Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Giacobinismo o federalismo?

Giacobinismo o federalismo?

di Alain de Benoist - 12/11/2007

 

 

 

Alcuni mesi fa, abbiamo assistito a un dibattito veramente surrealista. Ne è stato pretesto la firma da parte del governo francese, il 7 maggio 1999, della Carta europea delle lingue regionali o minoritarie. Questo documento, adottato il 5 novembre 1992 a Strasburgo dal Consiglio d’Europa, enunciava un certo numero di disposizioni a favore dell’uso delle lingue regionali nella vita pubblica. La Francia, dopo aver a lungo rifiutato, ha infine accettato di firmare 35 di queste disposizioni su un totale di 98, ossia il minimo richiesto 1.

L’eventualità della ratifica di questo documento ha subito suscitato reazioni di una straordinaria violenza. Si è visto il deputato RPR Jacques Myard denunciare una “balcanizzazione linguistica che sfocerà in una balcanizzazione politica… un suicido collettivo” 2, mentre il socialista Georges Sarre assicurava di vedere nella Carta un modo per “rimettere in discussione la nozione stessa di popolo francese che, dalla Rivoluzione, è il fondamento della cittadinanza”. Yvonne Bollmann assicurava, nello stesso spirito, che “le lingue regionali sono il modo migliore di smantellare gli Stati facendo finta di niente” 3. “Non vorrei – dichiarava Jean-Pierre Chevènement – che alla nozione di popolo francese si sostituissero altri concetti più fumosi, che hanno un rapporto con l’origine etnica” 4. Si potrebbero citare molti altri esempi. Quelli appena forniti bastano a mostrare che l’espressione di una qualunque identità collettiva particolare nello spazio pubblico è oggi sistematicamente vista o vissuta come un'aggressione contro il modello repubblicano, una rimessa in discussione della nazione o l’annuncio della sua prossima disintegrazione.

Quando si osserva la situazione delle lingue regionali in Francia, non si ha tuttavia l’impressione che costituiscano un simile pericolo. Verso il 1910, si contavano ancora più di un milione di cultori della tradizione bretone nella Bassa Bretagna. Oggi non sono più di 250.000. All’inizio del XX secolo, il dialetto alsaziano era parlato dalla quasi totalità degli alsaziani, proprio come la lingua corsa era parlata dalla quasi totalità dei corsi. Oggi in Corsica non ci sono più di 140.000 locutori della lingua corsa su 250.000 abitanti, e in Alsazia più di 900.000 germanofoni su 1,7 milioni di abitanti. Nel Paese Basco, appena più di un quarto della popolazione possiede ancora una competenza attiva nella lingua basca. Quanto al numero di coloro che usano una parlata occitana, è passato da 10 milioni nel 1920 a meno di due milioni oggi. Si contano peraltro 120.000 locutori di catalano e 35.000 locutori di fiammingo, che beninteso parlano tutti anche francese. Infine, nel corso del 1996-97, soltanto 335.000 alunni su un totale di dodici milioni hanno studiato le lingue regionali.

Ciò che dunque a prima vista colpisce in questo dibattito al quale abbiamo assistito, è l’apparente sproporzione tra il vigore delle reazioni e la realtà delle cose. Tuttavia, si comprende presto che se il dibattito ha assunto tali proporzioni, è perché aveva un valore simbolico e perché le vere poste erano altrove.

A suo modo, è stato il Consiglio costituzionale a situarle chiaramente quando, il 15 giugno 1999, ha statuito che la Carta europea delle lingue regionali, “in quanto conferisce diritti specifici a ‘gruppi’ di locutori di lingue regionali o minoritarie all’interno di ‘territori’ nei quali queste lingue sono praticate, attenta ai principi costituzionali di indivisibilità della Repubblica, di uguaglianza davanti alla legge e di unicità del popolo francese”. Già nel 1991, il Consiglio costituzionale aveva rifiutato il riconoscimento legale dell’esistenza del popolo corso (come “comunità storica e culturale componente del popolo francese”, per riprendere i termini del progetto censurato) 5. Il motivo era lo stesso: la Costituzione francese si oppone “a che siano riconosciuti diritti collettivi a un qualsiasi gruppo, definito come una comunità d’origine, di cultura, lingua o credenza”.

La dichiarazione del Consiglio costituzionale ha il merito della chiarezza. I principi sui quali si fonda dipendono infatti da un’ideologia molto precisa. Questa ideologia è quella del giacobinismo, ed è su di essa che bisogna ora interrogarsi per identificarne le radici storiche e misurarne la portata.

Il giacobinismo corrisponde storicamente alla forma più estrema dell’ideologia dello Stato moderno, ossia dello Stato-nazione. È un’ideologia che tende a far concordare in modo rigoroso, a rendere omotetiche su uno stesso territorio, l’unità politica e l’unità culturale o linguistica, grazie all’azione di un potere centrale detentore di una sovranità esclusiva, supporto visibile dell’interesse di tutti e rappresentante unico della totalità dei cittadini. Questa volontà di unità induce a porre lo Stato e la nazione, la cittadinanza e la nazionalità, come sinonimi.

Benché il termine di “giacobinismo” faccia evidentemente allusione all’azione condotta all’epoca della Rivoluzione francese dal Club dei Giacobini, la realtà che gli corrisponde è in realtà molto più antica. Essa appare infatti fin dall’Ancien Régime, in particolare con l’emergere in Jean Bodin, nel XVI secolo, di una nuova teoria della sovranità. Mentre nel Medioevo l’istanza sovrana rappresentava soltanto l’istanza alla competenza più vasta, quella alla quale spettava il potere ultimo di decisione, la sovranità in Jean Bodin si definisce come la capacità per il principe di situarsi al di sopra della legge positiva (legibus solutus) e di disporne a suo piacimento, avendone il monopolio assoluto. Questa concezione si ispira all’assolutismo papale (e più in là, al modello dell’onnipotenza divina), e procede del resto di pari passo con la diffusione del diritto romano a spese del diritto consuetudinario. Essa comporta una nuova teoria della rappresentazione politica, che agirà d’ora in poi come fattore di unità e omogeneità. Il principe, lungi dall’essere un delegato o un esecutore, riassume in sé tutti gli individui. Sovrano e rappresentante sono una cosa sola, perché lo Stato incarna tutti i membri della società. Al pluralismo medievale, caratterizzato dall’intreccio dei vassallaggi e dalla dispersione della sovranità, succede allora un blocco monolitico che si riassume nella persona e nel corpo del re. I gruppi sociali quindi non sono altro che organi passivi della Repubblica. La concezione bodiniana della sovranità getta in tal modo le basi dell’assolutismo e diventerà a poco a poco sinonimo di potere illimitato.

