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Il borghese: figura e dominio

di Alain de Benoist - 28/10/2007

 

 

 

 

 

 

Schernito, messo alla berlina, deriso per secoli, il borghese sembra oggi non essere più messo in discussione. Rari sono quelli che lo difendono, rari quelli che lo accusano 1. Sia a destra che a sinistra pare che si ritenga ormai che ci sia qualcosa di fuori moda o di scontato nell'interrogarsi in modo critico sulla borghesia. Eppure, lungi dall'essere una classe in via di sparizione come imprudentemente ipotizza Adeline Daumard 2, la borghesia corrisponde oggigiorno più probabilmente ad una mentalità che ha invaso ogni cosa. Se ha perduto la sua visibilità, è semplicemente perché non la si può più localizzare. « Il borghese è letteralmente scomparso », si è potuto affermare di recente, « non esiste più, è l'Uomo in persona, e il termine viene utilizzato soltanto da alcuni dinosauri, che il ridicolo finirà per uccidere » 3. La parola, dunque, non avrebbe più contenuto per il fatto di averne troppo. E nondimeno, come ha notato Jacques Ellul, « Porre questa innocente domanda: "chi è il borghese?", provoca eccessi talmente vistosi nei più ragionevoli che non posso considerarla inerte o priva di pericoli »4. Cerchiamo dunque di riformularla, descrivendo in primo luogo per grandi linee la storia della formazione e dell'ascesa della classe borghese.

In Francia, lo sviluppo della borghesia deve tutto alla dinastia capetingia, che si allea ad essa per liquidare l'ordine feudale. Le grandi invasioni terminano nell'XI secolo. Nel corso dei due secoli successivi si afferma il movimento comunale: i comuni, che sono associazioni di "borghesi" delle città 5 percepiscono il sistema feudale come una minaccia ai loro interessi materiali. Un po' ovunque i borghesi, che non sono né nobili né servi ma uomini liberi 6, chiedono di passare sotto l'autorità del re per non essere più soggetti ai loro signori. In rivolta contro l'aristocrazia, "riconoscono" il re e "sconfessano" il signore, cioè chiedono al re di conceder loro delle « lettere di borghesia » che li affranchino dagli antichi obblighi. La monarchia capetingia, rivale dei feudatari, appoggia questo movimento e crea i « borghesi del re ». A partire dal XII secolo, essa sostiene che si potrà presentare appello davanti ai suoi tribunali contro sentenze emesse dai signori, e priva la nobiltà del diritto di esigere imposte. Parallelamente, istituisce una giurisdizione più omogenea, fondata su un diritto razionale derivato dal diritto romano, a spese del diritto consuetudinario.

La borghesia punta sullo Stato in via di formazione poiché esso è l'istituzione maggiormente in grado di favorirne l'ascesa. Inoltre, essendo più lontano, esso costituisce già un'autorità più astratta, più impersonale. Grazie ad esso i borghesi tutelano i propri interessi ottenendo franchigie commerciali e professionali. 10 Stato, dal canto suo, si aspetta dalla borghesia mezzi finanziari. Assicurandone la promozione, distrugge i legami feudali che sono di ostacolo al suo potere. Questa tendenza si accentua, singolarmente, al tempo della guerra dei Cent' Anni (1346-1452). Per partecipare alla guerra i signori devono infatti procedere ad ulteriori alienazioni di beni e di diritti sulle persone. La borghesia ne approfitta. Accanto all'economia signorile si crea pertanto un altro settore economico, affrancato dalle costrizioni feudali, che evolverà poi verso il capitalismo. Appoggiandosi alla borghesia, la monarchia capetingia crea di pari passo il regno e il mercato, e dà il via al processo di unificazione della Francia, che si concluderà sostanzialmente alla fine del XV secolo. « Senza l'aiuto che la borghesia prestò spontaneamente alla monarchia », sottolinea Pierre Lucius, « quest'ultima non sarebbe stata capace di procedere alla riunificazione delle terre che costituiscono oggi la Francia » 7

 

La borghesia punta sullo Stato

 

Il sistema feudale si sbriciola all'inizio del XV secolo. Nello stesso periodo l'avvento dell'artiglieria toglie alle fortificazioni la loro utilità militare. Mentre la vecchia aristocrazia terriera comincia ad impoverirsi,l'osmosi fra la borghesia e la dinastia capetingia si accentua. La monarchia recluta i suoi consiglieri nella classe borghese. Jacques Coeur diventa ministro delle finanze di Carlo VII. Nel secolo seguente, nel 1522, Francesco I istituisce la venalità degli uffici su consiglio del finanziere Paulet. Mediante pagamento di una tassa, l'ufficio diventa ereditario. « La venalità degli uffici », scrive ancora Lucius, « garantisce il trionfo della borghesia, che aveva acquisito l'agiatezza nel commercio e nell'industria. Mentre la nobiltà veniva decimata in guerra oppure, sfaccendata, deperiva a corte o nelle proprie terre, le borghesie di denaro si impadronirono dello Stato » 8

Parallelamente, lo Stato cerca in tutte le maniere di massimizzare le entrate finanziarie e fiscali. Dal XIII secolo in poi conduce un'attività "capitalista", fondata sulla razionalizzazione e sull'intervento.ad oltranza. Colbert, discendente da varie generazioni di mercanti, dirà: « Tutti quanti, credo, si troveranno d'accordo nel riconoscere che la grandezza e la potenza di uno Stato si misurano unicamente sulla quantità di denaro che esso possiede » 9. A tale scopo, lo Stato sviluppa il commercio su larga scala e crea il mercato in uno spazio "defeudalizzato", già reso omogeneo dall'uniformità delle norme giuridiche. Non essendo gli scambi comunitari, non mercantili, fondati su legami di reciproca dipendenza personale, fiscalmente perseguibili, si sforza di limitarli. « Lo Stato è vitalmente interessato allo sviluppo dell'economia di mercato e alla riduzione degli scambi non mercantili », scrive Pierre Rosanvallon. « Le sue ambizioni politiche e quelle fiscali si coniugano perciò per legare la sua sorte a quella del mercato » 10. La formazione del mercato, resa possibile dallo smantellamento del sistema feudale, implica però la generalizzazione del sistema del valore di scambio, al cui interno l'individuo atomizzato è sempre più portato a guardare solo al proprio interesse privato. Adoperandosi ad instaurare la "libertà industriale",la monarchia attacca dunque le solidarietà organiche tradizionali. Essa esercita il suo potere sui dei sudditi, non su dei gruppi autonomi; stacca già l'individuo dai suoi simili, mettendo così in moto un processo che la Rivoluzione si limiterà a radicalizzare. Lo Stato nazionale si costruisce pertanto allo stesso ritmo del mercato, mentre la borghesia prosegue la sua ascesa. « Individualismo e statalismo marciano di pari passo », diceva Durkheim.

