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Vite di scarto*

di Giuseppe Serra - 03/01/2006

Fonte: Arianna Editrice

 

*Zygmunt Bauman, Vite di scarto, Laterza, Roma – Bari 2005, pagg. 172, euro 15

Presentare un autore come Zygmunt Bauman a chi presta una particolare attenzione alle voci che rifiutano l'inclusione forzata nei cori che lodano le meraviglie della modernità, è superfluo. Sono diversi anni, ormai, che questo sociologo dedica le sue energie all'analisi di un mondo in cui gli imperativi economici di stampo neoliberale, tutti improntati alla progressiva conquista della felicità, stanno modificando radicalmente gli stili di vita degli esseri umani. Bauman si propone di illuminare, con i suoi saggi, un quadro in cui esistono zone grigie, zone che devono essere osservate in profondità, in ogni loro sfumatura. E' un compito non facile, anche perché l'esame critico di una delle combinazioni infallibili delle attuali società industriali, vale a dire la stretta dipendenza tra l'alto livello di benessere e l'aumento dei consumi, diventa in questo caso obbligatorio. Sono molti ormai gli studiosi che affermano che gli individui si avviano ritrovare la propria identità non nelle collettività di appartenenza ma negli stili di consumo che vengono prontamente colti dalle aziende e messi in luce dalle pubblicità. Tutta la nostra vita sociale sembra si stia strutturando attorno a segni simbolici che rimandano al consumo. E gli effetti non sono di poco conto, anche perché vanno a intaccare gli orizzonti culturali dell'uomo che si viene a trovare in una posizione nuova all'interno della natura, vista ormai come uno spazio inanimato in cui esercitare un consumo inteso sempre di più come un semplice atto individuale. Le ripercussioni di un tale comportamento sono di natura sociale e politica e sono state oggetto degli ultimi saggi di Bauman: Modernità liquida , Amore liquido , solo per citare i più recenti. Ora, con Vite di scarto, edito da Laterza , lo studioso prende in considerazione ciò che il consumismo produce in abbondanza, assieme al benessere, cioè i rifiuti. Lo studioso polacco utilizza il Calvino delle Città invisibili per rendere l'idea di ciò che sta accadendo: come gli abitanti di Aglagura viviamo in centri urbani nuovi, puliti, sfavillanti e pieni di tecnologia ma fuori dalle nostre città crescono le montagne di rifiuti.

Il rifiuto è la presenza – assenza dei nostri tempi. Ne produciamo una quantità sterminata, ma preferiamo non pensarci e rimuovere il pensiero. «I rifiuti sono il segreto oscuro e vergognoso di ogni produzione» ma, scrive Bauman «sarebbe preferibile che restasse un segreto».

Il rifiuto è dunque connaturato al nostro modo di vivere. Viviamo, consumiamo e produciamo rifiuti da oltre un secolo. Siamo stati addestrati per questo scopo e ora, afferma lo studioso polacco, l'idea del rifiuto si è ormai spostata dagli oggetti all'uomo, un particolare tipo di uomo che è divenuto un rifiuto, un vinto dell'era tecnologica.

La prima categoria di scorie umane è tutta occidentale: sono i giovani nati negli anni Settanta, la Generazione X, la chiama Bauman, quella che viene espulsa da un mercato che è ormai concentrato sulla riduzione dei posti di lavoro piuttosto che sul loro incremento. Sono gli esuberi, i rappresentanti di quelle professionalità che, nella società dei consumatori, vengono corrose e gettate via perché obsolete e antieconomiche; e se un tempo esistevano vie per il riciclaggio nelle zone disabitate del pianeta, non ancora toccate dalla modernizzazione, ora non è più possibile. Scrive Bauman: «gli scarichi principali per lo smaltimento dei rifiuti umani, cioè i territori “disabitati” o “di nessuno” (più esattamente, i territori che, grazie al differenziale di potere globale, si potevano vedere e trattare come disabitati e/o senza padrone) sono spariti». Non esiste più un sito per il riciclaggio dove poter sperare in una rinascita che potrebbe ridare valore alle professionalità ormai in esubero del nord industrializzato. Le soluzioni adottate per il riciclaggio, poi, seppur raffinate, danno luogo a conseguenze inaspettate: ad esempio la flessibilità, con la sua pratica di spostare all'improvviso i lavoratori dipendenti da un tipo di incarico a un altro, cancella i percorsi tipici delle carriere e genera ansietà, caduta dell'autostima e depressione.

