Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Federalismo domani. A colloquio con Alain de Benoist

Federalismo domani. A colloquio con Alain de Benoist

di Alain de Benoist/Massimiliano Carminati - 07/12/2007

 

 

 

 

Il pensiero federalista avrà un futuro nella misura in cui si confronterà con la realtà, ovvero se riuscirà, adeguando funzionalità e capacità aggregativa, a proporsi mutatis mutandis come risposta alle sfide di carattere politico, economico e sociale di un mondo sempre più complesso e caotico perché globalizzato, o meglio occidentalizzato. Del federalismo visto in questa prospettiva abbiamo parlato con il filosofo francese Alain de Benoist, animatore principale da più di un quarto di secolo della scuola di pensiero (impropriamente) appellata Nouvelle Droite, fondatore del G.R.E.C.E. (Groupement de Recherches et d’Etudes pour la Civilisation Europeenne), direttore delle riviste Nouvelle Ecole e Krisis, autore di numerosissimi saggi tra cui Visto da destra (ed. it.: Akropolis, 1981), premiato nel 1978 con il Prix de l’Essai dall’Académie Française, Le idee a posto (Akropolis, 1983), Come si può essere pagani? (Basaia Editore 1984), Il male americano (in collaborazione con Giorgio Locchi; L.E.d.E. 1979), Nietzsche, morale e grande politica (Il Labirinto, 1978), L’eclisse del sacro (con Thomas Molnar; Settecolori 1992).     

 

D.: Dott. de Benoist, la scienza politica ha dimostrato come la separazione funzionale dei poteri e la divisione del territorio con la conseguente ripartizione collaborativa del potere fra ente-stato e altre entità locali, più o meno dotate di autonomia politica, appartenga alla tradizione politica del liberalismo. È corretto dunque affermare che il modello federale si configura oggi come espressione del costituzionalismo di derivazione liberale – anche se, è doveroso evidenziarlo, le radici di questo fenomeno si rintracciano molto indietro nel tempo, addirittura nell’antica Grecia. Il presente e soprattutto il futuro del federalismo sono necessariamente correlati a questa particolare forma di ordinamento statale?

R.: Non credo affatto che vi sia necessariamente un legame tra federalismo e liberalismo. Ritengo, piuttosto, che sia vero il contrario. Altrimenti avrei seri problemi a definire me stesso nel contempo un difensore dell’uno e un avversario dell’altro! Il liberalismo, tanto per cominciare, è un’ideologia, un sistema dottrinale, mentre il federalismo è una forma d’organizzazione politica e di ripartizione dei poteri decisionali. Le ideologie implicano raramente un’unica forma politica. Persino il marxismo, così com’era stato teorizzato da Marx, non approdò automaticamente al comunismo concepito da Lenin! Il modello federale s’oppone fondamentalmente al modello classico dello Stato-Nazione, accentratore ed omologante. Ora, come l’esperienza storica ha ampiamente dimostrato, questo modello di Stato-Nazione può essere messo al servizio di ideologie politiche molto differenti (il che spiega come esso sia stato adottato tanto durante l’Ancien Regime quanto nel periodo della Rivoluzione francese), cosa che non si è verificata nel caso del federalismo.