Numerosi autori (Pierre Rosanvallon, Louis Dumont, Marcel Gauchet) hanno posto in luce questa stretta relazione fra individualismo, Stato nazionale ed avvento del mercato. « Il mercato è in principio un modo di rappresentazione e di strutturazione dello spazio sociale », nota Rosanvallon. « Solo in seconda battuta è un meccanismo di regolamentazione decentralizzata delle attività economiche attraverso il sistema dei prezzi. Da questo punto di vista lo Stato nazionale e il mercato rimandano ad una medesima forma di socializzazione degli individui nello spazio. Essi sono pensabili unicamente nel contesto di una società atomizzata. nella quale l'individuo viene considerato autonomo. Non possono dunque esistere Stato nazionale o mercato, nel senso sia sociologico che economico di questi termini, in spazi nei quali la società si dispiega come un essere sociale globale » 11. In questa prospettiva va situata l'azione dello Stato capetingio per dissolvere, con l'ausilio della borghesia, i rapporti sociali ereditati dalla feudalità. Lo Stato « non avrà pace fino a quando non avrà distrutto metodicamente tutte le forme intermediarie di socializzazione formatesi nel mondo feudale, le quali costituivano delle comunità naturali abbastanza importanti nella loro dimensione da essere relativamente autosufficienti: clan familiari, comunità di villaggio i (che svolgono fra i contadini il ruolo che il lignaggio ha per i nobili), confraternite, mestieri, partiti, ecc. [...] Partecipando alla liberazione dell'individuo dalle sue forme precedenti di dipendenza e di solidarietà, esso sviluppa l'atomizzazione della società di cui ha bisogno per esistere » 12. Lo stesso genere di osservazione è formulata da Gilles Lipovetsky: « È stata l'azione congiunta dello Stato moderno e del mercato a consentire la grande frattura che ormai ci separa per sempre dalle società tradizionali, la comparsa di un tipo di società nella q~'uomo individuale si prende per fine ultimo ed esiste solamente per se stesso »13. Si può dunque considerare equivalenti  i tre termini borghesia, capitalismo, modernità 14. Interrogarsi sulla formazione della classe borghese significa portare alla luce le radici della modernità.

Ma già sin dal XV secolo, di fatto, il denaro inizia a svolgere un ruolo essenziale. Erasmo (« Pecuniae obediunt omnia ») lo deplorerà, così come farà Hans Sachs «Gelt is auff erden der irdisch gott»). L'intera società feudale era ordinata sulla base della nozione di bene comune: i corpi e le corporazioni dovevano assumere il solenne impegno di sottomettersi alle sue esigenze. Il diritto di proprietà era riconosciuto non come un diritto in sé o come un diritto assoluto, ma per ragioni pratiche e contingenti (essendo le ricchezze gestite meglio da singoli che da collettività). Il calcolo economico non è dunque altro che un meno peggio. D'altro canto non si mira all'esattezza: « Quella che i conti debbano essere necessariamente esatti è un'idea specificamente moderna » (Sombart). Il denaro, in definitiva, esiste solo per essere speso: « Usus pecuniae est in emissione ipsius » (Tommaso d'Aquino).

« Il perseguimento del guadagno per il guadagno, illucrum in infinitum, la speculazione e il maneggio del denaro sono condannati come una passione [ vergognosa. Il Medioevo era severo verso l'acquisto e la rivendita con guadagno di una cosa il cui valore d'uso non è stato aumentato dal lavoro. Gli pareva che in tal caso il beneficio non fosse giustificato da alcun servizio reso dal venditore all'acquirente. In virtù del medesimo principio la Chiesa condannava il prestito ad interesse » 15 A mano a mano che la borghesia si afferma, si assiste a questo riguardo ad un autentico rovesciamento di valori. Ormai la stima numerica è fondamentale 16. L'avidità di guadagno si trasforma in una virtù 17. Nel suo trattato di Oeconomie politique, dedicato a Luigi XIII, Antoine de Montchrestien proclama che l'arricchimento è un fine in sé: « La fortuna dell'uomo consiste principalmente nella ricchezza ».

L'attività economica cambia allora natura. Da empirica quale era, diventa razionalista. Doveva soddisfare gli scopi umani; adesso tocca all'uomo piegarsi alle sue leggi. Era essenzialmente un'economia della domanda e dell'uso; si trasforma in economia dell'offerta e dello scambio. Inoltre, più il mercato si estende, più si fa sentire la necessità degli intermediari, e più si accresce il ruolo del mercante, vale a dire di quell'elemento della classe economica che si interessa prima di tutto all'aspetto quantitativo della produzione. Come scrive Werner Sombart, « il commercio orientò, o almeno abituò a poco a poco lo spirito umano a orientarsi verso il giudizio quantitativo. [...] per il mercante scompaiono presto dal mondo dei beni l'importanza e la valutazione della qualità, soprattutto perché egli non ha nessun rapporto organico coi beni che commercia [...] Il mercante [...] rimane di fronte all'oggetto del suo commercio in un rapporto puramente esteriore [...] in esso non vede che un valore di scambio. E qui sta la seconda ragione, la ragione positiva della valutazione puramente quantitativa che egli ne dà: il valore di scambio è una quantità, e il mercante si interessa soltanto della quantità » 18.