Bodin non rimette ancora in discussione la funzione sociale dei gruppi intermedi, di cui riconosce l’esistenza prepolitica, ossia l’esistenza anteriore allo Stato. Con Hobbes, per contro, lo Stato diventa la sola forma di organizzazione sociale legittima. Quanto al sovrano, detiene più che mai il monopolio della rappresentazione. Scrive Hobbes: “Una moltitudine diventa una persona sola quando questi uomini sono rappresentati da un solo uomo o una sola persona… Perché è l’unità di colui che rappresenta, non l’unità del rappresentato, a rendere una la persona”. Precursore del liberalismo, Hobbes afferma peraltro che l’individuo deve essere visto come essere completo e autosufficiente. La sola modalità associativa riconosciuta è quindi il contratto stipulato tra individui autonomi. I corpi intermedi sono nello stesso tempo sollecitati a cancellarsi davanti alle prerogative dell’individuo o all’onnipotenza del Leviatano 6.

Nel 1789, la Rivoluzione costituisce la nazione politica, abolendo gli ordini dell’Ancien Régime, ma conserva, aggravandola, la stessa tendenza al centralismo, la stessa concezione della sovranità. Essa trasferisce soltanto alla nazione le prerogative del principe e l’unità indivisibile che al tempo della monarchia assoluta si attribuiva alla persona del re. L’ossessione dell’unità è in essa più forte che mai. “L’unità è la nostra fondamentale massima, l’unità è la nostra difesa antifederalista, l’unità è la nostra salvezza”, non cesseranno di ripetere Saint-Just e Robespierre 7.

Mentre Rousseau aveva non senza ragione criticato l’idea di rappresentazione in nome di un ideale di democrazia diretta preso a prestito dall’Antichità, Siéyès, fin dal gennaio 1789, definisce la nazione come “un corpo di associati viventi sotto una legge comune e rappresentati dalla stessa legislatura” 8, ossia da una stessa assemblea incaricata di legiferare. Questo significa che la nazione riposa d’ora in avanti su un patto sociale, un impegno soggettivo. Lungi dall’essere un prodotto della natura o della storia, è solo la risultante di un atto creativo volontario degli individui, senza preesistere o imporsi ad essi in qualche modo. Poiché la nazione politica esige la rappresentazione unica (una sola assemblea deve rappresentare tutti i cittadini), questo significa anche che non può esistere una legge particolare che si applica a un gruppo determinato; non ci sono che leggi generali, che si applicano a tutti gli individui, senza tener conto dei loro caratteri particolari. La nazione si identifica quindi non più con il popolo o la società, ma con lo Stato. È costituita da esso e, contemporaneamente, quest’ultimo coincide con quella.

La nozione di uguaglianza, concepita come sinonimo di omogeneità, gioca evidentemente qui un ruolo centrale. Tutti i cittadini sono assoggettati alla stessa legge perché sono considerati come fondamentalmente identici. L’uguaglianza, in altri termini, non è vista come un modo per ristabilire l’equilibrio o l’equità tra differenti gruppi in ragione stessa delle loro differenze, ma come un modo per negare queste differenze. Ma l’uguaglianza implica l’esistenza di un’autorità centrale abbastanza potente per farla regnare. La rivendicazione di uguaglianza giustifica così l’ingerenza sempre più spinta dello Stato nei meccanismi della vita sociale, e contemporaneamente l’instaurazione dello Stato stimola il desiderio di omogeneità degli statuti. Quanto alla libertà, che esprimeva in origine la capacità di autonomia sociale, ed era dunque indissociabile dall’idea di reciprocità, di messa in comune, diventa semplice assenza di ostacoli alla volontà individuale. Essa è posta come un diritto posseduto dall’individuo di affrancarsi da ogni obbligo e da ogni appartenenza. Non è più possibilità di fare, ma possibilità di non fare, di affrancarsi, di sciogliersi. Si vede in tal modo quanto l’individualismo e lo statalismo fossero destinati a camminare con lo stesso passo. Più le comunità si disfano, più le solidarietà naturali spariscono, lasciando l’individuo sempre più solo e vulnerabile, e più lo Stato dovrà prendere a suo carico ciò che una volta dipendeva dai rapporti di reciprocità. Sempre più individuo vuol dire sempre più Stato, noterà Tocqueville 9.

Dissociando il popolo e la nazione, la modernità politica opera dunque una separazione tra la società e lo Stato. Partendo dall’idea che “nessun raggruppamento umano è naturale” 10 – idea totalmente nuova – lo Stato-nazione esclude per principio il pluralismo dei corpi sociali nella misura stessa in cui consacra l’avvento dell’individuo. Ogni pluralismo sociale costituisce infatti un ostacolo all’unità che vuole instaurare. Avendo il monopolio dell’organizzazione giuridica, lo Stato-nazione non può tollerare la conservazione nel suo seno di entità giuridiche su base personale, e impedisce dunque alle comunità e alle regioni sulle quali esercita il suo potere di istituirsi o di conservarsi come entità di questo genere. Di fronte a sé e sotto di sé, non vuole conoscere che individui isolati che non potrebbero scoprirsi caratteristiche comuni reclamando l’attribuzione di diritti collettivi, individui isolati che non possono disporre di una propria organizzazione politica o giuridica, anche se hanno caratteri naturali o culturali in comune. In quanto totalità unificata e produttrice di norme, esso propone una forma di socializzazione che si riduce a un faccia a faccia tra l’individuo e lo Stato. Perciò, come spiega Pierre Rosanvallon, “non avrà pace finché avrà metodicamente distrutto tutte le forme di socializzazione intermedie formate nel mondo feudale che costituivano comunità naturali sufficientemente importanti nella loro dimensione per essere relativamente autosufficienti” 11.

Il moderno principio di cittadinanza prescinde dunque dalla lingua, dalla cultura, dalla credenza, dalla razza, dal sesso, ecc., ossia da tutto ciò che fa sì che le persone sono come sono e non altrimenti. Riposa sull’“uguaglianza” degli individui in rapporto al solo sistema politico, essendo ripiegato sulla sfera privata tutto ciò per cui essi differiscono. Considerate contingenti, minori, o addirittura illusorie, le differenze culturali e le identità collettive sono ritenute politicamente insignificanti e sono tollerate solo a condizione di essere invisibili o inoperanti nella sfera pubblica. La dottrina ufficiale è ormai quella dell’assimilazione, ossia quella dello sradicamento-digestione: l’Altro deve diventare il Medesimo. “La modernità politica – scrive Maurice Barbier – rigetta gli elementi etnici e culturali dalla sfera politica e permette loro di esistere solo nella società civile” 12.

Come i legisti reali insorgevano contro “ogni corpo separato” da quello del re, la Repubblica si è dunque fin dall’inizio rifiutata di tollerare nel suo seno degli “elementi eterogenei”, la finzione secondo cui la volontà di ciascuno si esprime in quella dello Stato permettendo di screditare le comunità naturali come pure le associazioni. La Dichiarazione del 1789 precisa così che “nessun corpo” può esercitare un’autorità che non emani espressamente dalla “nazione”. Il 14 febbraio 1791, la legge Le Chapelier dissolve le corporazioni e ogni forma di associazione professionale operaia: “Non deve essere permesso ai cittadini di certe professioni di riunirsi per i loro pretesi interessi comuni. Non ci sono più corporazioni nello Stato, non ci sono che l’interesse particolare di ogni individuo e l’interesse generale”.