Il liberalismo è inoltre un sistema ideologico il cui assunto di base consiste in una visione riduzionista, analitica e nominalista della realtà sociale. Nell’ambito dell’ideologia liberale nulla ha valore intrinseco al di fuori del singolo essere, ovvero dell’individuo. Quest’ultimo è ritenuto custode di diritti inalienabili derivanti dallo “stato di natura” il che spiega che esso non è affatto un essere fondamentalmente sociale. La società non è fatta che di atomi individuali i quali sono spinti ad unirsi dalla convinzione che in ciò risieda razionalmente il proprio miglior interesse (assicurare la propria libertà per Hobbes, difendere la proprietà per Locke). Tale impostazione è di tipo fondamentalmente economicista ed è la ragione per cui il liberalismo ha sempre considerato l’economia, che a suo giudizio dipende esclusivamente dalla sfera del privato, come il luogo della massima libertà. Questi aspetti spiegano come sia stato possibile considerare il liberalismo una dottrina essenzialmente economica, non politica. In una prospettiva più specificatamente politica l’individuo isolato non è altro che una chimera: l’uomo è fondamentalmente un essere sociale e politico e non è detto che questo essere sia mosso necessariamente dalla ricerca “razionale” del proprio miglior interesse. Come tale non è né nella sfera del privato né in quella economica, definita da Aristotele come il regno della necessità, che egli può conquistare e conservare la propria libertà, quanto piuttosto nella vita pubblica, esercitando la propria attitudine di cittadino.

A questo punto è lecito stabilire un confronto tra Hobbes e Althusius. Il primo fonda la sua dottrina su tutti i presupposti dell’ideologia liberale di cui si è detto. Ora, il sistema politico al quale egli approda, lungi dall’essere un sistema federale, è al contrario un sistema centralista ed onnipotente, un sistema di potere assoluto, il Leviatano. Althusius, invece, resta fedele alla definizione aristotelica del politico: l’uomo è un animale sociale che non può esistere indipendentemente da una data comunità. Althusius definisce poi le diverse forme d’appartenenza sociale e politica e si pronuncia a favore di un sistema di “consociazione” organica che anticipa chiaramente il moderno federalismo. Se Hobbes può giungere al Leviatano partendo da premesse liberali, così Althusius può aspirare ad un sistema federale partendo da premesse “olistiche”, è la prova che tra liberalismo e federalismo non esiste né un rapporto privilegiato né una relazione di causa ed effetto.

Ciò che può aver dato l’impressione che tra federalismo e liberalismo intercorra un necessario legame è probabilmente l’esempio americano. Gli Stati Uniti costituiscono in teoria uno sistema federale e, d’altra parte, aderiscono da sempre ai valori fondanti del liberalismo. Ma in realtà essi rappresentano solo un sistema federale tra gli altri. I teorici della socialdemocrazia austriaca, Karl Renner e Otto Bauer, per non citarne altri, erano egualmente sostenitori del federalismo e discepoli di una dottrina politica posta agli antipodi del liberalismo. A voler ben guardare, si riscontra una critica allo statalismo tanto nel federalismo quanto nel liberalismo, ma questa critica non ha certo lo stesso significato a seconda che sia condotta in nome dell’individuo oppure dei corpi intermedi e delle collettività organiche. Aggiungerei, infine, che dopo l’epoca del New Deal gli Stati Uniti sono sempre meno un autentico Stato federale e sempre più uno Stato unitario, nel quale le decisioni di Washington prevalgono di norma sui “diritti degli Stati”.

 

D.: Il modello federale implica un ordinamento statale unitario. In quest’epoca caratterizzata da forti processi di globalizzazione economica, culturale e politica che favoriscono e promuovono la formazione di enti sovranazionali come, ad esempio, l’attuale Unione Europea, mentre di contro numerosi popoli reclamano ampi margini di autonomia, parlare di federalismo ha ancora senso?

R.: Non soltanto ha ancora un senso parlare oggi di federalismo, ma a mio avviso l’attuale fenomeno della globalizzazione, rende più attuale che mai un discorso di questo tipo. La globalizzazione, tra le altre caratteristiche, va di pari passo con l’entrata in crisi del modello dello Stato-Nazione. Quest’ultimo è stato la forma politica più diffusa nella modernità, epoca che sta per giungere al termine. Lo Stato-Nazione aveva una vocazione intrinsecamente unitaria: esso mirava a far coincidere su un dato territorio un popolo, una nazione e uno Stato (quindi anche una cultura e una lingua). Questo modello ha funzionato, più o meno bene, fintanto che la nozione di frontiera aveva un contenuto sostanziale. Fino alla metà del XX secolo, vivere all’interno di una frontiera garantiva di potersi fregiare di un’identità politica, culturale, linguistica oltre che spirituale, precisa. Oggi le frontiere perdono progressivamente il loro significato, semplicemente perché non frenano più nulla: né gli uomini, né le merci, né i flussi finanziari, né i programmi culturali, né le reti d’informazioni, etc.