 

 

L’influenza della Riforma

 

La Riforma segna una svolta di primaria importanza. Mentre Lutero combatte con forza il nascente capitalismo, Calvino si sforza viceversa di conciliarlo con la morale cristiana. I puritani d'Inghilterra e d'Olanda, e poi d'America, vedranno nell'abbondanza di profitti un segno dell'elezione divina. Le Tesi di Max Weber a questo riguardo sono ben note, ma richiedono qualche sfumatura. Anche la Chiesa cattolica infatti, malgrado il suo rifiuto di attribuire al denaro un valore a sé stante, ha contribuito allo sviluppo del capitalismo borghese. Da un Iato essa sviluppa l'idea di un valore-lavoro (l'uomo : sulla terra per lavorare, e per lavorare sempre di più): denunciando l'« inattività » (otium), garantisce la non-inattività, cioè il neg-otium, il "negozio". Dall'altro, tutta la sua morale si fonda sull'idea di una razionalizzazione dei comportamenti: negli atti umani è peccato tutto ciò che è in contrasto con l'ordine della ragione. Per cui Tommaso d'Aquino condanna, contemporaneamente all'otiositas, qualunque cosa abbia a che vedere con l'« eccesso » o con la passione. « Se vogliamo determinare l'importanza della religione cattolica per la formazione dello spirito capitalistico », scrive Sombart, « dobbiamo renderci chiaramente conto che già da questa idea fondamentale di razionalizzare la vita doveva nascere un postulato essenziale del pensiero capitalistico, il quale, lo sappiamo, è anch'esso razionale e diretto a un fine preciso. L'idea del guadagno e il razionalismo economico non significano in fondo altro che l'applicazione all'economia delle norme di vita della religione. Perché il capitalismo potesse svilupparsi era prima necessario spezzare le ossa dell'uomo impulsivo e sostituire alla schietta vita originaria un particolare meccanismo psichico razionalmente congegnato; bisognava prima rovesciare tutti i valori e tutte le idee. L' homo capitalisticus è una costruzione artificiale, ben congegnata, uscita alla fine da questo rovesciamento » 19.

In questo nuovo clima la rappresentazione medievale del mondo va in frantumi. Il cartesianismo, che succede al nominalismo, introduce un rapporto con le cose sensibili completamente diverso. Lo spirito e la materia si separano, e lo stesso avviene per divino e mondo, pensiero e azione. Il fondamento della realtà diventa discontinuo. Il mondo, ormai "disincantato", si trasforma in un oggetto di cui ci si può impadronire con l'attività ragionata. È ridotto ad una cosa riempita di cose, tutte valutabili e calcolabili. Cose che hanno un prezzo, ovvero un valore di scambio, che tiene conto dell'offerta e della domanda determinate dalla rarità.

Un tempo, la personalità si formava sulla base dell'appartenenza: puntando all'eccellenza, l'individuo cercava di dare lustro e di proseguire ciò che l'aveva preceduto. Una parte del suo modo di vedere ritornava dunque all'origine. Il novum assume ormai un valore in sé. Lo spirito di iniziativa, sviluppandosi, esige un orientamento verso il futuro (concezione di un piano), e nel con tempo un certo grado di libertà rispetto ai vincoli del momento. L'attività economica stessa è peraltro supposta illimitata: ogni economia capitalistica deve operare al di là dei bisogni e suscitarne di continuo di nuovi. Bisogna dunque cambiare il mondo creandovi sempre qualcosa di nuovo. L' ottimo si riduce allora al massimo e il meglio si confonde con il più. Ossessione del lavoro, del cambiamento, del movimento. Bisogna trasformare il mondo attraverso il fare finanziario, industriale o tecnico. Già da quest'epoca, scrive Jacques Ellul, « ciò che caratterizza la borghesia, ben più della proprietà privata, è l'enorme sconvolgimento ch'essa impone alla società. E il fatto di mettere all'opera un intero mondo. E il succedersi delle rivoluzioni per giungere ad imporre o a mettere a punto un regime politico ideale. È la rimessa in discussione delle strutture economiche e, in un tempo incredibilmente breve, la creazione di nuove strutture; è la conquista della intera terra » 20.

Nel XVII e nel XVIII secolo, il borghese inventa l'idea secondo cui si è sulla terra per essere « felici »; e questa idea ben presto sembrerà la più naturale del mondo 21. Lo sviluppo delle industrie e delle tecniche fa supporre che la felicità sia a portata di mano e che, per raggiungerla, sia sufficiente sopprimere gli ultimi ostacoli ereditati dal passato. Quanto alla felicità, essa viene concepita prima di tutto come un benessere materiale (comfort e sicurezza) dipendente dalle condizioni esteriori, sulle quali, appunto, si può agire. Si sarà dunque più felici quando la società sarà « migliore ». L'ideologia della felicità fa dunque il paio con quella del progresso, che le offre una giustificazione.

Il progresso è quindi in primo luogo sviluppo economico continuo, con tutto ciò che si ritiene esso porti con sé. Lo sviluppo non è più una maturazione che tende alla pienezza, né l'adempimento di una norma o di una finalità. È una addizione indefinita di quantità finite. Lo sviluppo punta a « raggiungere uno stato che è definito esclusivamente dalla capacità di raggiungere nuovi stati » (Cornélius Castoriadis). La borghesia, in altri termini, reintegra l'infinito nel mondo: il meglio di ieri non è che un meno nei confronti del più che verrà. Ma nel contempo, collocando l'infinito nel mondo materiale, la borghesia si trincera in una chiusura spirituale. Come ha assai efficacemente notato Nikolai Berdjaev, « Il borghese, nel senso metafisico del termine, è un uomo che crede soltanto al mondo delle cose visibili e palpabili ed aspira ad occupare in tale mondo un posto sicuro e stabile [...] Egli non si rende minimamente conto della vanità, della nullità dei beni di questo mondo. Prende sul serio esclusivamente la potenza economica [...]

Il borghese vive nel finito, teme i prolungamenti nell'infinito. In fatto di infinito, riconosce solo quello dello sviluppo economico […] Riconosce l'infinitezza dell'accrescimento del benessere, non vede limiti all'organizzazione della vita, ma tutto ciò lo imprigiona sempre più nel finito ». Per cui, in conclusione, « È il borghese a creare il regno delle cose, ma sono le cose a governarlo e dominarlo » 22. In un mondo trasformato in oggetto, anche l'uomo diventa una cosa.