Le minoranze si trovano nello stesso tempo private di ogni statuto politico. Perciò la generalizzazione del principio dello Stato-nazione si manifesterà un po’ dovunque con l’oppressione delle minoranze. “La nozione stessa di minoranza (sia essa etnica, linguistica o religiosa) -  scrive ancora Maurice Barbier (che d’altronde se ne compiace) – si oppone alla modernità politica, perché porta al mantenimento di nazioni etno-culturali, il che attenta alla nazione politica” 13. Nel 1976, il rappresentante della Francia presso la divisione dei diritti dell’uomo dell’ONU potrà ancora dichiarare che la Repubblica francese “non ammette alcuna distinzione stabilita su caratteri etnici ed esclude in tal modo ogni nozione di minoranza”! 14.

Nello stesso spirito, nel corso del XIX secolo la classe politica si è sforzata di interdire o limitare il diritto di associazione. Il 10 aprile 1834, la monarchia di Luglio reprime la costituzione di associazioni, salvo precedente autorizzazione. La III Repubblica non farà diversamente. L’argomento utilizzato è sempre lo stesso: bisogna proscrivere ogni gruppo che potrebbe dividere la sovranità nazionale, e dunque bandire ogni forma di corpo intermedio suscettibile di permettere una mediazione tra gli individui e lo Stato. Bisognerà attendere la legge del 1901, di cui Waldeck-Rousseau sarà uno dei promotori, per veder finalmente riconosciuto il diritto d’associazione. Questo diritto sarà ancora limitato - conformemente ai postulati riduzionisti caratteristici dell’ideologia individualista (il tutto non può essere altro che la somma delle sue parti) – ai gruppi risultanti da una libera associazione tra individui – il gruppo dovendo essere inteso, come ha precisato Guy Carcassonne, “come sinonimo di una somma di individui, e non come un’entità distinta da coloro che la compongono, in grado di avere un’identità propria e di godere di diritti di cui essa sarebbe titolare” 15. La libertà d’associazione resterà a lungo, “agli occhi della dottrina repubblicana, una libertà di secondo ordine, tutt’al più una libertà concessa e sotto sorveglianza” 16.

“I repubblicani – ha scritto Shmuel Trigano – fanno del centralismo identitario e dell’astrazione cittadina i criteri dell’uguaglianza. Ma questa uniformazione, questa indicizzazione dell’identità a un’identità predeterminata e normativa, rischia seriamente di escludere piuttosto che di riconoscere” 17. Nelle dichiarazioni dei sostenitori del giacobinismo si parla infatti solo di esclusione, interdizione, proscrizione. Citiamone alcune. Henri Caillavet e Charles Conte: “Essere repubblicani vuol dire rifiutare l’istituzionalizzazione politica delle differenze costitutive della società” 18. Michel Clapié: “La Repubblica non potrebbe riconoscere nel suo seno che gruppi di cittadini liberamente formati sulla base della loro sola volontà e in alcun caso gruppi predeterminati, fondati su criteri che essa espressamente riprova” 19. René Andrau: “La Repubblica non riconosce i diritti delle culture come realtà costitutive dello spazio pubblico” 20. Dominique Schnapper: “Appartenere per nascita a un gruppo riconosciuto dalla legislazione è contraddittorio con la libertà dell'uomo democratico” 21. E potremmo continuare a lungo con gli esempi.

Il modello dello Stato-nazione ha ispirato tutti i nazionalismi moderni, ed ha al contempo costituito il principio fondante della Società delle nazioni (SDN), poi delle Nazioni Unite. A questo titolo, è stato la causa di innumerevoli conflitti. Affermare la sovranità come libertà illimitata e indipendenza assoluta porta infatti necessariamente a scontri in nome del sacro egoismo. Denis de Rougemont, al quale si è attribuita la paternità del concetto di “Europa delle regioni”, scrive a questo proposito: “La volontà fondamentale dello Stato-nazione: imporre le stesse frontiere al patriottismo, all’amministrazione, alla lingua, all’economia e alla cultura, ossia alle costrizioni e alle libertà, ci getta in pieno nel delirio totalitario” 22. La tesi non ha niente di eccessivo, poiché tutti i regimi totalitari del XX secolo sono in primo luogo stati dei regimi giacobini.

Friedrich Engels chiede, fin dal 1849, nella Neue Rheinische Zeitung, “lo sterminio dei serbi e delle altre popolazioni slave, come dei baschi, dei bretoni e degli Highlanders scozzesi”. Alcuni anni dopo, nel marzo-aprile 1852, Karl Marx si pronuncia per “l’estinzione dei creoli francesi e spagnoli, come delle popolazioni moribonde, i cechi, gli sloveni, i dalmati” 23. Altrove, scrive freddamente: “La prossima guerra mondiale farà sparire dalla superficie della terra non soltanto classi e dinastie reazionarie, ma interi popoli reazionari. Anche questo fa parte del progresso” 24. Nel secolo successivo, i regimi comunisti eseguiranno in parte questo programma. Il nazionalsocialismo, dal canto suo, realizzerà in tutti i campi una “messa al passo” (Gleichschaltung) procedente nel senso dell’omogeneizzazione, mostrando così, come ha molte volte sottolineato François-Georges Dreyfus, che ha rappresentato la “forma tedesca del giacobinismo”, e al contempo una rottura fondamentale rispetto al resto della storia politica tedesca 25. Due mesi dopo la presa del potere di Hitler, per non citare che questo esempio, la legge sulla “messa al passo del Länder” (31 marzo 1933) sopprime i parlamenti regionali.

Nel corso del XIX secolo, tuttavia, non hanno smesso di alzarsi voci in favore di una ricostruzione dei corpi intermedi tra lo Stato onnipotente e il cittadino isolato. Citerò qui solo gli esempi di Proudhon, Tocqueville e Renan.

Contestando radicalmente l’ideologia di un Siéyès, Proudhon, convinto partigiano del “principio federativo”, afferma che “una nazione che si fa rappresentare, deve essere rappresentata in tutto ciò che la costituisce: nella sua popolazione, nei suoi gruppi, in tutte le sue facoltà e condizioni” 26. Nella maggior parte dei socialisti francesi, il modello della rappresentazione subisce inoltre la concorrenza di quello dell’associazione. “L’idea proudhoniana di federalismo – ricorda Joël Roman – fu esplicitamente proposta in opposizione alla rappresentazione politica, e il nascente movimento operaio si riconobbe di più nella nozione di associazione” 27. Per mezzo delle strutture associative, i socialisti cercano di sviluppare l’autonomia operaia, e nello stesso tempo di ricreare norme di condotta, ruoli sociali e identità collettive concrete, per rimediare alla progressiva dissoluzione dei vecchi quadri di socievolezza naturale.

Alexandre de Tocqueville, dal canto suo, mostra la continuità esistita tra la monarchia e la Repubblica in materia di assolutismo e centralizzazione 28. Distinguendo la centralizzazione governativa e la centralizzazione amministrativa, egli scrive che la prima si giustifica quando tratta degli interessi comuni a tutte le parti del paese, mentre la seconda, che porta lo Stato a trattare problemi locali o regionali, serve solo a “snervare i popoli che vi si sottomettono perché tende continuamente a diminuire in essi lo spirito di cittadinanza” 29.

