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Perché si è spezzato il legame sociale

di Alain de Benoist - 31/10/2007

 

 

Com’è noto, tutte le società tradizionali considerano l’uomo un animale sociale. In queste società, che formano un universo comunitario, l’individuo è percepito come membro di un insieme, di un tutto organico. La sua singolarità è riconosciuta, ma integrata ad un so strato che oltrepassa il suo essere specifico e lo mette in relazione con i suoi simili, sia nell’ambito della famiglia che del clan, della tribù, della città, ecc. L’individuo è dunque indissociabile dalle sue appartenenze, dalle quali trae il proprio ruolo sociale e le norme di comportamento, il che, d’altronde, non vuoi dire che egli si trovi chiuso in non si sa quale prigione comunitaria. Egli può prendere le distanze nei confronti del gruppo al quale appartiene, ma in questo modo è ancora in rapporto ad esso che si colloca. Ed è anche nella misura in cui l’ “io” non è che un momento dell’elaborazione del “noi” che, quando i due termini si scontrano, l’’’io” non rischia mai di essere completamente di- strutto, ma, al contrario, trae da questo scontro una nuova forza. In questa prospettiva, viene prima la società globale, e il corpo individuale non può essere colto indipendentemente dal corpo sociale, che partecipa, al contrario, alla sua “costruzione”. Il legame sociale è inoltre ricco di solidarietà fondate sulla parentela o sul vicinato. Tali società si concepiscono come un tutto, di qui il termine di “oliste” impiegato per caratterizzarle.

L’individualismo consiste, al contrario, nel basare la legittimità sociale su un individuo astratto, separato dalle sue appartenenze. Si stabilisce in questo caso che l’ordine è subordinato ai desideri, ai bisogni, alla ragione o alla volontà dell’individuo. Questi si vede attribuire un valore proprio, indipendente dai suoi attributi sociali. Egli è al contempo la fonte e la finalità del sistema sociale e del sistema di valori: i valori sono accettati esclusivamente nella misura in cui provengono da lui. La società non costituisce più un tutto, ma una semplice somma di atomi individuali.

Il passaggio dall’olismo all’individualismo ha rappresentato un’evoluzione a lungo termine che qui ci limiteremo ad abbozzare. Questo processo comincia col cristianesimo, che introduce in Europa il germe dell’individualismo, affermando l’uguale valore degli individui davanti a Dio e facendo della salvezza un affare individuale, dissociando così l’individuo dai suoi attributi sociali. Certo, per tutto il Medioevo il cristianesimo conserva l’idea di bene comune, ereditata dall’Antichità. Tuttavia, a partire dal XIV secolo, Guglielmo di Occam sostiene che al di là dell’essere singolare non esiste niente, e da ciò conclude, tra l’altro, che le società non sono che un insieme di individui.

Parallelamente, il principio di uguaglianza spirituale viene progressivamente trasferito nel dominio profano. La metafisica della soggettività si afferma a partire da Descartes, poi col liberalismo inglese e la filosofia dei Lumi. Con Descartes appare l’idea che la natura non è un cosmo ordinato, armonioso, ma un materiale grezzo, a priori privo di senso, che l’uomo può far proprio e manipolare a piacimento. Ne deriva che «ogni forma di alleanza mitica tra gli uomini e la natura, ogni forma di riconoscimento della differenza, deve essere demistificata, desacralizzata» (Pietro Barcellona). È l’inizio del processo di “disincanto” del mondo. Come scrive Heidegger, «nella nuova libertà, l’umanità si vuole rassicurata dall’autonomo spiegamento di tutte le sue facoltà per esercitare il suo dominio su tutta la Terra»1.

 

L’individuo fonda da solo norme e leggi

Con l’illuminismo, la scienza non è più solo il mezzo privilegiato per conoscere il mondo, ma diventa uno strumento posto per sua stessa natura al servizio dei fini che gli danno il suo valore morale, cioè l’emancipazione dell’umanità, la felicità e il progresso. Con Kant, infine, la volontà morale, definita come autonoma, non aspira a niente altro che a se stessa in quanto libertà che pone la legge universale alla quale decide di sottomettersi. La volontà, in altri termini, si crede essa stessa un oggetto.