 

 

Quando la monarchia diventa inutile

 

Per un lungo periodo la borghesia ha tratto vantaggio dall'alleanza con la monarchia. La storia di questa alleanza non è stata tuttavia esente da tensioni. C'è voluto poco perché alla classe borghese non bastasse più il favore che le dimostrava lo Stato e cercasse di assumerne il controllo, come accadde al tempo dell'insurrezione di Étienne Marcel (1358) e sotto Luigi XI, poi sotto Francesco I e Luigi XIV. Ma a quell'epoca la borghesia non disponeva ancora di tutti i mezzi necessari alla sua ambizione. Soltanto nel XVIII secolo essa acquisì la forza necessaria ad impadronirsi della sovranità. Si possono così distinguere tre momenti nei suoi rapporti con lo Stato. In un primo tempo la borghesia sale all'interno del potere politico, che la favorisce e che è l'unico a possedere lo strumento amministrativo indispensabile alla costruzione del mercato. In un secondo tempo, grazie alle posizioni conquistate, essa crea un potere proprio, un potere economico di tipo privato. In un ultimo tempo intima al potere politico di assoggettarsi ai suoi fini. A partire dal 1750 la classe borghese, ricca, potente, conquistata alle idee dei Lumi, non ha più bisogno del re, che è di ostacolo ai suoi progetti. Dal suo canto, la monarchia si è instradata verso l'assolutismo. La borghesia, che ha già preso il potere in Inghilterra nel 1688 23, se ne impadronisce in Francia nel 1789. La Rivoluzione vede un completo ribaltamento.

Così come ha saputo sbarazzarsi della monarchia quando non ne ha più avuto bisogno, una volta rovesciato l'assolutismo la borghesia tenterà di sbarazzarsi del popolo. A tale scopo, essa inventa il concetto politico di « nazione », entità astratta che permette di confiscare al popolo quella sovranità che pure gli era stata solennemente attribuita. In teoria il popolo è « sovrano ». In pratica la sovranità appartiene esclusivamente alla nazione, che si ritiene rappresenti il popolo ma si esprime soltanto sulla base del suo statuto giuridico costituzionale. E dal momento che la Costituzione riserva il diritto di voto agli elettori « attivi », cioè economicamente dotati, e soltanto l'assemblea è investita del potere di volere e legiferare in nome della nazione, sono in realtà rappresentanti della borghesia a decidere, giacché il suffragio censitario permette di ridurre l'elettorato alla porzione congrua »24.

 

 

Il secolo borghese

 

Nel XIX secolo il borghese si definisce sia per lo status che per il rango, il patrimonio e le relazioni. È « colui che ha un salotto » (Seignobos), « colui che ha delle riserve » (Andrà Siegfried), o addirittura « colui che possiede un pianoforte ». Che appartenga alla piccola, alla media o all' alta borghesia, alla borghesia di affari o alla borghesia d'impresa, alla borghesia redditiera o alla borghesia « intellettuale e liberale », sia le abitudini che le scelte matrimoniali attestano la sua deferenza verso l'apparire, le convenzioni e l'ordine costituito 25. È l'epoca di quel « cristianesimo borghese » contro il quale si scateneranno Bloy, Péguy e Bernanos, e che conduce Proudhon ad accusare la Chiesa di aver « fatto da serva alla borghesia più crassamente conservatrice »26. È altresì l'epoca in cui il "progresso" trionfa sotto forma di ideologia scientista: il borghese crede alla scienza così come crede alla ferrovia, all'omnibus e all'illuminazione a gas. Ma è soprattutto l'epoca del borghese grottesco, schernito dai romantici, dagli artisti, dalla bohème e dai rapins. È vero che la tradizione del borghese ridicolo, cornuto, credulone e barbogio, risale a Molière se non addirittura aifabliaux medievali, ma adesso essa raggiunge il suo massimo fulgore. I personaggi di Perrichon, Fenouillard, Bouvard e Pécuchet, Monsieur Poirier, Prud'homme, César Birotteau succedono del tutto naturalmente al Bourgeois gentilhomme e al Bonhom! me Chrysale. Ispirano il romanzo popolare e la commedia da boulevard (Labiche, Clément Vautel, Jules Sandeau, Ernile Augier). Eccitano la verve di Baudelaire o di Balzac, il tratto di Daumier e dei caricaturisti de « L' Assietite au beurre ». Flaubert lancia la sua celebre apostrofe: « chiamo borghese I tutto ciò che pensa bassamente ».

Accusato di avere tutti i difetti, il borghese assomiglia a Proteo. Gli si rimprovera il culto del denaro, il gusto della sicurezza, lo spirito reazionario, il conformismo intellettuale, la mancanza di gusto. Lo si dice filisteo, egoista, mediocre. Lo si rappresenta nei panni di sfruttatore del popolo, di paroenu senza distinzione, di notabile satollo, di cretino soddisfatto. Critiche così contraddittorie possono alimentare la caricatura, ma si chiariscono quando vengono messi in luce i differenti ambienti da cui provengono, e soprattutto gli idealtipi ai quali il modello del borghese è contrapposto. La borghesia è disprezzata dalla destra antiliberale, spesso per ragioni estetiche e in nome di valori aristocratici (l'universo del borghese è laido e pretenzioso, i suoi valori sono mediocri), mentre la sinistra s'indigna contro di essa in nome di valori morali e "popolari" (rappresenta i « privilegiati »).

L'atteggiamento di Marx è ambiguo. Da un lato condanna la borghesia con frasi rimaste famose. Dall'altro ne canta le virtù rivoluzionarie e le indirizza lodi perché essa ha sviluppato le forze produttive. Nei fatti, Marx non esplicita mai quella che chiama la « classe borghese », se non per dire che detiene il capitale. Sulle sue origini è praticamente muto. Non si accorge che il borghese è innanzitutto l'uomo economico; e, nella misura in cui anch'egli accorda all'economia un'importanza determinante, critica sempre la borghesia in una prospettiva che sente costantemente propria: l'economicismo gli impedisce di svolgere una critica radicale dei valori borghesi. Ci si accorge d'altronde facilmente che quei valori lo affascinano. Dopotutto la borghesia non è forse stata la prima a cambiare il mondo, invece di limitarsi a interpretarlo? Marx vuole metter fine allo sfruttamento di cui la borghesia è responsabile, non ai valori borghesi: per molti versi, la società senza classi è la borghesia alla portata di tutti 27.

Marx inoltre non abbandona mai la prospettiva individualistica, come hanno evidenziato, fra gli altri, Louis Dumont e Michel Henry. Il concetto di interesse generale in lui è costruito solo per addizione degli interessi individuali, e persino la nozione di interesse di classe è introvabile nella sua opera. Denuncia la finzione dell'individuo isolato, sulla quale si fondano le teorie del contratto e nella quale vede a giusto titolo una rappresentazione tipica di una determinata situazione storica; nondimeno parteggia per un individuo « integrale », che nella società senza classi potrà finalmente « riappropriarsi del suo essere ». Tutta la sua teoria della lotta di classe ha senso soltanto nel quadro di una rappresentazione individualistica della società.