Tocqueville attribuisce la più grande importanza alle associazioni. Osservando che nell’epoca moderna ciò che gli uomini non fanno associandosi tra loro, è lo Stato a farlo al loro posto, arriva persino a vedere in esse l’equivalente funzionale dell’aristocrazia sotto l’Ancien Régime, quando la nobiltà costituiva ancora un contropotere che si interponeva tra il popolo e il sovrano. “Le coscienze e le idee – afferma – non si rinnovano, l’animo non si ingrandisce e lo spirito umano non si sviluppa, se non attraverso l’azione reciproca degli uomini gli uni sugli altri” 30. Il sistema associativo, d’altronde, non permette soltanto di ricreare dei corpi intermedi tra l’individuo e lo Stato. Permette altresì ai cittadini di abituarsi a trattare affari pubblici, il che costituisce un rimedio contro l’individualismo. Tocqueville pensa che il miglior tirocinio democratico lo si faccia su scala comunale: “Proprio nel comune risiede la forza dei popoli liberi. Le istituzioni comunali sono per la libertà quello che le scuole elementari sono per la scienza” 31. Associazioni locali e libertà comunali o regionali hanno dunque il triplice vantaggio di permettere di coltivare lo “spirito di libertà”, di favorire la partecipazione degli individui alla vita pubblica e, in tal modo, di portarli all’esercizio della cittadinanza politica: “Bisogna dunque, per interessare i cittadini al bene pubblico e per far loro vedere il continuo bisogno che hanno gli uni degli altri per produrlo, non affidare loro il governo dei grandi affari, ma incaricarli dei piccoli” 32.

Anche Ernest Renan, nella sua Réforme intellectuelle et morale (1871), denuncia la centralizzazione – che, dice, ha fatto della Francia un “colosso la cui testa è stata smisuratamente ingrandita” – e propone di riconoscere ai comuni e ai cantoni un potere reale nella gestione dei loro affari. Peraltro, anche lui sottolinea la parte di responsabilità dell’Ancien Régime nella situazione che deplora. In particolare, stigmatizza i legisti imbevuti di diritto romano come Pierre Flotte, Pierre du Bois e Guillaume de Nogaret, che si adoperarono per legittimare la lotta di Filippo il Bello contro l’Impero all’esterno e i feudatari all’interno. Evoca anche il ruolo svolto dall’evoluzione delle tecniche militari: “L’artiglieria ebbe l’effetto di demolire uno dopo l’altro i castelli feudali”.

Nella sua Philosophie de l’histoire contemporaine, pubblicata nel 1859, Renan già scriveva: “Appartiene all’essenza degli Stati moderni possedere un’aristocrazia il cui ruolo consiste nel limitare la monarchia e nell’impedire l’esagerato sviluppo dell’idea di Stato. La nobiltà francese, bisogna dirlo, è sempre venuta meno a questa vocazione. Brillante e leggera, la vediamo, dal XIV secolo, porre tutta la sua gloria nel mostrarsi a corte in tutto il suo splendore… Versailles fu per la nobiltà la tomba di ogni virtù e di ogni fierezza” 33. Questa tendenza toccò il vertice all’epoca dell’assolutismo: “La Francia… seguendo il suo gusto per l’uniformità e quella tendenza teocratica che il cattolicesimo porta in sé, [è arrivata] a realizzare il fenomeno più strano dei tempi moderni, la monarchia di Luigi XIV, una sorta di ideale sassanide o mongolo che deve essere considerato come un fatto contro natura nell’Europa cristiana” 34. Renan mostra così la responsabilità diretta della monarchia assoluta nell’avvento della Rivoluzione: “Richelieu e Luigi XIV sono stati… i grandi rivoluzionari, i veri fondatori della repubblica. L’esatto pendant della colossale monarchia di Luigi XIV è la Repubblica del 1793 con la sua spaventosa concentrazione di poteri, mostro inaudito, come non se ne erano mai visti” 35.

La definizione che Renan dà della nazione è meno esclusivamente volontarista di quanto abitualmente si dice. “Due cose – scrive – costituiscono la nazione. L’una è nel passato, l’altra nel presente. L’una è il comune possesso di un ricco lascito di ricordi; l’altra è il consenso attuale, il desiderio di vivere insieme, la volontà di continuare a far valere l’eredità che si è ricevuta indivisa” 36. La considerazione di questi due elementi sfocia in una visione equilibrata. Se infatti le nazioni sono immaginate e reinventate tutti i giorni, se è vero che si preservano continuando a costruirsi, e non conservandosi immutate, esse non si costruiscono a partire dal niente. Il voler-vivere insieme è indissociabile da un passato comune, e da una interpretazione collettiva di questo passato.

Altri autori hanno mostrato che lo Stato e la “nazione” (ossia il popolo) non necessariamente si identificano. Per Herder, ad esempio, la “nazione” o il popolo prevale nettamente sullo Stato, che inoltre non potrebbe avere un’esistenza autonoma.

Nei due grandi teorici della socialdemocrazia austriaca Karl Renner (1870-1950) e Otto Bauer (1881-1938), i due concetti sono ugualmente separati, ma in un’altra prospettiva, vicina per molti aspetti all’antica teoria imperiale. Karl Renner definisce la nazione come una “comunità di cultura” (Kulturgemeinschaft) che riposa sul principio personale, e lo Stato come una “corporazione sovrana” che riposa sul principio territoriale. In questa accezione, la nazione non è necessariamente legata al territorio. Inversamente, uno Stato può raccogliere su uno stesso territorio diverse nazionalità, di cui permette la coesistenza offrendo loro un quadro federatore. È la ragione per la quale Renner critica il principio delle nazionalità: “Le nazioni vanno costituite non in quanto corporazioni territoriali, ma in quanto associazioni di persone, non in quanto Stati, ma in quanto popoli” 37. Per Otto Bauer, la nazione si manifesta attraverso la manifestazione di un certo numero di caratteri naturali e culturali. Essa si definisce allora come “l’insieme degli uomini legati dalla comunità di destino in una comunità di carattere” 38. Questa concezione organica della nazione induce Bauer a conferirle un’esistenza autonoma in seno a uno Stato che può associarne diverse – e a denunciare a sua volta la “concezione atomistico-centralista” nella quale gli individui non sono che atomi disorganizzati di fronte a uno Stato onnipresente.

 

*

 

Dopo averlo ricollocato nel più ampio quadro della storia del giacobinismo, possiamo ora meglio apprezzare la natura dell’esclusivismo linguistico. Questo esclusivismo appare in Europa con la nascita dei primi Stati-nazione. Per la Francia, si è soliti farlo risalire alla celebre ordinanza di Villers-Cotterêts, firmata nell’agosto 1539 da Francesco I, che impone l’uso della lingua francese al posto del latino per la redazione di tutti gli atti giuridici e amministrativi. Pressappoco nella stessa epoca, nel 1536, l’Atto di unione che legava l’Inghilterra e il Galles specifica che l’inglese sarà d’ora in poi la sola lingua ufficiale del regno. Un secolo e mezzo più tardi, nel 1707, Filippo V impone il castigliano come sola lingua ufficiale in Spagna, compresi la Catalogna e il Paese Basco.

