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Fenomenologia del nazionalismo

di Alain de Benoist - 07/11/2007

 

 

 

Esistono probabilmente tante teorie del nazionalismo quante sono le teorie nazionaliste 1. Owiamente, non è il caso di renderne conto in questa sede. Non ci imbarcheremo nemmeno nella falsa disputa che vene sul dubbio se il nazionalismo sia un’esasperazione patologica del patriottismo o viceversa ne rappresenti l’esplicazione consapevole e rigorosa sul piano della dottrina. Ci limiteremo a notare che il nazionalismo, al di là delle tipologie spesso estremamente complesse proposte sino ad oggi, è passibile di due definizioni principali.

Nella prima di tali accezioni, esso si definisce come l’aspirazione più o meno volontaria di un popolo, fondata su elementi oggettivi o soggettivi, a costituirsi (o a riaffermarsi) in quanto nazione, il più delle volte in un contesto sentito come alienante per l’identità collettiva. In questo caso, si tratta di un movimento di costruzione storica. Nella seconda definizione, il nazionalismo è innanzitutto la dottrina politica che afferma che il governo deve preoccuparsi prima di ogni altra cosa dell’interesse nazionale, o fondarsi esclusivamente su di esso.

Già queste due definizioni mostrano l’ambivalenza del nazionalismo, che pare direttamente legata al suo carattere eminentemente reattivo. Il nazionalismo fa la sua comparsa assai spesso in circostanze che hanno a che vedere con lo stato d’eccezione nel senso in cui lo intende Cari Schmitt. Esso si prefigge di reagire contro una minaccia, reale o presunta, che peserebbe sull’identità collettiva e le impedirebbe di fondarsi o di esistere in quanto nazione. Il nazionalismo, ad esempio, si manifesta tanto a titolo di reazione contro un’occupazione straniera quanto in una situazione di colonizzazione, nel quadro di un regionalismo esasperato, ecc. La sua essenza è dunque conflittuale. Ha bisogno di un nemico, ma tale nemico può rivestire le più diverse forme. Da ciò discende la plasticità del nazionalismo, che nel corso della storia ha potuto rivelarsi tanto moderno quanto antimoderno, tanto intellettuale quanto popolare, tanto di destra quanto di sinistra. (Per tutto il XIX secolo, non dimentichiamolo, il nazionalismo è essenzialmente liberale e repubblicano).

La definizione del nazionalismo come dottrina permanente di governo solleva altri problemi. Una volta recuperata l’identità o apparsa la nazione, qual è la sua reale utilità come principio di governo? Il concetto di interesse nazionale è vago. Maurras scrive che un nazionalista” subordina i suoi sentimenti, i suoi interessi e i suoi sistemi al bene della patria; ma qual è la fazione che non sottoscriverebbe questa espressione? Il “bene della patria”  è un concetto a cui quasi tutti possono richiamarsi, dal momento che se ne possono avere idee assai diverse. Tenuto conto dell’essenza conflittuale del nazionalismo, è grande il rischio che esso possa continuare ad esistere soltanto organizzando nuove zone di conflittualità. Ogni straniero, ad esempio, verrà allora considerato alla stregua di un nemico, e il concetto di “nemico interno” sfocerà in una guerra civile che la dottrina, in linea di principio, sembrava proibire.