 

 

Gli equivoci del fascismo

 

Non meno equivoci saranno i fascismi. Ostili al liberalismo, non volendo essere in teoria « né a destra né a sinistra », essi nella maggior parte dei casi si limiteranno a radicalizzare una clientela "nazionale" in parte acquisita ai valori liberali e borghesi. Il fatto che una larga parte del loro elettorato sia costituita da classi medie impaurite dalla crisi e minacciate dalla modernizzazione contribuirà alloro imborghesimento. Perlopiù essi si prenderanno la briga di distinguere il « capitalismo industriale e produttivo » dal « capitalismo speculativo e finanziario », limitandosi a denunciare i « grossi », i rappresentanti delle « dinastie borghesi » 28, senza prendersela con il capitalismo in quanto tale. Faranno professione di fede in quell'ordine morale a cui è attaccata quella « piccola borghesia » che Péguy descriveva come « la più sfortunata fra tutte le classi sociali » 29. René Johannet, autore di un celebre Éloge du bourgeois français, aveva simpatia per il fascismo mussoliniano. E quando si rilegge oggi il Manifeste de la jeune droite pubblicato da Drieu La Rochelle nella « Revue hebdomadaire » del 16 gennaio 1926, ci si stupisce nel vederlo proclamare con fierezza che quella giovane destra si vuole « borghese »: «Essa pone francamente come principio il fatto che i suoi capi sono dei borghesi e che i borghesi quelli che lo diventano o che lo restano da una generazione all' altra, con il lavoro e i talenti devono saper conservare l'autorità insieme con la responsabilità »! 30 I fascismi-movimenti, ed ancor più i fascisti-regimi, fanno inoltre ampie concessioni al nazionalismo.

Ovverossia, come scrive Emmanuel Mounier, « combattono all'interno delle loro frontiere un individualismo che sostengono ferocemente su scala nazionale » 31. E la borghesia non si è mai sottratta al compito di difendere la nazione, la patria o l'ordine costituito ogniqualvolta pensava di difendere, così facendo, i suoi interessi.

In definitiva, è senz' altro fra i « non-conformisti degli anni Trenta » che troviamo, nel XX secolo, la critica più radicale della borghesia e dei valori borghesi 32. E prima di loro in Charles Péguy, per il quale il mondo moderno soffre prima di tutto « del sabotaggio borghese e capitalistico »: « Non si esagererà mai nel dirlo. Tutto il male è venuto dalla borghesia. Tutta l'aberrazione. Tutto il crimine. È stata la borghesia capitalista ad infettare il popolo. E lo ha appunto infettato di spirito borghese e capitalista [...] Non si esagererà mai nel dirlo, è stata la borghesia ad iniziare a sabotare, e tutto il sabotaggio è nato nella borghesia. Dato che la borghesia si è messa a trattare come un valore di borsa il lavoro dell'uomo, il lavoratore si è messo a sua volta a trattare come un valore di borsa il proprio lavoro. Dato che la borghesia si è messa a fare continuamente speculazioni borsistiche sul lavoro dell'uomo, anche il lavoratore, per imitazione, per collusione e contrasto, e si potrebbe quasi dire per intesa, si è messo a fare continue speculazioni borsistiche sul proprio lavoro » 33. Non si potrebbe dir meglio.

Lo spirito borghese La borghesia è sempre stata analizzata nel contempo come classe e come rappresentante di una mentalità specifica, di un tipo umano che fa riferimento ad un certo numero di valori. Per Max Scheler, ad esempio, il borghese si definisce prima di tutto. come un « tipo bio-psichico », spinto dalla carenza di vitalità verso il risentimento e l'egoismo calcolatore. il borghese, egli dice, non si chiede mai se le cose abbiano un valore in sé; si limita a domandare: « è buono per me? » 34. Eduard Spranger distingue sulla stessa falsariga sei tipi ideali di personalità, fra i quali il borghese corrisponde all'« uomo economico »: quello che prende in considerazione solamente l'utilità delle cose 35.

Per Nikolai Berdjaev, il borghesismo è in primo luogo una« categoria spirituale ». Lo spirito borghese non si confonde quindi necessariamente con la classe borghese. « Chi ha saputo adottare le abitudini della borghesia è borghese », diceva Edmond Goblot 36. E André Gide: « Mi importano poco le classi sociali; ci possono essere dei borghesi tanto fra i nobili quanto fra gli operai e i poveri lo riconosco il borghese non per l'abito o per il livello sociale ma per il livello dei suoi pensieri. il borghese odia la gratuità, il disinteresse. Odia tutto ciò che non può innalzarsi a comprendere ».