Da Emile Durkheim a Norbert Elias, da Max Weber a Louis Dumont, sono numerosi i sociologi che hanno caratterizzato l’emergere della modernità come una duratura evoluzione nel senso di un crescente individualismo. Tutta la filosofia moderna è in effetti una filosofia del soggetto, che afferma il primato dell’individuo al contempo come valore (ogni individuo ne vale un altro) e come principio (solo l’individuo è la fonte delle norme e delle leggi). «Ciò che sostanzialmente definisce la modernità», scrive Alain Renaut, «è forse il modo in cui l’essere umano vi si trova concepito e affermato come la fonte delle sue rappresentazioni e dei suoi atti, come il loro fondamento (subjectum, soggetto) o ancora come il loro autore: l’uomo dell’umanesimo è colui che non intende più ricevere le sue norme e le sue leggi né dalla natura delle cose, né da Dio, pretendendo di essere egli stesso a fondarle, a partire dalla sua ragione e dalla sua volontà»2.

Il programma della modernità sarà dunque quello di liberare l’individuo dai legami di dipendenza o di appartenenza personali grazie alla costruzione di un ordine fondato sulla volontà soggettiva, l’uguaglianza formale e il primato della legge. Il diritto moderno sarà un diritto soggettivo, non fondato più sull’idea di equità all’interno di una relazione, ma sulla nozione di diritti inerenti alla natura di ogni individuo considerato isolatamente. I desideri e le attese saranno sistematicamente riconvertiti in diritti che si inscrivono in un universale giuridico peraltro indifferente al modo in cui potranno concretamente esercitarsi. Sul piano politico, le società si considererano come auto-istituite da un contratto. La legge sarà fondata sulla volontà degli individui, e sottratta, per quanto possibile, all’autorità delle tradizioni.

La rottura del legame sociale si manifesta dunque innanzitutto sul piano verticale, attraverso una separazione tra il passato e il presente. Con la modernità appaiono società che, in nome della libertà individuale, negano l’autorità della tradizione e decidono di riorganizzare il mondo nel presente, secondo il principio della piena disponibilità dell’origine. Ormai; l’origine è muta, non conta nulla. Il passato non contribuisce più a indicare la strada da seguire. Conta solo l’avvenire - un avvenire che l’individuo presume di poter egli stesso determinare razionalmente. “Essere figli di se stessi”, nota Pietro Barcellona, «è il pensiero nascosto che attraversa la modernità»3. Questo fantasma di auto-generazione, che vediamo oggi esplodere nell’idea che ognuno può bastare a se stesso e creare la sua vita a partire dal niente, sfocia paradossalmente nella distruzione delle differenze. “Essere figli di se stessi, disporre di tutto”, scrive ancora Pietro Barcellona, “significa fatalmente consegnare il potere di disporre a un solo signore, a un solo sovrano: la fissità, l’identità, l’Uno sono la figura dello sradicamento dalla molteplicità dei rapporti fra gli individui concreti e la natura, della distruzione di ogni legame sociale e di ogni dipendenza dall’altro”4.

 

Il ricorso alla mano invisibile

 

A questa rottura verticale si aggiunge anche una rottura orizzontale. In effetti, come potremmo emancipare l’uomo dalle sue appartenenze, coglierlo nell’astrazione di uno stato in cui egli per natura non sarebbe legato a niente, e conservare nel contempo un legame sociale? Un legame è per definizione un rapporto che unisce. Voler “liberare” l’uomo da tutti i suoi legami, significa immancabilmente creare le condizioni di una distruzione del tegame sociale. E in questo senso che la pulsione individualista, come scrive Tocqueville, non solo “fa dimenticare all’uomo i suoi avi, ma gli nasconde anche i suoi discendenti, lo separa dai suoi contemporanei e lo riconduce di continuo verso se stesso, minacciandolo infine di chiuderlo nella solitudine del suo stesso cuore”5.

Le teorie contrattualiste pretendono di spiegare l’origine della società. Ma come potrebbe un legame sociale stabilirsi tra individui autonomi i quali non dovrebbero obbedire che a se stessi? Questo fondamentale problema è quello al quale la modernità non ha smesso di essere confrontata. La risposta liberale consiste nel fare appello al modello del mercato. Secondo Adam Smith, il mercato instaura un modo di regolazione sociale astratta, dove l’ordine pubblico è la conseguenza non intenzionale delle azioni di agenti individuali mossi dalla ricerca egoistica dei loro unici interessi. Il ricorso al mercato, nella misura in cui questo costituisce un modo di regolazione senza altro legislatore che la “mano invisibile”, dovrebbe risolvere il problema del fondamento dell’obbligo nel patto sociale senza che ci sia bisogno di fare appello al politico. Per fare questo, le relazioni tra gli uomini sono poste come relazioni tra merci. Adam Smith pensa l’economia come il fondamento della società, e lo scambio mercantile, necessariamente egualitario poiché si produce per mezzo di quell’equivalente universale che è il denaro, come il modello di tutti i rapporti sociali. Il mercato diventa quindi un concetto socio logico e non più soltanto economico. Il cittadino si confonde con il consumatore, la società di mercato con l’economia di mercato. La naturale armonia degli interessi basta a regolare il buon funzionamento della società globale, essendo questa analizzata come un mercato fluido che si estende a tutti gli uomini e a tutti i paesi e lascia prevedere, al con tempo, la scomparsa delle frontiere 6 e il deperimento del politico e dello Stato.