Il contenuto del nazionalismo rimane dunque alquanto oscuro. Nel mondo si vedono comparire molti movimenti nazionalisti, ma spesso fra gli uni e gli altri c’è poco in comune. Si oppongono tra di loro, si richiamano a valori in contrasto. Tutto accade come se il nazionalismo fosse più una forma che una so- stanza, più un contenente che un contenuto. Lo si capirà meglio, tuttavia, se lo si mette in relazione con l’idea di nazione, dalla quale non può essere dissociato. Il nazionalismo è infatti prima di tutto una strumentalizzazione politica dell’identità collettiva che si rifà alla nazione: ebbene, la nazione non è che una forma di politia fra le altre, ed è una forma specificamente moderna. Né la resistenza dei Galli contro Cesare né quella di Arminio contro le legioni di Varo hanno a che vedere, secondo il significato che noi diamo al termine, col nazionalismo. L’uso del termine” nazione - riferito all’Antichità o all’Ancien Régime è in gran parte un anacronismo. Nel Medioevo, la nazione (da natio, nascita) ha un senso etnico, ma assolutamente non politico. All’epoca della Guerra dei Cent’anni, il patriottismo rimanda al “paese”, vale a dire ad un territorio familiare e ad un insieme di corpi intermedi che definiscono concretamente un’identità condivisa. In senso politico, la nazione compare soltanto nel XVIII secolo, e in contrapposizione al re. I “patrioti” sono a quei tempi coloro che pensano che la nazione, e non il re, incarni l’unità del paese, cioè che la nazione esista indipendentemente dal regno. La nazione,  in altri termini, riunisce coloro che pensano politicamente e filosoficamente la stessa cosa. È in questo senso che Barrière potrà dire, alla Convenzione, che gli aristocratici non hanno patria. La nazione è dunque innanzitutto il popolo sovrano, poi le popolazioni che riconoscono l’autorità di uno stesso Stato, abitano lo stesso territorio si proclamano membri di una stessa unità politica; ed infine tale unità politica. Si legge all’articolo 3 della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo: «Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione».  In Francia, l’Ancien Régime aveva già ampiamente avviato il processo di centralizzazione. La Rivoluzione lo continua in forma nuova. Essa mira a “produrre la nazione”, a creare un nuovo legame sociale, a generare comportamenti sociali che facciano emergere la nazione come un corpo politico formato da individui eguali. Lo Stato diventa di conseguenza produttore di socialità, e tale produzione si costruisce sulla rovina dei corpi intermedi. A partire dalla Rivoluzione, la nazione è per ogni individuo un dato immediato; è un’astrazione collettiva alla quale si appartiene direttamente, senza la mediazione dei corpi e degli stati. Esiste dunque, paradossalmente, una radice individualistica della nazione e del nazionalismo. Louis Dumont scrive a tal proposito: «La nazione nel senso preciso, moderno, del termine, e il nazionalismo - distinto dal semplice patriottismo - sono legati all’individualismo come valore.

La nazione è appunto il tipo di società globale che corrisponde al regno dell’individualismo come valore. Non solo lo accompagna storicamente, ma l’interdipendenza fra i due si impone, tanto che si può dire che la nazione è la società globale composta da persone che si considerano degli individui» 2.

Questa “modernità” della nazione e del nazionalismo è per lungo tempo rimasta inavvertita, in primo luogo perché il nazionalismo è stato anche a volte una reazione (o una risposta) alle disfunzioni sociali e politiche generate dall’emersione della modernità, in secondo luogo perché la destra politica, a partire dalla fine del XIX secolo, ha strumentalizzato a sua volta l’idea di nazione per contrapporla ai movimenti socialisti” internazionalisti.

È tuttavia proprio questa radice individualista e moderna dell’idea di nazione a consentire di comprendere come il nazionalismo si inscriva, attualmente, all’interno dell’orizzonte di una metafisica della soggettività, Heidegger, che vede nella soggettività la Figura (Gesta/t) dell’essere-sé (Selbstsein) moderno, scrive a tale proposito: «Ogni nazionalismo è, sul piano metafisico, un antropologismo, e in quanto tale un soggettivismo. Il nazionalismo non è superato dal puro internazionalismo, ma solo allargato ed eretto a sistema, Esso accede così poco per tale via all’humanitas e si compie così poco in essa quanto poco l’individualismo riesce a compiersi nel collettivismo senza storia. Il collettivismo è la soggettività dell’uomo sul piano della totalità» 3. In quest’ottica diventa più chiara anche la parentela fra nazionalismo e liberalismo: il noi del primo prende il posto dell’ io tipico del secondo. Nel liberalismo, l’individuo è legittimato ad andare costantemente alla ricerca del proprio interesse; nel nazionalismo, l’interesse nazionale sovrasta ogni altra considerazione. In entrambi i casi, la determinazione ultima risiede nell’interesse, cioè nell’utilità.