Anche Sombart vede nel borghese un tipo psicologico, in origine distribuito in proporzioni diverse fra i popoli europei, a cui il capitalismo ha permesso di diventare dominante. Egli ammette, beninteso, che spirito capitalista e capitalismo vanno di pari passo. Tuttavia, dando per scontato che i fattori psichici o spirituali intervengono nella vita economica e che a sua volta questa li determina, e ricordando che, dato che le organizzazioni sono opere umane, il produttore viene necessariamente prima del prodotto, afferma che lo spirito capitalista preesisteva in qualche misura al capitalista, cioè che il nascente capitalismo è stato in un primo momento opera di temperamenti predisposti a certi comportamenti: temperamenti più introversi, più concentrati, più portati al risparmio che alla spesa, più contratti che espansivi, più « repressi » che « dilatati » 37. li capitalismo nasce, ad avviso di Sombart 38, nelle repubbliche mercantili del nord Italia ed in particolare a Firenze, sin dalla fine del XIII secolo. li tipo compiuto del borghese si troverebbe già in Leon Battista Alberti, autore di una famosa opera intitolata Del governo della famiglia, redatta fra il 1434 e il 1441. In essa Alberti tesse l'elogio di quello che chiama« il santo spirito d'ordine » (sancta cosa la masserizia), il quale si contraddistingue per lo spirito di risparmio e la razionalizzazione del comportamento economico. Non solo, dice, non si deve spendere più di quanto si possiede, ma meglio ancora è spendere meno di quanto si possiede, vale a dire risparmiare: si diventa ricchi non solo guadagnando molto, ma anche spendendo poco. « Un intensivo sviluppo della dottrina morale borghese, come venne formulata dai quattrocentisti, nel senso stretto non si è mai avuto. Quel che durante tutti i secoli a venire verrà insegnato ai commercianti in erba, è ben poco diverso da quel che l' Alberti raccomanda ai suoi allievi » 39. Sono in effetti identici i precetti che troviamo, a partire dal XVII secolo, nei grandi trattati di virtù borghese quali Le Parfait Négociant, pubblicato da Savary nel 1675, che sviluppa l'idea della natura fondamentalmente pacifica della relazione commerciale, o The Complete English Tradesman, scritto da Daniel Defoe verso il 1725, opera in cui l'autore di Robinson Crusoe si schiera a favore dell'autonomia dell'attività economica, tesse l'apologia della morale puritana e condanna i costumi aristocratici in voga in questi termini: « Quando vedo un giovane bottegaio possedere dei cavalli, darsi alla caccia, addestrare dei cani, e quando lo sento parlare il gergo degli uomini di sport, tremo per il suo futuro »! Le stesse idee (critica della frivolezza, della spesa inutile) si ritrovano anche in Locke e in Benjamin Franklin. È in effetti nel mondo anglosassone, stimolato dal calvinismo e dal puritanesimo, che le virtù del borghese vecchio stile troveranno le condizioni migliori per espandersi: applicazione, risparmio, frugalità, temperanza, spirito di ordine e di calcolo. Perché si tratta prima di tutto di eliminare la fantasia, il rischio, la passione, la gratuità; di creare ovunque leggi e regolamenti; di pesare il valore delle cose, di valutare l'interesse delle aspirazioni quotidiane. Franklin giustifica la virtù dicendo che è in primo luogo utile. Per il borghese, ogni azione deve respirare la« saggezza economica » (Sombart).

Le antiche virtù borghesi si oppongono dunque in prima istanza al modo di vita signorile, fatto di prodigalità, di spese senza tener di conto, di predazione e nel contempo di generosità, di gratuità in tutti i sensi della parola. Sombart ha descritto questo contrasto di temperamenti in termini che colpiscono: « Questi due tipi fondamentali: i liberali e i risparmiatori, i temperamenti aristocratici e quelli borghesi [...] si troveranno ormai di fronte in ogni occasione della vita e in una netta opposizione. Essi valutano in modo diverso il mondo e la vita: [...] quelli sono individui, questi elementi di un gregge; quelli sono individualità, e questi tipi; quelli esteti e questi moralisti. [...] Quelli cantano e suonano, questi non hanno voce. Non solo nella loro stessa essenza, ma anche nel modo di esternarsi quelli sono coloriti, questi incolori. Artisti (per inclinazione, non di professione) gli uni, funzionari gli altri. Quelli lavorati in seta, e questi in lana » 40.

La favola di La Fontaine, La cicala e la formica, segna già, in modo ameno, un radicale rovesciamento di valori. « Ciò che significava decadenza per l'aristocratico diventa ideale per il borghese » (Evola). Tutte le qualità legate all'onore (il « punto d'onore ») vengono svalutate. « Guardati dal prendere eccessivamente a cuore le offese », scrive Benjamin Franklin, « esse non sono mai quel che sembrano di primo acchito ». Ci si può infatti sempre « spiegare ». Ormai non si deve più andare alla ricerca di gloria, onore o eroismo. In tutte le cose si deve essere pratici, parchi e misurati. Il borghese tiene alla considerazione, che implica di rispettare le convenzioni, più che alla gloria, che a volte si ottiene solo calpestando le regole. La qualità, di qui in avanti, sarà ridotta al merito. « Il sublime è morto nella borghesia », diceva Sorel.

Sombart scopre anche una contrapposizione radicale tra temperamento borghese e« temperamento erotico »: « Egualmente lontani dal temperamento erotico stanno tanto quello non sensuale, quanto quello sensuale, che vanno entrambi in perfetto accordo col temperamento borghese. Sensualità ed erotismo sono opposti e si escludono a vicenda. [...] Un buon amministratore, cioè, in senso molto generico, un buon borghese e un erotico, di qualsiasi grado, sono opposti irriducibili. AI centro di tutti i valori umani sta o l'interesse economico (nel senso più largo) o l'interesse erotico. O si vive per amministrare o si vive per amare. Amministrare vuoI dire risparmiare, amare vuoI dire prodigare » 41.

Ma Sombart attribuisce molti altri tratti al borghese. Sottolinea ad esempio il risentimento ispirato alla borghesia da un'aristocrazia da cui si sente esclusa, e di cui immancabilmente finisce per incarnare una caricatura ogni volta che cerca di prenderne il posto 42. Emmanuel Berl nota assai a proposito che, nell'aristocrazia, il figlio cerca di assomigliare quanto più possibile, se non al padre, perlomeno all'immagine che si pensa sia legata al nome che egli porta, mentre « l'ideale borghese, invece, implica un certo progresso del figlio rispetto al padre ed un'accumulazione di meriti che deve corrispondere all'accumulo di denaro e di onori che la famiglia si sforza di conseguire »43. Qui ci imbattiamo di nuovo nell'orientamento verso il futuro. I figli devono "riuscire" meglio dei genitori, e la prima cosa che ci si attende dalla scuola è che li aiuti a riuscirvi: fondamentalmente borghese è l'idea secondo cui il sistema educativo deve innanzi tutto permettere di acquisire un mestiere e che, di conseguenza, le discipline più "utili" sono anche le migliori 44.

Per il borghese vecchio stile occorre dunque sopprimere ogni spesa superflua. E per far questo, contare e contare senza fermarsi. Ma che cos'è il « superfluo »? Tutto quello che, appunto, non si lascia contare, tutto quello che non ha un'utilità calcolabile, tutto quello che non può essere ridotto a una valutazione in termini di vantaggio individuale, di redditività e di profitto. « L'emergere della borghesia », scrive Cornelius Castoriadis, « la sua espansione e la sua vittoria finale marciano di pari passo con l'emersione, la propagazione e la vittoria finale di una nuova "idea", l'idea secondo cui la crescita illimitata della produzione e delle forze produttive è nei fatti lo scopo centrale della vita umana. Questa "idea" è ciò che io chiamo un significato immaginario sociale. Ad essa corrispondono nuovi atteggiamenti, valori e norme, una nuova definizione sociale della realtà e dell'essere, di quello che conta e di quello che non conta. In sostanza, ciò che conta ormai è ciò che può essere contato »45. Ciò che caratterizza lo spirito borghese non è dunque soltanto la razionalizzazione dell'attività economica, bensì l'estensione di questa razionalizzazione a tutti gli ambiti della vita, poiché l'attività economica viene implicitamente assunta come paradigma di tutti i fatti sociali. Da ciò l'idea che quel che non può essere razionalizzato sia inutile, superfluo o inesistente.