In realtà, però, il mercato non può rimpiazzare il sistema sociale. Perché? Semplicemente perché lo scambio mercantile, a causa della sua stessa natura egualitaria, non crea obblighi. All’atto d’acquisto non rinvia al suo reciproco, come il dono rinvia al contro-dono”, osservano Jean-Baptiste de Foucauld e Denis Piveteau. «Nell’atto d’acquisto, nella locazione di servizi, la parità tra ciò che si riceve e ciò che si offre si stabilisce immediatamente. Su ciò si basa tutta la teoria classica del “prezzo d’equilibrio”. Il saldo dello scambio è nullo, in linea di massima, non appena lo scambio è terminato: la contropartita monetaria ha estinto ogni debito. Mentre in una logica del dono [...] ognuno è l’obbligato di molti altri, ed è circondato da molti obbligati. Il debito non è mai saldato, ed è anche questo squilibrio permanente a fare dello scambio, mai chiuso, mai finito, una sorta di movimento perpetuo, stabilizzatore del legame sociale»7.

 

 

L’indifferenza reciproca

 

Il rapporto monetario instaura tra gli uomini un rapporto di indifferenza reciproca. Esso è incapace di strutturare il legame sociale, cioè di servire da supporto ad un riconoscimento della singolarità concreta dei soggetti dello scambio, qui ridotti alla loro sola capacità di vendere e acquistare. «L’astrazione monetaria», scrive ancora Pietro Barcellona, «non è l’universale attraverso cui si attua il riconoscimento reciproco di due individui particolari e diversi, sulla base dell’appartenenza a un comune destino, ma il suo perfetto contrario: il disconoscimento dell’individuo come differenza e particolarità. L’astrazione monetaria istituisce la separazione e la distanza tra gli individui, ma anche lo svuotamento delle loro particolari differenze»8.

La promozione dell’individuo provoca dunque un lungo processo di disgregazione del sociale, che sfocia nell’anomia e nell’atomizzazione. Il legame sociale diventa, con la modernità, pura contingenza, effetto dell’accordo di percorsi individuali e non più elemento costitutivo della natura dell’uomo. E in questa prospettiva che bisogna situare la comparsa dello Stato moderno.

In Francia, la Rivoluzione ha ripreso a proprio vantaggio la volontà del vecchio potere monarchico di instaurare un legame diretto tra l’individuo e lo Stato, oltre lo schermo dei corpi intermedi. «A nessuno è permesso di ispirare ai cittadini un interesse particolare, di separarli dalla cosa pubblica con uno spirito corporativo” dichiara, nel 1791, Le Chapelier al momento dell’adozione del decreto che. sopprimeva la tradizionale organizzazione dei mestieri. L’azione dello Stato confluisce allora con la costruzione del mercato, che si traduce anch’essa nella deterritorializzazione dei rapporti sociali. Come ha notato Pierre Rosanvallon, «lo Stato-nazione e il mercato rinviano ad una stessa forma di socializzazione nello spazio. Essi non sono pensabili che nel quadro di una società atomizzata, nella quale l’individuo è inteso come autonomo»9.

Lo Stato assistenziale che viene progressivamente istituito ha dunque due cause fondamentali: da una parte la tradizione giacobina che conosce solo una relazione diretta tra una massa di individui indifferenziati e uno Stato centrale che si è sempre costruito sulle rovine dei corpi intermedi; ma anche la necessità per lo Stato di riparare i danni provocati nel tessuto sociale dall’ascesa dell’individualismo liberale. È in effetti per sopperire alla scomparsa delle solidarietà naturali dovuta all’espansione dell’individualismo e dell’ideologia del successo nella competizione economica che lo Stato moderno è stato costretto ad assumersi compiti di assistenza sociale che un tempo spettavano alle strutture organiche, familiari o comunitarie. La domanda di servizio pubblico, in altri termini, scaturisce fondamentalmente dal faccia a faccia tra l’individuo e lo Stato, conseguenza del crollo delle antiche strutture organiche e dell’estrema vulnerabilità derivatane per gli individui. Come aveva notato Hegel, dal momento che gli interessi individuali sono posti come diritti del soggetto, diritti che solo lo Stato può garantire, questi diritti e questi interessi vengono nello stesso tempo trasferiti nella finalità universale della totalità statale.