A partire dalla fine del XVI secolo, la progressiva diffusione della lingua francese, non soltanto a scapito del latino, ma anche delle lingue regionali, accompagnerà la costruzione dello Stato monarchico, poi repubblicano, in modo così costante che, secondo il linguista Bernard Cerquiglini, si potrebbe dire che per certi aspetti “lo Stato in Francia si è costituito attraverso la sua lingua” 39.

Parallelamente, la lingua francese sarà essa stessa costruita sempre più come un insieme omogeneo e unitario. La creazione dell’Accademia francese da parte di Richelieu, nel 1634, gioca da questo punto di vista un ruolo importante. L’Accademia, che pubblica la prima edizione del suo celebre Dizionario nel 1694, mira al contempo a mettere gli scrittori al servizio del principe e a fissare una volta per tutte le modalità d’uso del francese. Essa sanziona il cattivo uso della lingua – della qual cosa non ci si può lamentare – ma imbriglia al tempo stesso la sua vitalità, rigettando in questo cattivo uso tutte le varianti, nate dalla spontaneità e dall’inventiva delle parlate popolari, che si allontanano dal modello normalizzato. Infine, essa allinea le regole della lingua sull’uso che ne è fatto dal potere centrale. Già Ronsard, ne La Franciade (1574), sosteneva che “di tutti i dialetti, quello cortigiano è il più bello a causa della maestà del Principe”. Dopo di lui, Malherbe si vanta di “deguasconizzare” la lingua francese. Nel XVII secolo, Vaugelas non si nasconde di privilegiare “l’uso della parte migliore della corte”.

La diffusione del francese in questa epoca deve tuttavia poco a misure coercitive che sarebbero state prese in suo favore 40. Per contro, deve molto a fattori di ordine sociale, a cominciare dalla crescente potenza della borghesia. Sono infatti le élites borghesi ad abbandonare per prime le lingue regionali perché pensavano di rafforzare la loro posizione di classe abbandonando la lingua del popolo a vantaggio della lingua dello Stato, che era ugualmente quella del grande commercio. Non soltanto era utile imparare il francese, ma uniformarsi agli usi linguistici della corte era anche un mezzo di promozione o ascesa sociale.

Alla vigilia della Rivoluzione, tuttavia, la vasta maggioranza dei francesi non sempre parlano, o parlano male, il francese. Le masse popolari si esprimono principalmente in bretone, in basco, nei dialetti germanici, mosellani o fiamminghi, o nelle parlate regionali di lingua d’oc e d’oïl. Dichiarata “una e indivisibile” nel 1789, la Francia non è molto unita e può facilmente essere divisa. Comincia allora a farsi sentire la necessità propriamente politica di una “lingua nazionale”, i “vernacoli” apparendo al contempo come un arcaismo e un ostacolo alla diffusione delle nuove idee.

Il 30 settembre 1793, in un rapporto presentato davanti al Comitato dell’istruzione pubblica, l’abate Grégoire chiede che si facciano sparire “insensibilmente i gerghi locali, i vernacoli di sei milioni di francesi che non parlano la lingua nazionale”, adducendo la necessità “di estirpare questa diversità di idiomi grossolani che prolungano l’infanzia della ragione e la vecchiaia dei pregiudizi”. Poco dopo, il 27 gennaio 1794, Barère pronuncia davanti alla Convenzione la sua celebre dichiarazione: “Abbiamo rivoluzionato il governo, i costumi, il pensiero, rivoluzioniamo anche la lingua: il federalismo e la superstizione parlano il bretone della bassa Bretagna, l’emigrazione e l’odio per la Repubblica parlano tedesco, la controrivoluzione parla italiano e il fanatismo parla basco. Spezziamo questi strumenti di danno e d’errore… Cittadini, la lingua di un popolo libero deve essere una e la stessa per tutti”. La Convenzione decide subito l’invio in una dozzina di dipartimenti di istitutori incaricati “di insegnare tutti i giorni la lingua francese e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo”. Associazione rivelatrice.

Il 4 giugno 1794, l’abate Grégoire ritorna sullo stesso tema nel suo Rapport sur la nécessité et les moyens d’anéantir les patois et d’universaliser l’usage de la langue française. “Non abbiamo più provincie – esclama – e abbiamo ancora circa trenta vernacoli che ne ricordano i nomi… Per estirpare tutti i pregiudizi, sviluppare tutte le verità, tutti i talenti, tutte le virtù, fondere tutti i cittadini nella massa nazionale, semplificare i meccanismi e facilitare il gioco della macchina politica, occorre identità di linguaggio”. Il mese successivo, il decreto del 20 luglio 1794 conferma che “ogni atto pubblico, in qualunque parte del territorio della Repubblica, potrà essere scritto solo in lingua francese”. Per i trasgressori sono previste pene detentive. Sempre davanti alla Convenzione, un certo Lacoste di Buschweiler arriverà fino al punto di proporre di far ghigliottinare un quarto di alsaziani per obbligare i restanti tre quarti a parlare francese.

Gli argomenti allora impiegati sono rivelatori. Denunciando le lingue regionali, i giacobini sono mossi da ben precise considerazioni ideologiche. Si tratta in primo luogo di “spezzare i pregiudizi”, ossia di far sparire tutto ciò che ricorda il passato. Si tratta poi di sradicare ciò che fa da schermo tra gli individui e lo Stato, ossia, per riprendere i termini dell’abate Grégoire, di “fondere tutti i cittadini nella massa nazionale” per “facilitare il gioco della macchina politica”. Ma si tratta anche di “universalizzare” una lingua che, essendo stata la prima ad esprimere il pensiero dell’Illuminismo, è per questo considerata la lingua più perfetta, la lingua universale, quella che per natura è destinata a diffondere nel mondo intero gli ideali della “ragione” e del “progresso”, invece “dei vernacoli, dei gerghi e degli idiomi che esprimono solo particolari forme locali di grossolanità e arretratezza, o, come si direbbe oggi, di sottosviluppo” 41.

Il giacobinismo implica dunque una politica linguistica unitaria e centralizzata. Consiste nel conferire a una sola lingua il beneficio di essere quella dello Stato, e nell’ostacolare o proibire ogni uso pubblico di altre parlate autoctone o popolari. Relegate alla sfera privata – si ha “il diritto di parlare in vernacolo ‘alla propria moglie e ai propri animali’, i bambini essendo protetti per andare bene a scuola” 42 – le altre lingue restano allora limitate all’uso orale, che le lascia partire “alla deriva dell’irregolarità grammaticale, dell’impoverimento lessicale e dello sgretolamento dialettale. Le lingue così minimizzate, private di ogni funzione utile, valorizzata e valorizzante, sono gradualmente eclissate nella mente dei loro stessi locutori dalla lingua dello Stato, la sola a conferire il prestigio e l’efficacia e capace di aiutare nell’ascesa sociale… La lingua di Stato diventa così, di generazione in generazione e progressivamente, non soltanto la lingua della comunicazione e della cultura, ma la lingua materna di una parte crescente della popolazione. L’omogeneità culturale degli abitanti può allora essere ottenuta e coincidere con l’unità territoriale dello Stato”43.