Aristotele affermava che la virtù non può essere conquistata con strumenti o beni esteriori, ma che sono i beni esteriori ad essere ottenuti attraverso la virtù. Allo stesso modo, Cicerone esprimeva la verità del proprio tempo dichiarando: « Ciò che importa non è l'utilità che si rappresenta, ma ciò che si è »46. Nell'ottica borghese è l'inverso: si è solo ciò che si ha; la prova del valore è data dal successo materiale. E poiché quello che si ha deve lasciarsi valutare in una maniera imposta a tutti, il denaro diventa del tutto naturalmente il metro universale. È noto il proverbio « Un idiota povero è un idiota; un idiota ricco è un ricco ». Il denaro, spiega Sombart, è « un modo meravigliosamente comodo, servendosi di espressioni monetaI I rie, al fine di trasformare quasi tutti i valori, di per sé non pesabili né misurabili, in quantità, inserendole quindi nell'ambito del giudizio quantitativo.

Ormai ha valore ciò che costa molto »47. Al limite, neppure l'idea di eguaglianza viene più considerata come eguaglianza giuridica, bensì come eguaglianza numerica (uno = uno), come« l'intercambiabilità di (quasi) qualunque attività umana con (quasi) qualunque altra; dove il modello non è nemmeno più la merce ma la moneta »48. I rapporti sociali finiscono così per svolgersi solo all'interno di un mercato, vale a dire di un sistema di oggetti diviso fra oggetti possedenti e oggetti posseduti. Per descrivere questa reificazione del sociale nessuno ha saputo fare meglio di Karl Marx, quando mostra come i rapporti fra individui che perseguono tutti quanti il massimo interesse finiscano immancabilmente per trasformarli in cose 49.

Anche il tempo, infine, si trasforma in merce. La Chiesa cattolica, in realtà, è stata la prima a presentarlo come una derrata rara ed « irrecuperabile », che non bisogna « sprecare » 50. Da allora in poi il calcolo del tempo si è costantemente perfezionato, nella misura in cui si diffondeva la convinzione, proclamata da Franklin, che« il tempo è denaro » (« time is money »). Calcolare le divisioni del tempo è un'operazione che appartiene allo stesso genere del calcolo delle quantità monetarie: come non si ritrova più il denaro dissipato, lo stesso accade con il tempo perduto! A parte i paradossi che una concezione di questo genere provoca nel contatto con la vita quotidiana 51, l'affermazione implica tuttavia un punto di vista rivoluzionario. Dire che il tempo è una derrata rara significa infatti dire che è una quantità limitata, ovvero che ogni specie di tempo è ormai equivalente, e dunque che la qualità del suo contenuto non è più quello che più conta. La durata dell'esistenza, ad esempio, si trasforma in un valore in sé, che consente di non preoccuparsi troppo dell'intensità (o dell'assenza di intensità) che regna in essa. Anche in questo caso, il meglio è ridotto al più. In altre epoche, il tempo era un'improvvisa apparizione dell'altro. Ora diventa omogeneo. La società borghese ha ormai soltanto un rapporto quantitativo con esso.

Il borghese vuole dunque avere, apparire, e non essere. La sua intera vita è finalizzata alla "felicità", vale a dire al benessere materiale; questa felicità è infatti messa in correlazione con la proprietà, definita come ciò che si possiede in totalità, senza la minima riserva, e di cui pertanto si può disporre a piacere. Da ciò discendono la propensione borghese a fare della proprietà il primo dei "diritti naturali" e l'importanza che il borghese accorda alla "sicurezza", la quale è nel con tempo indispensabile alla protezione di ciò che ha già e alla ricerca razionale dell'interesse futuro: la sicurezza è prima di tutto un agio dello spirito, garantisce la conservazione di ciò che si è acquisito e permette di calcolare nuove acquisizioni.

La politica borghese è il riflesso diretto di queste aspirazioni. Diffidente nei confronti del politico; il borghese si aspetta dallo Stato unicamente l'instaurazione di una sicurezza che gli permetta di godere senza rischio dei suoi averi. Il governo ideale, per lui, è quello che è troppo debole per imporsi all'attività mercantile ma abbastanza forte per garantirne il buon funzionamento. È facile riconoscere in questo profilo lo Stato liberale: Stato gendarme, "guardiano notturno". Nel XVIII secolo, la dottrina della separazione dei poteri mira infatti a smembrare la sovranità politica e a consentire alla borghesia di esercitare il potere legislativo all'interno di assemblee di rappresentanti elette a suffragio censitario. Questa attività dello Stato è concepita, del tutto naturalmente, in termini di pura formalità. Così come non ama affatto lo scandalo, che rende più difficile padroneggiare le situazioni, e neppure il rischio, quando non lo si può calcolare, il borghese è restìo alle soluzioni di forza, all'autorità, alla decisione. Pensa che tutto possa arrangiarsi col compromesso, la discussione, la pubblicità dei dibattiti, il "dialogo" assortito di appelli alla ragione. Se vuole assoggettare il politico al giuridico (lo « Stato di diritto »), lo fa perché crede, agendo in tal modo, di potersi risparmiare atti non determinati dalle norme. E per questo motivo si trova sempre sguarnito di fronte a una situazione di urgenza o al caso eccezionale. La norma giuridica è per lui uno strumento per scongiurare l'alea, per ricondurre l'imprevedibile a quello che era già stato previsto.

Il gioco politico è perciò ricalcato sull'attività economica: al mercante, intermediario fra produttore e consumatore, corrisponde il rappresentante, intermediario fra elettore e Stato; alla negoziazione contrattuale corrisponde la discussione, come fonte di compromessi che consentono di fare a meno della decisione.