Una neutralizzazione dell’elemento sociale

I liberali possono pure denunciare lo Stato assistenziale come un sistema di «spoliazione legale» (Bastiat), ma sono loro i veri responsabili della sua comparsa poiché, più una società è individualista, più l’onere della solidarietà ricade sullo Stato. Come constata Marcel Gauchet, «lo Stato è lo specchio nel quale l’individuo ha potuto riconoscersi nella sua indipendenza e sufficienza, liberandosi dal suo inserimento costrittivo nei gruppi reali»10. Si comprende allora meglio il legame esistente tra l’affermazione dell’individuo isolato e la crescente influenza dello Stato. «Derisoria impresa», prosegue Gauchet, «opporre l’individuo allo Stato, quando si tratta di termini strettamente complementari tra loro, la cui apparente rivalità non è che un modo per rafforzarsi reciprocamente. Sempre più individuo, sempre più Stato. L.:uno non diminuirà senza che l’altro indietreggi»11. Lo Stato moderno è così, paradossalmente, nel contempo la consacrazione del legame che lo unisce a tutti gli individui posti sotto la sua autorità, e la negazione del legame che li collega gli uni agli altri. Questa negazione prende la forma di un’omogeneizzazione e neutralizzazione del sociale.

Lo Stato neutralizza le differenze interne e i legami di appartenenza comunitaria, proiettando verso festerno l’istanza dell’esclusione del diverso. La reductio ad unum, ricorda Pietro Barcellona, è un «presupposto del concetto di Stato moderno», esprimendo quest’ultimo «una logica dell’identità, dell’omologazione, che tende a neutralizzare le differenze o almeno a renderle contingenti e tuttavia riducibili ad un’unica misura quantitativa»12. Si entra allora in un circolo eminentemente vizioso: più i legami sociali si allentano, più aumenta la dipendenza dallo Stato. E quanto più aumenta la dipendenza dallo Stato, tanto più quest’ultimo è tenuto ad estendere i suoi interventi in tutti i campi dell’esistenza, in tal modo accelerando il processo al quale dovrebbe rimediare.

Per gli stessi individui, le conseguenze sono evidentemente temibili. Nelle società tradizionali, i differenti corpi intermedi formavano, come ha notato Tocqueville, altrettanti contropoteri di fronte allo Stato centrale, il cui potere assoluto si trovava così nei fatti limitato. AI contrario, in una società formata da individui solitari, niente più si oppone allo Stato centrale che, per sua stessa logica, non può che garantire ai cittadini l’applicazione teoricamente imparziale della legge, rinviando l’individuo privato alla sola libertà del mercato. Ma questa non è niente altro che un mito. Lo si è visto quando, alla fine del XVIII secolo, le condizioni di lavoro sono state ripensate sotto una forma contrattuale.

 

L’uomo unidimensionale

 

I rivoluzionari hanno creduto che ognuno avrebbe avuto le sue opportunità se si fosse creato un mercato del lavoro emancipato dalla tutela delle vecchie corporazioni, dove l’occupazione fosse liberamente negoziata tra datori di lavoro e lavoratori. Ciò significava non tenere conto degli effetti dell’oppressione e dimenticare che la “libertà” di chi vende la sua forza lavoro non equivale a quella di chi la assume, Ne è derivata, almeno sino alla fine del XIX secolo, la più spaventosa delle miserie.

Anche la nozione di uguaglianza, implicata dall’individualismo, è ambigua. La filosofia dei Lumi ha voluto farne, al con tempo, un’arma contro le gerarchie e un concetto generatore di autonomia. Ma questi due obiettivi sono inconciliabili: l’uguaglianza non opera in senso antigerarchico che nella misura in cui rende simili, rendendo più difficile l’affermazione di una vera autonomia. Per quanto contestabili, le antiche gerarchie svolgevano almeno una funzione integratrice. Un tempo, anche l’idiota del villaggio era socialmente riconosciuto e poteva svolgere un suo ruolo. In una società ugualitaria, la difficoltà consiste nell’essere riconosciuto come un essere singolare. L’uguaglianza degli uomini li rende intercambiabili, mentre il valore d’uso si esaurisce nel solo valore di scambio.