A partire di qui, il declino delle lingue regionali si esprime in una semplice constatazione: durante tutti i secoli XIX e XX, ci saranno ogni anno, sul territorio francese, meno locutori in grado di parlare ai loro figli nella stessa lingua usata dai loro genitori nei loro confronti.

Le cause di questo lento declino sono molteplici. Al di fuori del fattore di classe di cui abbiamo già parlato, e che ha sempre svolto un ruolo, è tutto il processo costitutivo della modernità ad aver scoraggiato l’uso delle parlate regionali. Mentre nel 1863 un quarto dei cittadini francesi non sempre parlavano francese 44, l’istituzione della scuola obbligatoria e del servizio militare ha rappresentato una svolta essenziale: l’uso delle lingue regionali era sanzionato a scuola, mentre nell’esercito erano inutilizzabili. La progressiva scomparsa dei contadini ha ugualmente giocato un ruolo (nel 1932, il numero di cittadini ha superato in Francia quello dei contadini). Più tardi, sarà la volta della televisione.

Anche se non bisogna esagerare la portata della coercizione, perché la scuola di Jules Ferry non ha sempre cercato sistematicamente l’estinzione delle lingue regionali 45, l’atteggiamento delle autorità politiche è stato loro generalmente ostile, e persino molto ostile. Dopo l’adozione, il 7 giugno 1880, di un decreto che sanciva che “solo il francese sarà usato nella scuola”, gli alunni sorpresi a “vernacolizzare”, ossia a parlare la loro lingua materna, saranno frequentemente puniti o ridicolizzati davanti ai loro compagni. D’altra parte, dopo il 1900, il campo repubblicano inizia a militare a favore di una concezione della laicità fondata sull’unificazione linguistica, il che dà luogo a una nuova offensiva 46. Nel 1925, una circolare del ministro radicale dell’istruzione pubblica Anatole de Monzie esclude ogni suggerimento tendente all’uso degli “idiomi locali” nelle scuole. Il 29 luglio 1925, lo stesso Anatole de Monzie, inaugurando la Casa di Bretagna all’Esposizione delle Arti decorative, dichiara freddamente: “Per l’unità linguistica della Francia, occorre che la lingua bretone sparisca”. Quanto al regime di Vichy, non soltanto non fece niente per le lingue regionali, ma combatté con forza l’autonomismo bretone, arrivando fino al punto di sottrarre (decreto Pétain-Darlan del 30 giugno 1941) la Loire-Atlantique e la città di Nantes alla Bretagna, di cui facevano parte dal IX secolo 47. Questa riforma non sarà rimessa in discussione dalla IV Repubblica, che non esiterà, al contrario, a sopprimere le circoscrizioni regionali create sotto la precedente Repubblica.

La legge Deixonne (11 gennaio 1951), tendente a “favorire lo studio delle lingue e dei dialetti locali nelle regioni in cui sono usati”, ha permesso di mettere in piedi solo un insegnamento marginale. Le regioni hanno certamente riacquistato importanza a partire dagli anni Cinquanta, ma per ragioni essenzialmente economiche e per dare all’azione amministrativa un quadro più vasto del dipartimento. Le Commissioni di sviluppo economico regionale (Coder) non sono mai state rappresentative. Negli anni Sessanta e Settanta, la regione appare anzitutto come una suddivisione giudicata più efficace del territorio dello Stato-nazione, un elemento della pianificazione di questo territorio, uno strumento di intervento supplementare del potere centrale – e in definitiva, per dirla con Yves Mény, come “il bastardo burocratico concepito per rendere più funzionale un sistema giacobino impegolato in strutture territoriali di un’altra epoca” 48. Quando saranno finalmente adottate le leggi del 1982 sulla decentralizzazione, sarà ancora soltanto in una prospettiva di semplice modernizzazione funzionale e di sviluppo economico.

Nel corso dei secoli, le lingue regionali e i loro locutori, che sarebbe d’altronde meglio chiamare “minoranze linguistiche oppresse” o “comunità culturali minacciate” 49, non hanno dunque smesso di essere rigettate, minimizzate, o appena tollerate nella misura in cui si rinchiudevano nel solo ambito letterario. Questo rigetto ha istituito una segregazione implicita tra due categorie di cittadini francesi, “quelli che avevano il diritto di utilizzare nella vita pubblica la loro lingua materna e quelli che non avevano questo diritto e dovevano impiegarne un’altra” 50. Questa acculturazione linguistica e culturale ha prodotto le classiche patologie della colonizzazione: la falsa coscienza, la rimozione di una differenza vissuta come marchio, il disprezzo e l’odio di sé, il rifiuto della propria identità. Il popolo delle regioni dalla personalità più marcata si è ritrovato nella posizione dei colonizzati – ed anche in quella di quei bambini adottati cui si è nascosta la loro vera identità, e che scoprono un giorno di essere stati ingannati sulle loro origini.

Ascoltiamo come Marcel Texier evoca il suo caso personale per parlare dell’identità bretone: “Sono stato trattato come un bambino del brefotrofio: portato via attraverso una notte senza luna della storia, portato via nel cappotto di Carlo Magno, affidato a Madame Blanche di Castiglia, allevato con un mucchio di Luigi numerati; e quando, malgrado tutto, ho saputo che la mia nazione era esistita e mi sono sforzato di conoscerla, mi è stata dipinta storcendo il naso, come la madre adottiva, tempestata di domande dal suo pupillo, finisce per confessargli chi è la sua vera madre: una megera retrograda e che parlava in dialetto, da cui dovevo ritenermi felice di essere stato separato” 51.

Il dibattito sulla Carta europea delle lingue regionali ha mostrato, se ce n’era ancora bisogno, che la situazione non è fondamentalmente evoluta. In questo momento assistiamo anche a una nuova demonizzazione del regionalismo, dell’etnismo o del comunitarismo, che rientra in larga misura nel campo dell’immaginazione. Si parla di “comunitarismo” senza avere la minima idea di ciò che scrivono i teorici comunitaristi. Si continua a celebrare la rimozione o la liquidazione delle identità come una “emancipazione” 52. Si squalificano le rivendicazioni “etniche” in nome dell’“universalismo”, dimenticando che l’universalismo non è altro che l’abituale paravento dell’etnocentrismo e che “la promozione del nazionalismo civico è essa stessa etnocentrica” 53. Infine, si criminalizza la rivendicazione identitaria regionalista, costantemente denunciata come intrinsecamente generatrice di violenza 54 da uomini che si richiamano senza turbarsi all’eredità del Terrore e del genocidio vandeano – e che dimenticano che la violenza non è generalmente il tratto caratteristico di una tale rivendicazione, ma piuttosto la conseguenza di un rifiuto di accoglierla.