In condizioni radicalmente diverse, l'esubero degli esseri umani esiste anche nelle zone del sud del mondo. Per gli «esseri umani in esubero» sfornati in quelle regioni del pianeta che solo di recente sono saltate a bordo del gran carro della modernità, gli sbocchi delle terre disabitate non sono mai esistiti: la modernizzazione ha saturato anche gli angoli più remoti del pianeta privandoli di quello status che li identificava come territori adatti per il recupero dei rifiuti umani». L'occidente, che cerca di imporre soluzioni locali, dà la colpa alla sovrappopolazione, ma il sociologo non manca di portare avanti una tesi originale quanto provocatoria: l'eccesso di rifiuti umani nelle aree depresse del pianeta non è legata al numero degli abitanti. Scrive Bauman: «Mentre in Africa abbiamo una densità di 55 abitanti Per chilometro quadrato in Europa, comprese le steppe e i permafrost della Russia vivono in media 261 abitanti. Esiste una bassa densità abitativa rispetto a quella europea ma impossibilità per quei popoli di ripercorrere la rotta verso le terre del nord ormai sbarrate».

Non vengono neppure accettate le possibili soluzioni del problema. «Esportare tecnologia per rendere più evidente il contrasto tra benessere materiale e numero di persone con cui spartirlo? Si può fare, ma al giusto prezzo». Insomma, pare di capire che l'ostacolo più forte in questo senso sia il nostro egoismo. Così gli esuberi diventano prima fuggitivi e poi, privati del sostegno di un'autorità statuale che possa far valere i loro diritti, divengono rifiuti umani, senza nessuna funzione utile da svolgere nella terra del loro arrivo, destinati alla discariche dei ghetti e dei campi profughi. La probabilità dei rifugiati di essere riciclati in membri legittimi e riconosciuti della società sono infinitamente remote. Il welfare per questi rifiuti non esiste.

Insomma l'idea del rifiuto umano è una prerogativa tutta occidentale e la ricerca di una della sue cause profonde porta Bauman alla compilazione di un capitolo stranamente trascurato in sede di recensione (il libro è stato proposto dal Manifesto e da Repubblica) e dedicato al declino dell'idea di eternità. Il problema non viene affrontato da un punto di vista filosofico , ma sociologico, La perdita della consapevolezza di questa costruzione astratta ha favorito l'affermarsi dell'idea del «nulla è destinato a durare…gli oggetti utili e indispensabili oggi sono i rifiuti di domani».

L'uomo che concepiva la sua esistenza all'interno dell'idea salvifica dell'eternità viveva e sopportava fatiche e dolori, esse erano inserite in un ampio disegno che aveva delle mete lontane ma raggiungibili. All'interno di questa prospettiva ogni cosa aveva un senso e una collocazione, mentre non poteva averne il concetto di rifiuto umano.

L'idea stessa del rifiuto presuppone una visione dell'esistenza radicalmente diversa rispetto a quella dominata dall'eternità. Il rifiuto che si accumula è lo specchio di un uomo che vive per soddisfare i suoi bisogni contingenti, immediati: per avere tutto e subito perché l'eternità è lontana, impalpabile, astratta. E'un'idea, sottolinea il sociologo, che non appartiene più a una civiltà che ha ritagliato per l'uomo moderno uno spazio privilegiato nel migliore dei mondi possibili.

La carica demistificante delle tesi di Bauman è sempre salutare per chi voglia vedere il rovescio della medaglia. Però è difficile accettare una lettura della realtà che non offra anche delle possibili vie d'uscita. Questo è tipico dell'attività di studioso di Bauman che legge e analizza ma lascia alla nostra sensibilità le soluzioni da adottare per la correzione del problema. Rimangono così senza risposta gli interrogativi circa il problema della sovrappopolazione: il fatto che la densità abitanti europea sia più alta rispetto a quella africana non elimina la preoccupazione circa il suo impatto sugli equilibri ecologici, in Europa come in Africa. Ancora: il fatto poi di aver trascurato l'esistenza di una filosofia ambientale denota in Bauman l'idea che tutte le soluzioni siano legate ai progetti dello sviluppo sostenibile: siano cioè degli strumenti atti a correggere gli effetti e non ad intervenire sulle cause. Naturalmente così non è, dato che da circa trent'anni esistono correnti ecologiste che criticano sistematicamente le idee che sottendono allo stile di vita dell'uomo moderno.

La strenua difesa del welfare, poi, a cui abbiamo brevemente accennato più sopra, lascia aperto il vero problema legato all'accoglienza: basteranno le tutele sociali per rendere felici gli immigrati ?

Oppure bisognerà affrontare la questione del loro sradicamento che genera atteggiamenti ribellistici anche di fronte a una prospettiva di inserimento all'interno di una struttura socialmente protetta? Naturalmente è imbarazzante muovere queste critiche a chi costituisce, come Zygmunt Bauman, una voce fuori dal coro. Per questo continueremo ad apprezzare la sua opera.

 

Cfr. al riguardo Sergio Sotgiu (a cura di) Uomini dell'eternità, Cantagalli, Siena 2001