. Di come la «quaestio» vada affrontata nelle scuole, secondo me, lo dirò alla fine di questo scritto.
In genere l'alternativa evoluzionismo - creazionismo è posta in termini troppo semplicistici. Infatti essa significa: o risolvere l'enorme problema dell'origine delle specie viventi con i concetti di casualità, adattamento all'ambiente, lotta per la vita e sopravvivenza del più forte; oppure ricorrendo al concetto di creazione immediata da parte di Dio.

Ma, tanto per cominciare, darwinismo ed evoluzionismo non significano necessariamente ateismo, approdo automatico alla concezione che la vita sia nata «per caso». Lo stesso Darwin in "L'origine della specie" afferma che alle forme dei viventi si aggiunse «il soffio di Dio». Può darsi che il grande scienziato fosse sincero, o che si esprimesse in modi cautelosi per non provocare reazioni violente all'interno della cultura vittoriana. C'è poi da osservare che il creazionismo non dev'essere la concezione assolutamente infantile che si ritiene, se essa è sostenuta da specialisti della statura di Giuseppe Sermonti. Non so bene quali siano le motivazioni di costui. Ma non ho ragioni per dubitare che egli sia un vero scienziato.

Margherita Hack, astrofisica di grande livello, per l'occasione ha affermato che spesso gli uomini alle dottrine scientifiche preferiscono le favole e i miti. Verissimo. Però avrebbe dovuto aggiungere che il mito, la favola, o almeno l'ipotesi di lavoro fantasiosa sono diffusi anche nelle scienze, in particolare nella fisica subatomica. Diceva il Leopardi che noi niente sappiamo e tutto immaginiamo.
 
Qualcosa di simile sosteneva anche Fellini. Infatti l'uomo per sua natura tende a rivestire di fantasie e invenzioni quella parte del reale che rimane ancora misteriosa, che si sottrae all'indagine e alla spiegazione scientifica: cioè, a pensarci bene, tutta la Realtà, della quale conosciamo aspetti del «come» mai del «perché», cioè della sua sostanza profonda. Anche l'astrofisica si nutre di ipotesi di lavoro come il Big Bang, il Big Crunch, la teoria delle stringhe, la rovesciabilità del tempo, la concezione dello «spazio curvo» e tante altre. Un largo margine di ipotesi mitica è dunque diffuso dappertutto anche nella scienza moderna. Anche nell'evoluzionismo. Certo esso si può accettare tranquillamente. Le prove che lo confermano sono schiaccianti. Persino la Chiesa cattolica lo ammette. Ma l'evoluzione e i suoi corollari sono ben lontani dallo spiegare tutta la storia della vita.

Hugo De Vries, un olandese, un botanico darwiniano, al concetto di evoluzione aggiunse quello di «mutazioni brusche». Ma non basta. Attribuire al «caso» anche soltanto la nascita della prima cellula, dalla quale tutti gli esseri viventi sarebbero derivati, è un'ipotesi mitica, perché la cellula si nutre, si riproduce per gemmazione e tramanda alla «figlia» il suo patrimonio genetico. Già la cellula primitiva, in altre parole, obbedisce a un programma complicatissimo di origine misteriosa. C'è nella storia della vita, nella sua formazione di milioni e milioni di specie viventi, un quid enigmatico, un «valore aggiunto» di natura arcana. Si potrebbero fare esempi all'infinito. Come è possibile che, solo per effetto del «caso» esistano spermatozoi maschili e ovuli femminili che fondendosi diano origine a cellule embrionali che nel giro di nove mesi formano un bambino completo, ossia un essere enormemente complesso? Allora esiste un piano? E come esso si è formato? Si fanno bastare la materia, il «caso» e l'evoluzione per spiegare la vita soltanto per tenere il Creatore fuori della porta delle possibilità?

Un altro esempio, degli infiniti possibili. Gli animali «cordati», come potevano vivere nei milioni di anni che furono necessari per la formazione del cuore e del complicatissimo sistema circolatorio, se per morire basta che il sangue non affluisca al cervello per cinque minuti? Certo un modo deve esserci stato, perché gli animali superiori hanno tutti un cuore, il sangue e decine di chilometri di vene, arterie, e vasi capillari. Ma quale?

Da qualsiasi lato si guardi la questione, ci si rende conto che il «caso» non è sufficiente a spiegare tutto quanto. Del resto, se davvero bastano la materia, il caso, l'evoluzione, l'adattamento all'ambiente e così via, allora bisognerebbe dire che queste cose sono altrettanti aspetti del Creatore. Nell'evoluzione dunque agiscono elementi che non sappiamo definire. Non elementi infallibili, perché tanti esseri viventi nascono con grandi o grandissimi difetti. Perciò molti, piuttosto che pensare a un Creatore perfetto, preferiscono ipotizzare una specie di luogotenente di Dio, inconsapevole; ossia forze cosmiche di ogni genere, che agiscono all'interno della natura, come del resto anche all'interno dell'atomo o del Cosmo, cioè a tutti i livelli e le scale del Reale.

É difficile essere veramente atei. Più naturale è essere almeno panteisti; o deisti; o teisti; ma con la concezione di fondo che tutto l'essere è un gigantesco mistero che noi uomini, sempre «al buio delle cose», come afferma il Guicciardini, cerchiamo di spiegare con favole e miti poetici, scientifici, filosofici, religiosi.

Per tutto ciò io do ragione alla Moratti. Meglio spiegare ai bambini e ai ragazzi l'origine della vita con favole che alludano appena all'evoluzionismo. Solo agli adolescenti e ai giovani si debbono fornire le teorie darwiniane vere e proprie. Ma sempre senza perdere di vista il fatto che esse non spiegano ogni cosa; che hanno bisogno anch'esse del puntello della favola, del mito, dell'ipotesi di lavoro scientifica e di un velo di religiosità globale, che è innanzitutto un modo di sentire il Reale come fondamentalmente misterioso e quindi sacrale.