Ma ciò che maggiormente colpisce è vedere fino a che punto il giacobinismo impregni oggi tutta la classe politica, sia di destra che di sinistra. Sulle lingue regionali e le comunità, sul popolo corso o bretone, l’estrema destra fa lo stesso discorso dell’estrema sinistra. Come il centralismo dell’Ancien Régime aveva aperto la strada a quello della Rivoluzione, così i monarchici e i nazional-repubblicani affermano che “lo Stato-nazione è il garante delle libertà” 55 e che le regioni “non potrebbero rivendicare per sé l’autonomia” 56, impiegando esattamente gli stessi argomenti della sinistra più laicista. I nuovi germanofobi, che apparentemente pensano sempre, come Barère, che “l’odio per la Repubblica parla tedesco”, ritrovano spontaneamente, per denunciare il federalismo, gli accenti dell’abate Grégoire 57. Insomma, al giacobinismo degli ambienti nazionalisti, che sognano un’unità nazionale basata sull’omogeneità culturale, risponde il giacobinismo dei mistici dell’idea “repubblicana”, cantori di un principio astratto fondato sulla rovina delle comunità reali 58.

“Ciò che c’è di notevole nel sistema linguistico giacobino – nota a questo proposito Roland Breton – è che trascende perfettamente la diversità della quindicina di regimi costituzionali successivi conosciuti dalla Francia in due secoli. Il partito giacobino ha potuto essere disprezzato e maledetto da ideologie concorrenti, ma la cosa più notevole della sua eredità, agli occhi della posterità – l’esclusivismo linguistico – è accolta e condivisa, sia in pratica che in teoria, da tutte le altre scuole di pensiero che hanno esercitato il potere o pretendono di farlo con qualche possibilità… Dall’estrema sinistra all’estrema destra, tutti i partiti politici francesi restano indefettibilmente giacobini” 59.  

 

*

 

Tutta la modernità politica ha prolungato, in forma profana, l’idea che l’umanità era fondamentalmente una, e che rispetto a questa unità fondamentale, tutte le singolarità, tutte le differenze collettive potevano essere considerate minori o addirittura inesistenti. Questa idea non è una constatazione empirica, poiché nessuno può vedere l’“umanità” se non attraverso uomini la cui appartenenza e il cui vissuto sono sempre particolari. È soltanto una petizione di principio. L’appartenenza all’umanità non è infatti mai diretta. Vi si appartiene solo attraverso l’intermediazione di un gruppo o di una cultura, il che equivale a dire che l’appartenenza a una cultura o a un gruppo è il modo più naturale che gli uomini hanno per essere umani. Non soltanto l’umanità non è “un insieme uniforme composto di individui rigorosamente identici” 60, ma le culture sono le sole forme – plurali, necessariamente plurali – attraverso le quali l’umanità può esistere.

Ora, la modernità sta per finire. Il suo principale vettore politico, lo Stato-nazione, non cessa di indebolirsi. Si indebolisce perché le istituzioni che in passato avevano costituito altrettanti crogioli assimilatori – l’esercito, la scuola, il lavoro salariato, le Chiese e i partiti – sono entrate tutte in crisi 61. Si indebolisce perché non può più far prevalere l’interesse generale, a causa della progressiva diminuzione della sfera pubblica a vantaggio del privato. Si indebolisce, infine, e soprattutto, perché il suo margine di manovra, la sua capacità d’azione, non cessa di restringersi. Nell’epoca della mondializzazione, gli Stati-nazione sono diventati troppo piccoli per resistere alle “forze globali” (compagnie multinazionali e mercati finanziari) che rendono la loro sovranità sempre più fittizia, pur restando troppo grandi per animare efficacemente la vita pubblica su scala locale 62. Superati dall’alto come dal basso, vedono affermarsi al di sotto di essi comunità e regioni, e al di sopra di essi delle strutture continentali.

Ma la mondializzazione suscita anche, in modo dialettico, una rianimazione delle identità a tutti i livelli. Alla rivendicazione dell’uguaglianza, caratteristica della modernità, si sostituisce oggi sempre più un’affermazione di identità e la rivendicazione di un riconoscimento di questa identità nella sfera pubblica. Questa rivendicazione procede di pari passo con ciò che si è potuto chiamare l’“etica dell’autenticità”. Rompendo con l’ideale individualista dell’atomizzazione sociale, questa etica si fonda sulla relazione che coltiviamo con noi stessi e con le nostre comunità di appartenenza, presuppone che ci realizziamo veramente solo in un adeguamento tra ciò che siamo e ciò a cui apparteniamo. Essa non rinvia a una teoria astratta, ma a una realtà sociale immediata. Come scrive Charles Taylor, “posso definire la mia identità soltanto sullo sfondo di cose che hanno un’importanza. E accantonare la storia, la natura, la società, le esigenze della solidarietà, insomma ogni cosa tranne ciò che trovo in me stesso, significherebbe eliminare tutti i candidati a una qualunque importanza. Soltanto se esisto in un mondo in cui la storia, o le esigenze della natura, o le necessità dei miei simili, o i doveri della cittadinanza, o l'appello di Dio, o qualcos’altro di questo genere ha un’importanza essenziale, posso definire un’identità per me che non sia banale. L’autenticità non è il nemico delle istanze che provengono dall’esterno dell’io; essa anzi le presuppone” 63.

L’attuale ideale di autenticità passa attraverso il riconoscimento pubblico delle specificità collettive. Implica dunque l’emergere e la messa a punto di una “politica del riconoscimento”. Riconoscimento in primo luogo soggettivo, legato alla percezione che le persone hanno di se stesse e delle caratteristiche fondamentali delle comunità alle quali appartengono. Riconoscimento in secondo luogo oggettivo, ormai oggetto di una domanda sempre più potente. La società intende oggi essere rappresentata in tutte le sue componenti, siano esse ereditate o scelte, si tratti delle identità regionali, culturali o etniche, o di identità di condizione (donne, omosessuali, ecc.). Tutto lo sforzo della modernità era consistito nel sostituire un legame politico unico alla diversità dei legami sociali e culturali. La diversità sociale e culturale oggi ritorna, esercitando di nuovo un peso sulla politica attraverso sentimenti e valori condivisi. La modernità aveva ugualmente opposto all’antico ideale dell’onore la nozione di una “dignità” riconosciuta a ogni essere umano, indipendentemente dalle proprie caratteristiche. Questa dignità astratta, troppo frequentemente mistificatrice, non soddisfa più.

Né l’individualismo liberale, né l’ideologia “repubblicana” possono fronteggiare questo ritorno delle identità collettive, né questa domanda di riconoscimento, l’individualismo liberale perché non può pensare l’individuo che come astrazione, come “una sorta di monade alla Leibniz, isolata e senza contesto storico” (Alain Dieckhoff), l’ideologia “repubblicana” perché non può concepire il corpo sociale che come ordinato a principi politici che svuotano di primo acchito tutte le differenze 64.