Lo Stato-Nazione si caratterizzava allora per il monopolio della sovranità. Essa, secondo la dottrina di Jean Bodin, era percepita come indivisibile ed inalienabile. Oggi questa sovranità perde anch’essa gran parte del suo contenuto. I governi sono sempre più incapaci di far fronte ai fenomeni d’ascendenza planetaria che si manifestano in tutti i campi. Parallelamente i partiti politici di tipo classico tendono a perdere credibilità in conseguenza dell’inettitudine che dimostrano nel momento in cui prendono il potere. Impossibilitati a modificare il corso delle cose, provocano defezioni ovunque. Da ciò deriva il fenomeno fin troppo noto della crisi della rappresentanza che determina l’aumento dell’astensionismo, la volubilità crescente dei suffragi, il successo dei movimenti puramente contestatari etc. Per riprendere una formula spesso citata, lo Stato-Nazione è diventato troppo piccolo per affrontare i problemi globali, pur restando troppo grande per rispondere all’attesa quotidiana dei cittadini.

L’impotenza crescente degli Stati-Nazione viene giustificata dal fatto che si cerca di ricreare un grado d’autorità ad un livello più vasto – vale a dire, per ciò che ci riguarda, a livello dell’Unione europea – e dal fatto che, nel contempo, si lavora per la realizzazione di un nuovo equilibrio tra le potenze, di un nuovo mondo multipolare, in opposizione all’attuale “momento unipolare” nel quale una sola potenza, quella degli Stati Uniti d’America, cerca di eternare la propria egemonia mondiale. Ma a voler ben vedere, tutta la questione consiste nel sapere secondo quale modello l’Europa deve costituirsi. Al momento, l’Europa sembra aver adottato un modello burocratico e centralizzato, che altro non è se non una sorta di giacobinismo allargato. Un modello simile è destinato al fallimento – dal momento che privilegia il dominio economico e commerciale ai danni di quello propriamente politico. La prospettiva alla quale aderisco è quello di un’Europa che si proponga come un modello politico di Civiltà, capace di definire degli orientamenti politici e strategici comuni, ma sulla base della diversità e dell’autonomia delle collettività locali. Vi deve essere unità al vertice, ma la più grande diversità possibile alla base.

Per quanto concerne la sovranità, essa deve essere ridefinita come una funzione suscettibile ad essere ripartita. La sovranità maggiore non è quella che accentra tutti i poteri, ma semplicemente quella il cui campo d’azione è più ampio.

 

D.: In questi ultimi anni si sono formulate nuove e interessanti teorie di aggregazione politico-sociale ed economica, come il comunitarismo ed il bioregionalismo. Il federalismo ha la possibilità di conciliarsi con queste teorie? Se sì, in quale modo?

R.: Il bioregionalismo e il pensiero comunitarista sono perfettamente compatibili con il federalismo nella misura in cui l’uno e l’altro sottolineano l’importanza delle comunità locali e la necessità di permettere il più possibile ai cittadini di decidere per se stessi in merito a ciò che li riguarda. Si ricorderà che queste due correnti di pensiero sono, al contrario, incompatibili con il liberalismo dottrinale, nella misura in cui essi ne rifiutano i postulati individualisti. Il bioregionalismo s’inscrive nell’ambito degli atteggiamenti ecologisti che contestano, a buon diritto, l’approccio puramente tecnocratico e strumentale al mondo. Esso ribadisce l’appartenenza dell’uomo alla natura e la necessità di rispettare un ambiente che non dovrebbe essere guardato semplicemente come un oggetto sottoposto al dominio umano.