Nella citazione sopra riportata, Heidegger mostra efficacemente anche per quale motivo l’universalismo politico (il puro internazionalismo) non contraddice fondamentalmente il nazionalismo. L’etnocentrismo viene d’altronde definito, molto classicamente, come un particolare allargato alle dimensioni universali. Questo particolare presenta esclusivamente la sua verità, ma la percepisce come la verità in sé. Questo è il fondamento della pretesa di certi popoli o di certi di Stati di considerarsi “eletti” per adémpiere ad una missione universale. La Francia non è sfuggita a tale tentazione. Guizot dichiarava: «La Francia è il cuore della civiltà». Lavisse aggiungeva: «La nostra patria è la più umana delle patrie».

E di fatto si è spesso detto che il nazionalismo francese non era intollerante perché l’idea di nazione era al suo interno subordinata a quella di umanità. Ma questa affermazione è discutibile. Se infatti l’idea di nazione è ordinata a quella di umanità, allora anche l’idea di umanità è ordinata a quella di nazione. E chi le si oppone si ritrova simultaneamente espulso dalla nazione e dall’umanità.

È importante dunque non considerare il nazionalismo l’ideologia in cui dovrebbe inevitabilmente esprimersi ogni affermazione propria alle identità collettive. Una confusione di questo genere finirebbe, di fronte agli eccessi dei nazionalismi, per far rifiutare il valore stesso della nozione di identità collettiva. Nondimeno, un concetto di questo genere è indispensabile a qualunque vera socialità. Nelle società comuniste è stata essa a permettere ai popoli di sopravvivere, contrapponendo la propria identità a quella che si cercava di imporre loro. Nelle società occidentali, è essa che continua a nutrire l’immaginario simbolico e dà un senso al voler vivere insieme. Il nazionalismo, in ciò che ha di più tumultuoso e contestabile, non è la conseguenza inevitabile dell’affermazione identitaria collettiva, così come la nazione non è unica modalità di organizzazione politica di un’appartenenza comune. È semmai la negazione dell’identità collettiva, quale si è manifestata nel corso di questo secolo sia nel liberalismo che nel marxismo, a produrne il ritorno in forme irredentiste, patologiche e distruttive.

Diciamo, per essere più precisi, che ci sono due maniere ben diverse di porre l’affermazione di un’identità collettiva. La prima, che potrebbe essere quella del nazionalismo, si limita per un individuo alla difesa del suo popolo, mentre la seconda consiste nella difesa di tutti i popoli contro le ideologie che li sradicano. Conosciamo il motto inglese: Right or wrong, my country (“Che abbia torto o ragione, è il mio paese»). Questa frase non deve essere fraintesa. Essa esprime la convinzione che il paese al quale si appartiene può avere torto o ragione. Orbene: a rigore, un nazionalista non può dare torto al proprio paese, per la semplice ragione che, per potergli dare torto, deve essere in possesso di un paradigma che oltrepassi la propria semplice appartenenza. Ma in una simile prospettiva, in caso di conflitto, solo la forza può decidere. La forza diventa allora il valore supremo, e si identifica alla verità; il che significa che la storia è fondamentalmente giusta. Si ricade in tal caso paradossalmente nel darwinismo sociale, il quale non è che un’altra forma dell’ideologia del progresso. Se, invece, si può dare torto al proprio paese nei casi in cui lo si ritiene giusto, vuol dire che l’appartenenza non è identica alla verità. Si esce allora dalla metafisica della soggettività. L’identità degli altri non costituisce più una minaccia per la propria. E se si difende la propria “tribù”, lo si fa innanzitutto perché si è pronti a battersi per quelle degli altri.

 

 

 

Note

1         Cfr. da ultimo Gil Delannoi e Pierre-André Taguieff (a cura di), Théories du nationalisme. Nation, nationalité, ethnicité. Kimé. Paris 1991.

2         Louis Dumont, Essais sur l’individualisme, Seuil, Paris 1983. pagg. 20-21.

3         Martin Heidegger, Lettera sull’umanismo. prima pubblicazione in Über den Humanismus, Frankfurt am Main 1946, pag 107.