Diversamente accade con il federalismo, che si caratterizza come un sistema di unità politiche strettamente incastrate, solidali, e che si stimolano reciprocamente. Il federalismo è infatti il solo sistema nel quale il governo centrale condivide le differenti competenze costituzionali e legislative con le collettività sulle quali ha autorità, delegando queste competenze ai livelli in cui possono esercitarsi meglio. I suoi tre principi-base sono l’autonomia, la partecipazione e la sussidiarietà. L’autonomia permette a ogni collettività di conservare il massimo di libertà d’azione. La partecipazione permette a ogni livello di collaborare all’assunzione delle decisioni. La sussidiarietà permette di far sempre agire la presunzione di competenza a favore del livello più vicino agli interessati.

Il termine essenziale è quello di “autonomia”. Esso significa che “ogni organo del corpo sociale deve poter perseguire il più liberamente possibile i propri fini” (Robert Nisbet). Dunque, l’autonomia non si confonde né con la decentralizzazione, né con l’indipendenza. Nel sistema della decentralizzazione, è il potere centrale a delegare un certo numero di competenze ai gradi subordinati. Al contrario, nel sistema federale la delegazione avviene a partire dal basso: i livelli inferiori rimettono a quelli superiori le decisioni che non sono di loro competenza. Quanto all’ideale d’indipendenza, contraddice ancor di più l’idea di autonomia, nella misura in cui questa presuppone il groviglio delle fedeltà, l’interpenetrazione dei livelli e l’intreccio dei rapporti di solidarietà. Esso è inoltre completamente illusorio: in un momento in cui i grandi Stati-nazione vedono il loro margine di manovra ridursi sempre di più, è difficile immaginare come degli Stati regionali potrebbero essere “indipendenti” se non nominalmente. In realtà, l’indipendenza deriva da un senso di irritazione provocato dal rifiuto dell’autonomia. Quando è professato da ambienti regionalisti, dissimula spesso un giacobinismo di dimensione ridotta. 

Oggi bisogna in effetti far circolare la sovranità al contempo verso l’alto e verso il basso. Ciò implica ridefinire il potere più elevato come quello che possiede le competenze più vaste, il che non esclude che poteri più ristretti siano sovrani negli affari che li concernono, in opposizione alla sovranità indivisibile, che rifiuta ogni delegazione e ogni divisione. Ciò implica ugualmente distinguere bene la sovranità dello Stato-nazione, che riposa sull’idea che il popolo non è altro che un bambino da mantenere sotto tutela agendo al posto suo, e la sovranità popolare, che presuppone, al contrario, che il popolo sia fondamentalmente capace di risolvere i propri problemi, di costruirsi e di scrivere la propria storia.

Ritroviamo allora la vecchia polarità tra comunità (Gemeinschaft) e società (Gesellschaft). Robert Nisbet definisce la comunità come un termine che abbraccia “tutti i tipi di relazioni caratterizzate al contempo da legami affettivi stretti, profondi e durevoli, da un impegno di natura morale e da un’adesione comune a un gruppo sociale” 65. Così definita, la comunità riassume tutto ciò che manca alle società moderne: il calore del legame sociale, le relazioni di reciprocità, il radicamento in valori condivisi, la chiara percezione delle finalità individuali e collettive. I teorici comunitaristi constatano, dal canto loro, che una delle cause dell’indebolimento della democrazia è l’erosione del senso della comunità 66. “La virtù civica e l’impegno politico – dichiara Michael Sandel – sono sempre dipesi, per alimentarsi, da un sentimento di appartenenza a una comunità o a una determinata tradizione” 67. Infatti, se le frontiere cambiano natura o livello, non spariscono. Sono indispensabili all’esercizio della vita politica, e specialmente della democrazia: non può esserci vita democratica che in uno spazio limitato dove si possa verificarne e controllarne il buon svolgimento. L’uomo, in quanto animale sociale, ha necessariamente delle solidarietà selettive. Come diceva Rousseau, l’amico del genere umano non è amico di nessuno. Non è un caso se lo Stato-nazione, strutturato ieri soltanto in classi sociali, si trasformi oggi un po’ ovunque in Stato multicomunitario 68. Di fronte alla mondializzazione, le persone si rinchiudono nelle comunità immediate (Stämme), che sono altrettante famiglie allargate. Il ritorno delle comunità è l’affermazione del primato delle entità naturali e culturali sullo Stato.

 

*

 

Fin dal 1928, Drieu La Rochelle diceva: “L’Europa si federerà, o si divorerà o sarà divorata” 69. Nel 1946, Ernst Jünger aggiungeva: “Bisogna che l’Europa divenga partner dei grandi imperi che si creano sul pianeta e tendono alla loro forma definitiva” 70. Denis de Rougemont, da parte sua, chiedeva, nel marzo 1969, il “superamento dello Stato-nazione al contempo dall’alto e dal basso, da una parte verso federazioni continentali e, dall’altra parte, verso un federalismo regionale” 71. La verità è che bisogna federare i paesi piccoli e federalizzare i grandi.

Potenzialmente, l’unione dell’Europa resta il mezzo più sicuro per fronteggiare una mondializzazione che ormai costituisce il quadro della nostra storia, e per impedire che questa non si riduca all’americanizzazione di tutto il pianeta.

Ma l’Europa è oggi in crisi radicale, proprio come la coppia franco-tedesca che doveva servirle da motore. Da una parte, viene costruita secondo un modello centralista e giacobino, in totale opposizione con il principio di sussidiarietà cui si presumeva che si ispirasse. Dall’altra parte, non riesce a varcare la soglia del solo piano economico. Messi con le spalle al muro, i dirigenti dei paesi che la compongono sono incapaci di ragionare in termini di interesse globale europeo, come ha ancora recentemente mostrato il vertice di Nizza (dicembre 2000), che li ha visti rivaleggiare nel mercanteggiamento interstatale. La loro mancanza di volontà e ambizione politiche è, insomma, manifesta. Tuttavia, se l’Europa è impotente, potrebbe, se lo volesse, essere potente, e forse lo sarà domani. Anche lo Stato-nazione è impotente, ma non può che esserlo sempre più. Questa è la differenza.

Se guardiamo ora verso il “basso”, scorgiamo un vero, massiccio ritorno delle regioni 72. Durante l’intero XIX secolo, erano sempre state considerate come altrettanti ostacoli alla modernizzazione e all’unità del paese. Non è più così. Fin dal 1967, il governo inglese ha autorizzato l’uso pubblico del gallese in Galles (Welsh Language Act). Malgrado l’opposizione di Margaret Thatcher, ha poi attuato una politica di devoluzione sfociata, nella primavera 1999, nella creazione di assemblee regionali in Galles, Scozia e Irlanda del Nord. L’Italia, che ha già accordato uno statuto speciale a cinque delle sue regioni, sta per federarsi sotto la pressione delle leghe autonomiste fondate negli anni Ottanta in Piemonte, nel Veneto e in Lombardia. La Spagna ha riconosciuto l’autonomia dei Paesi Ba