Dell’individuo moderno, Jean-Michel Besnier scrive: «Egli è certamente individuo, ma nel senso di rappresentante, non importa quale, della specie umana; è sicuramente uguale al suo vicino, ma nel senso in cui l’uno vale l’altro e nessuno è insostituibile in un mondo ridotto all’equivalenza dei beni e degli uomini, che Herbert Marcuse designa come «l’universo dell’unidimensionalità» 13. In realtà, il risultato della promozione di quest’individuo astratto è stato la mercificazione generalizzata dei rapporti fra gli individui concreti e la costruzione di un immenso apparato di neutralizzazione delle differenze e la dissoluzione di ogni vincolo di solidarietà personale»14.

Si è preteso di “liberare” l’individuo, ma gli si è solo cambiata la prigione. Si sono soppressi i privilegi legati alla nascita e allo status sociale, ma per sostituirli con i privilegi del denaro. Si è sostituito un potere personale identificabile, localizzabile e, come tale, eventualmente rovesciabile, con un potere astratto, giuridico-monetario, sul quale nessuno può avere presa. La Rivoluzione del 1789 aveva già dato l’esempio, destituendo la vecchia aristocrazia per instaurare la gerarchia economica propria della società borghese (con in più il voto in base al censo). L’individuo, separato dalle sue radici, che erano altrettante strutture protettrici, portatrici di senso e ricche di punti di riferimento, è oggi più solo, più vulnerabile, più indifeso che mai davanti alle suggestioni massmediali e ai condizionamenti sociali.

Ma se la proclamazione dell’uguaglianza astratta sfocia in una restrizione delle libertà, non è solo perché la parità delle condizioni non può che essere forzata, bensì anche perché l’individuo, preoccupato solo di se stesso, è spontaneamente portato a rinunciare alla partecipazione agli affari pubblici” che è il luogo per eccellenza dove può esercitare la sua libertà.

Essendo gli individui riconosciuti autosufficienti, il potere non deve più cercare di far loro condividere un senso. Ogni preoccupazione relativa ai valori, alle finalità dell’esistenza, al modo migliore di condurre una buona vita, viene dunque confinata nella sfera privata. In questo ambito, lo Stato di diritto liberale si gloria della sua neutralità detto chiaramente: della sua indifferenza 15. Ma a questa indifferenza dei pubblici poteri di fronte a ciò che gli individui fanno della loro “libertà”, segue ben presto l’indifferenza degli individui verso la vita pubblica. Si affidano allora allo Stato le preoccupazioni collettive, facendo in modo di dargli il meno possibile. Da esso si attendono innanzitutto il comfort e la sicurezza, ossia la protezione delle persone e dei beni, anche al prezzo di una minore libertà, l’individuo “libero” permette così egli stesso un nuovo tipo di asservimento. È in questa breccia aperta dal disinteresse per la cosa pubblica che si infila il totalitarismo ed è in questo senso che le democrazie liberali, fondate sulla sola rappresentazione, sono sempre potenzialmente a rischio di partorire la loro negazione totalitaria.

Si sa che questa evoluzione era stata straordinariamente prevista da Tocqueville: «I’amore della tranquillità pubblica», egli scrive, ccè spesso la sola passione politica che questi popoli conservano, ed essa diventa sempre più attiva e potente, a mano a mano che tutte le altre si spengono e muoiono; ciò dispone i cittadini a dare continuamente, o a lasciar prendere, nuovi diritti al potere centrale, che sembra loro il solo ad avere i mezzi e l’interesse di difenderli dall’anarchia difendendo se stesso”. E ancora: «vedo una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su se stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui I saziano il loro animo [...] AI di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si incarica solo di assicurare loro li godimento dei beni e di ve. gliare sulla loro sorte. E assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite. Assomiglierebbe all’autorità paterna se, come questa, avesse lo scopo di preparare l’uomo all’età virile, mentre non cerca che di arrestarlo irrevocabilmente all’infanzia»16.

