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Il 2006 degli Usa in Iraq: si vorrà dare l'impressione di fare un passo indietro

di Matteo Colombi - 06/01/2006

Fonte: peacereporter.net

L’anno che viene ci trova con ambizioni ridotte ma i piedi fissi in una palude sempre più soffocante. George Bush ha appena annunciato che non chiederà il rinnovo dei fondi per la ricostruzione dell’Iraq. Quasi il 50 per cento dei fondi già stanziati è finita a finanziare la security; altri fondi sono stati stornati per processare Saddam, e per finanziare le elezioni a ripetizione con cui gli Usa stanno cercando di trovarsi un partner governativo abbastanza solido da permettere l’impronta leggera e la mano nascosta. L’infrastruttura del Paese dopo tre anni di presenza americana, secondo stime statunitensi, rimane ancora al di sotto delle prestazioni ottenute sotto Saddam prima dell’invasione, per quanto riguarda l’approvigionamento di elettricità, la produzione di petrolio, e altre infrastrutture di uso civile. Particolarmente dolente la questione del petrolio, che s’intendeva usare per finanziare sia l’occupazione che il nuovo stato iracheno. Qui il sabotaggio ha più che dimezzato la produzione nazionale, che già era ridotta dopo un decennio di sanzioni Onu e due guerre (Iran-Iraq, Guerra del Golfo).
 
Gli Usa, che avevano promesso democrazia e ricostruzione a livelli superiori a quelli pre-invasione (già pessimi), oggi fanno un passo indietro. Le elezioni del Congresso del prossimo novembre non sono poi così lontane; si passa dunque a una nuova fase della guerra irachena, in cui l’America riduce le ambizioni, nega le promesse, e punta a una riduzione di qualche decina di migliaia di soldati entro settembre. Meno soldi, meno truppe. Se possiamo mostrare di aver invertito la marcia, pensano i Repubblicani, possiamo tenerci i seggi. Del resto i Democratici non hanno chiesto un ritiro netto, danno solo voce allo scontento, ma non sono disposti a dire ‘ora tutti a casa’.
 
Questa è una guerra persa nel senso che gli obiettivi iniziali non sono stati centrati, e si opera per limitarne i danni. Tuttavia non è ancora una guerra finita. Anzi, se la strategia della Casa Bianca dovesse funzionare, la palude si estenderà ulteriormente. Dinanzi all’ovvio fallimento della strategia del 2003, che era una variante all’interno di una pratica imperiale più ampia, molte cancellerie e molti benpensanti occidentali si sono messi a lavorare duro per eliminare tutte le altre opzioni politiche sul tavolo affinché, anche nel fallimento, si rimanga legati ai destini imperiali e l’iniziativa rimanga in mano a Washington. Oggi si lotta per difendere l’impero che già c’è.
 
In Italia, il centro-sinistra in odore di governo rispolvera mozioni uniche in cui ‘staremo in Iraq sino a quando il governo iracheno non ci chiede di andarcene’. Continua cioè il tentativo di presentare questa fase come slegata dalla attiva partecipazione italiana nell’azione bellica, nonché nella guerra d’intelligence che fu operata contro il pubblico americano ed europeo. Negli Usa si annunciano riduzioni di forze, e si rifiuta platealmente di continuare ad assistere la ricostruzione irachena. “Se la sbrighino loro, adesso che sono liberi”. Ma questo sano seppur egoistico sentimento della popolazione americana non verrà corrisposto in pieno. Se gli Usa scendono da 130mila a 100mila unità in Iraq, o anche a 30mila, l’America rimane legata al Medio Oriente da molteplici legami diretti.
 
L’intero problema, dal punto di vista di Washington è 1) Come continuare a controllare il mare del Golfo Persico; 2) Come negare rotte terrestri degli oleodotti e gasdotti che non sono sotto le veci di uno stato subalterno; 3) Come continuare la relazione con l’Arabia Saudita, il grande forziere energetico con cui gli Usa hanno un rapporto privilegiato sin dagli anni Venti. Si possono capire certe subalternità italiane, vista la nostra dipendenza energetica; ma rimaniamo legati ad una posizione imperiale destinata a smottare in più punti, e che spargerà altro sangue ancora.
 
Io non so come i neocon volessero incardinare un nuovo Iraq. Però so che gli Usa hanno ridotto le ambizioni per l’Iraq, ma che non hanno di certo abbandonato il Santo Graal di un egemonia del petrolio mediorientale. L’anno che viene promette solo un prolungato impantanamento, e le ingognite di un Iraq spezzato, instabile ma anche più autonomo, in cui il ruolo iraniano crea ansie non irrilevanti.