Quanto al pensiero comunitarista, esso ha fatto la sua comparsa, negli Stati Uniti, come reazione critica alle tesi liberali le quali, non volendo riconoscere altro che un individuo “sradicato”, privato di ogni dimensione di appartenenza, trascurano l’importanza del radicamento e dei valori condivisi. Il punto comune del federalismo, del bioregionalismo e del pensiero comunitarista si cristallizza attorno al concetto di autonomia. Esso può essere compreso in rapporto al principio di competenza sufficiente, meglio noto come principio di sussidiarietà .

L’autonomia, bisogna sottolinearlo, è qualcosa di completamente diverso dall’indipendenza. L’autonomia non è indipendenza “incompiuta” più di quanto l’indipendenza sia il punto d’approdo del cammino verso l’autonomia. L’indipendenza suppone la capacità, di un individuo o di una collettività, di un “io” o di un “noi” di vivere in maniera completamente autosufficiente, senza pretendere nulla dagli altri. In ciò risiede l’ideale liberale dell’individuo “sradicato”. L’autonomia, al contrario, organizza il rapporto con gli altri in una maniera più flessibile, più elastica. Si potrebbe dire che essa non richiama l’indipendenza, ma piuttosto l’interdipendenza.

 

D.: Oggi, in Italia, numerose forze partitiche si proclamano più o meno federaliste e assicurano che il federalismo è uno dei temi principali dell’agenda politica, ma, in realtà, si assiste solamente al varo di blande forme di decentramento amministrativo. Questo atteggiamento è dovuto al fatto che il costituzionalismo italiano è stato influenzato dalla concezione della struttura statale cosiddetta “alla francese”, nel qual caso qualsiasi riforma in senso federale è condizionata dalle resistenze di una cultura politica centralista di stampo giacobino, oppure esistono altre motivazioni?

R.: Non spetta certo a me dire quali sono le motivazioni riposte di questo o quell’altro protagonista della vita politica italiana. È nondimeno possibile che il modello “francese” dello Stato-Nazione continui a soffocare, in Italia, certe tendenze. Ma ciò che ritengo sia necessario sottolineare è la differenza profonda che intercorre tra un federalismo reale ed il semplice decentramento. Nel momento in cui uno Stato si priva di un certo numero di prerogative in favore degli enti regionali fa certamente opera meritoria (il decentramento è di sicuro meglio dello Stato ipercentralista), ma non si pone certo in una logica federale. Il decentramento giunge comunque dall’altro: è lo Stato che decide di per se stesso di conservare o meno l’una o l’altra delle sue prerogative, va da sé che se volesse potrebbe non privarsene, dal momento che esso è per principio omnicompetente. Nel sistema federale è esattamente il contrario: non si parte dall’alto, ma dal basso. Sono gli enti regionali e le comunità locali che “delegano” verso l’alto quelle decisioni che non possono prendere autonomamente. In altri termini, nel sistema federale, la base decide di per se stessa finché  può farlo. Lo Stato federale si pronuncia solamente in merito a quelle decisioni che non posso  essere prese ai livelli inferiori, alle quali si aggiungono chiaramente quelle che non hanno affatto un carattere locale, ma riguardano il bene comune o i comuni interessi dell’insieme delle collettività. La questione che si pone oggi, in definitiva, consiste dunque nel sapere da dove giunge l’iniziativa: dalla “domanda” della base o dall’ “offerta” del potere centrale. Il decentramento è certamente meglio del centralismo, ma entrambi derivano dallo stesso principio, secondo il quale è lo Stato che decide (di accentrare o di decentralizzare). Il federalismo è tutt’altra cosa: è l’applicazione generalizzata a tutti i livelli, partendo dai più bassi, del principio di autonomia e di sussidiarietà.

Traduzione dal francese di Paolo Mathlouthi