Inizialmente, certo, l’individualismo aveva una dimensione oggettiva (o piuttosto intersoggettiva) compresa nei suoi presupposti universalistici. Definendosi come rifiuto di ogni forma di eteronomia, esso esigeva che un principio di condotta, per essere riconosciuto, potesse essere universalizzato. Questa dimensione è tuttavia rapidamente sbiadita, nella vita reale, e ha ceduto il posto al solo egoismo, alla sola indifferenza verso l’altro, all’affermazione pura e semplice dell’io individuale come valore assoluto, sottraendo al tempo stesso l’individuo ad ogni normatività. Alcuni oggi si sforzano di salvare l’individualismo affermando che questa evoluzione non era ineluttabile. Distinguendo l’individuo e il soggetto, l’indipendenza e l’autonomia, essi oppongono volentieri un individualismo fondato sulla volontà d’autonomia e un individualismo che non sarebbe che puro narcisismo. Ma è facile mostrare che l’uno è logica me nelle deduci bile dall’altro. Alain Renaut, ad esempio, scrive che l’autonomia “non si confonde affatto con i ogni concepibile figura dell’indipendenza: nell’ideaI le d’autonomia io resto dipendente da norme e da leggi a condizione che le accetti liberamente»17. Ammettiamolo. Ma perché dovrei accettarle? Se posso accettarle liberamente, non posso anche liberamente rifiutarle? E chi mi impedirebbe di rifiutarle se ritengo che sia mio interesse farlo, dato che sono tenuto a cercare sempre di massimizzare il mio tornaconto individuale, che nessuno meglio di me può capire quale sia il mio interesse e che per di più basta perseguire il proprio interesse per contribuire al bene comune?

Secondo la dottrina liberale, la mia libertà finisce quando rappresenta una minaccia per quella degli altri. Ma sono veramente libero se devo rispettare la libertà degli altri? E se lo sono, perché m’imporrei questa costrizione? Perché non dovrei piuttosto trasgredire la legge, sforzandomi di non farmi prendere? Ritroviamo qui il problema dell’obbligazione politica in una società fondata sul principio secondo cui non c’è fondamento al di fuori del soggetto. Come si è visto, l’individualismo provoca obbligatoriamente la perdita del rispetto delle regole, generando al tempo stesso il declino dell’altruismo e la disgregazione del legame sociale.

 

Note

1 Martin Heidegger, Nietzsche, Gallimard, Paris 1971, vol. 2, pag. 8 (ed. it. Adelphi, Milano 1995).

2 Alain Renaut, L’individu. Réfiexions sur la philosophie du sujet, Hatier, Paris 1995, pag. 6.

3 Pietro Barcellona, II ritorno del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 1990, pag. 20.

4 Ibidem.

5 Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, in Scritti politici, Utet, Torino 1981,vol. 2,pag. 590.

6 «Un mercante», scrive Adam Smlth, “non è cittadino di nessun paese in particolare. Gli è in gran parte indifferente il luogo in cui svolge il suo commercio, e basta il più piccolo problema per indurlo a trasferire altrove il suo capitale e «industria da esso attivata» (Adam Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, edizione italiana Mondadori, Milano 1977, vol. 1, libro 111, cap. V).

7 Jean-Baptiste de Foucauld e Denis Piveteau, Une société en quête de sens, Odile Jacob, Paris 1995, pag. 72.

8 Pietro Barcellona, op. cit., pagg. 126-127.

9 Pierre Rosanvallon, Le libéralisme économique. Histoire de l’idée de marché, Seuil, Paris 1989, pag. 124.

10 Marcel Gauchet, Tocqueville, l’Amérique et nous, in «Libre», 1980, pag.106.

11 Ibidem.

12 Pietro Barcellona, op. cit., pag. 118.

13 Jean-Michel Besnier, Tocqueville et la démocratie. Egalité et Liberté, Hatier, Paris 1995, pag. 30,

14 Pietro Barcellona, op. cit., pag, 126. “E in quanto identitario”, scrivono dal canto loro Pierre Rosanvallon e P. Viveret, «che lo spirito ugualitario può condurre al totalitarismo. Il totalitarismo è in un certo senso “effetto” dell’individualismo ugualitario in una società centrata e globalizzante». (Pour une nouvelle culture politique, Seuil, Paris 1977, pag. 107).

15 Sull’«indifferenza del sistema liberale verso gli uomini che lo popolano», cfr. Jean-Christophe Rufin, La dictature libérale, Jean- Claude Lattés, Paris 1994, pagg, 300-303.

16 Alexis de Tocqueville, op. cit., pagg, 788 e 812.

17 Alain Renaul, op. cit., pag. 46.