La destra liberale orleanista ha incarnato a lungo questo modello in maniera esemplare 52. È ad essa che guarda polemicamente Donoso Cortés quando definisce la borghesia « clase discutidora », così come ad essa guarda Nietzsche nel 1887, quando denuncia« la preminenza dei mercanti e degli intermediari, anche in campo intellettuale »53. Presto l'orleanismo finirà però con il contaminare anche la sinistra. E Péguy potrà scrivere: «L'intermediario, la borghesia lo ha sapientemente forgiato: sono quei politici "borghesi intellettuali", nient' affatto socialisti, nient' affatto popolo, distributori automatici di propaganda, rivestiti del medesimo spirito, artefici dei medesimi metodi dell'avversario che combattono. È per loro tramite che lo spirito borghese scende a strati successivi nel mondo operaio ed uccide il popolo, il vecchio popolo organico, per sostituirlo con questa massa amorfa, brutale, mediocre, dimentica della propria razza e delle proprie virtù private: un pubblico, la folla che odia » 54.

La borghesia, in effetti, non ama le convinzioni forti, né soprattutto i "pericolosi" comportamenti che da esse traggono ispirazione. Non ama la . fede; per cui ritiene che « l'ideologia sia sempre antiborghese » (Emmanuel Berl) e proclama con compiacimento la « fine delle ideologie », senza avvedersi che tale fine consacra semplicemente il regno della sua ideologia. Insomma, la borghesia non ama l'infinito che eccede le cose materiali, le uniche sulle quali essa fa presa. Emmanuel Mounier, che vedeva nello spirito borghese « il più esatto antipodo di ogni spiritualità », scriveva: « Il borghese è l'uomo che ha perso il senso dell'Essere, che si muove solamente tra cose, e cose utilizzabili, destituite del loro mistero » 55. E Bernanos: « L'unica forza di questo ambizioso minuscolo consiste nel non ammirare niente ».

La "morale borghese" va collocata in questa luce. Esiste certamente un'etica puritana, dalla quale discendono le virtù del borghese vecchio stile; ma si tratta di un'etica che si situa sempre su uno sfondo utilitario. La lealtà commerciale, ad esempio, che è una delle sue virtù cardinali, è giustificata esclusivamente dal fatto di essere redditizia. Un commerciante disonesto. perderà i suoi clienti: è dunque nel suo interesse non ingannarli (« Honesty is the best policy! »). Il medesimo commerciante non esiterà, in compenso, a rivendicare il diritto alla concorrenza aggressiva, che non è nient' altro se non il diritto di togliere a coloro che praticano il suo stesso commercio la clientela che si sono creatI 56. E .se, grazie a certe pratIche promozionali e pubblicitarie, può far abbassare il suo prezzo dI costo a scapito della qualità del prodotto proposto, essendo nel contempo sicuro di poter illudere i suoi clienti, e non esiterà a farlo. Come scrive Sombart, « L'economia si volge alla pura produzione di beni da scambio. E siccome l'elevatezza del guadagno a cui si mira è l'unica ragionevole meta dell'impresa capitalistica, così gli orientamenti della produzione di beni non sono decisi sul fondamento del genere o della qualità dei prodotti, ma soltanto della possibilità di venderli » 67. Il borghese non è infatti agitato da preoccupazioni morali, quanto piuttosto dal moralismo. Come aveva acutamente notato Mounier, la sua adesione alla morale è concepita in un'ottica strumentale. I principii morali sono per lui dei dispositivi che permettono di premunirsi o dall'alto, contro l'autorità politica (le cui decisioni possono essere delegittimate tramite argomentazioni morali), oppure dal basso, contro il popolo (le « classi pericolose »), che occorre dissuadere dal ribellarsi contro la sorte che gli è riservata. Come la religione, anche la morale si trasforma allora in aiutante della polizia: consente di mantenere l'ordine e di eliminare i devianti, che non rispettano la regola del gioco sociale e contestano il « disordine costituito ».

Nel corso della sua storia, la borghesia è stata criticata dall'alto e dal basso: dall'aristocrazia e dal popolo. Questa convergenza di critiche, peraltro di diverso segno, è significativa. Forse non si è insistito abbastanza nel sottolineare che, nel sistema trifunzionale delle origini, la borghesia, intesa in senso stretto, non corrisponde ad alcun referente. Certo, essa pare collegarsi alla terza funzione, la funzione economica, quella del popolo produttore.

Ma ne è solo un'escrescenza mercantile che, costituendosi al di fuori del sistema tripartito, si dilata progressivamente sino a sconquassare completamente tale sistema ed invadere la società nella sua totalità: la storia degli ultimi otto o dieci secoli è la storia del modo in cui la borghesia, che all'inizio non era niente, ha finito con il diventare tutto. Si potrebbe perciò definirla la classe che ha separato il popolo e l'aristocrazia, ha tagliato i legami che li rendevano complementari e, troppo spesso, li ha aizzati l'uno contro l'altra e viceversa. In questo senso essa può essere vista come classe media in senso proprio, classe intermediaria. Come ha notato Edouard Berth: « Esistono solamente due nobiltà, quella della spada e quella del lavoro; il borghese, l'uomo di negozio, di commercio, di banca, di tasso di sconto e borsa, il mercante, l'intermediario, e il suo compare, l'intellettuale, anch'egli un intermediario, entrambi estranei sia al mondo dell'esercito che a quello del lavoro, sono condannati ad un'irrimediabile piattezza di idee e di cuore » 58. Per uscire da questa piattezza è certamente necessario ridare vita, nel contempo, all'aristocrazia e al popolo.

 

 

NOTE

 

1 RENÉ]OHANNET, con il suo Éloge du bourgeois français, pubblicato da Grasset nel 1924, non ha avuto successori. Oggigiorno, la difesa del liberalismo sembra aver preso il posto di quella della borghesia. Segnaliamo comunque il saggio di Fèlix Colmet Daage, La Classe bourgeoise. Ses origines, ses lois d'existence et san rale social (Nouvelles Editions Latines, Paris 1959), ove si apprende, fra l'altro, «che non vi è mai stata al mondo alcuna grande civiltà che non sia stata borghese e capitalista » (pag. 11) In Italia, DOMENICO SETTEMBRlNI, nella sua Storia dell'idea antiborghese in Italia, 1860-1989, Laterza, Bari-Roma 1991, rimprovera al «partito intellettuale » di avere ostacolato la marcia della società italiana verso le gioie del capitalismo. I Una tesi analoga è stata sostenuta dal « neo-illuminista » Francesco Alberoni.