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Da Hitler a Bush, ovvero come si passa dal Terzo al Quarto Reich

di Francesco Lamendola - 01/02/2008

Scrive il giornalista e saggista Marco Dolcetta nel suo libro-inchiesta Gli spettri del Quarto Reich. Le trame occulte del nazismo dal 1945 a oggi (Milano, Rizzoli, 2007, pp. 8-11):

 

"Si fa un gran parlare di 'imperialismo' a proposito della politica del prsidente americano George W. Bush, e c'è fra i suoi detrattori che ha paragonato l'aggressività delle sue decisioni sullo scacchiere internazionale a quella del Terzo Reich. Studiosi come Noam Chomsky e Naomi Wolf tracciano esplicitamente paralleli tra l'America di Bush e i fascismi europei:  non solo per la politica estera ma per le misure speciali di sicurezza, la censura, l'uso della propaganda. Ebbene, è interessare considerare che un'icona del think tank di George W. Bush è il filosofo Leo Strauss. Ed è proprio questo pensatore a gettare un ponte fra il Terzo e il Quarto Reich.

Leo Strauss, professore di filosofia politica all'università di Chicago dal 1953 al 1973,è stato infatti il maestro di una generazione di ideologi e di politici che oggi  rivestono ruoli di rilievo nel governo americano e nel centro neo-conservatore. Sono straussiani Paul Wolfowitz, ex presidente della Banca mondiale,  e l'ex direttore della CIA James Woolsey ,oggi membro della Defense Policy Board; nel campo dei media John Podhoretz, redattore del New York Posted ex editore del Weekly Standard, Irving Kristol editore di lunga data del Public Interest, òl'organo dei neo-conservatori, e collaboratore dell'American Enterprise Institute. Nel campo della giustizia ci sono il giudice della Corte Suprema Clarence Thomas e il ministro della Giustizia John Ascroft. Tra i 'pensatori' e gli strateghi Samuel Huntinghton, Francis Fukuyama e Allan Bloom, morto recentemente. Rimasti nell'ombra durante la presidenza Clinton, gli straussiani in quel periodo non sono però rimasti inattivi. Oltrea elaborare dottrine militari, tra cui quelle attualmente applicate,  hanno elaborato un recente documento sul Medio Oriente (Clean  Break), in cui si prevede la fine degli accordi di Oslo. Il 3 giugno 1997 William Krostol e Robert Kagan, due 'intellettuali nella tradizione di Strauss', hanno lanciato a Washington, in collaborazione con l'American Enterprise Institute, il Project for the New American Century, che si propone di rilanciare il ruolo di gendarme del mondo degli USA, a cominciare dall'Iraq. L'atto fondativo invita a una nuova politica estera basata sull'«egemonia globale benevola» degli Stati Uniti. Tra i firmatari: Elliot Abrams, William Bennet, Jeb Bush (fratello del presidente), Dick Cheney, Francis Fukuyama, Lewis Libby, Norman Podhortetz, Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz. Questa dottrina imperialistica  poggia su tre pilastri: il fondamentalismo religioso - ed è noto a tutti il misticismo che traspare dai discorsi del presidente Bush, a partire dall'idea della 'crociata del bene contro il male' - e la forte impronta imperialista con l'apologia  senza veli della 'legge del più forte'. Con sfumature diverse, questi erano gli stessi elementi che fondavano l'ideologia nazista. E si dà il caso che il legame tra l'America di Bus e la Germania di Hitler sia proprio Leo Strauss, già allievo e collaboratore del filosofo Carl Schmitt il quale, ammetterà lo stesso Strauss, fu tra cloro che spianarono la strasda al nazismo: «Un gruppo di professori e di scrittori hanno aperto la via, a loro insaputa o no, a Hitler: Spengler, Möller van der Bruck, Carl Schmitt, Ernest Jünger, Martin Heidegger». Leo Strauss, ebreo, era riuscito a fuggire dalla persecuzione nazista rifugiandosi negli USA anche grazie ai buoni auspici del suo maestro. Nel 1933 in una lettera a Gershom Scholem, importante studioso di cabala ebraica, affermava di dover ringraziare Schmitt per la borsa di studio ottenuta dalla fondazione Rockefeller, che gli aveva permesso di emigrare con il pretesto di studiare Hobbes in Inghilterra. La corrispondenza tra Strauss e Schmitt tra il 1932 e il 1933  portò quest'ultimo a rivedere in maniera significativa il suo lavoro la concezione della politica. All momento in cui la fuga del giovane filosofo ebreo interruppe la loro collaborazione, Strauss e Schmitt lavoravano assieme all'università su quella teoria dello Stato totalitario che negli anni Trenta era maggioritaria.

"Giurista tra i più considerati dal governo nazista, Carl Schmitt, influente professore che era già stato consigliere giuridico del governo von Papen , pose le basi per lo snaturamento della Costituzione della Repubblica di Weimar e il successivo  smantellamento del sistema costituzionale fondato  sulle idee del liberalismo politico e dei diritti individuali. Considerando questo sistema impotente, corrotto e inadeguato per prendere le misure necessarie nel momento in cui la Germania affondava economicamente, propose di sostituirgli un regime eccezionale cvhe snellisse la procedura dei sistemi legislativo  ed esecutivo - governando, sostanzialmente,  per decreto - e di stabilire una temporanea dittatura presidenziale.  Schmitt ammirava molto Mussolini, con cui aveva discusso di diritto romano, e riteneva che il dittatore italiano avesse costituito un sistema perfetto fondato  su uno Stato autoritario, oltre che sulla Chiesa, su un'economia di libera impresa e su un mito fondativo forte capace di stimolare e affascinare il popolo.   Fu infine Schmitt a fornire il quadro giuridico per l'introduzione  delle misure di emergenza che i nazisti  inaugurarono all'indomani dell'incendio del Reichstag, il 27 febbraio 1933. E quando Hitler invase la Polonia, l'autorevole giurista giustificò la legalità della guerra preventiva  con le esigenze della sicurezza nazionale tedesca a cui serviva un Grossraum, una sfera d'influenza capace di proteggere il Reich dalle orde bolsceviche che premevano sui confini orientali.

"Nell'appendice numero quattro [del libro di Dolcetta] è riportata la versione integrale del testo di Schmitt L'unità del mondo. Mi è stato regalato personalmente da William Gueydan de Roussel, un profugo svizzero che era stato professore di filosofia del diritto  alla Sorbona nella Francia occupata. Gueydan de Roussel, che ho conosciuto quando aveva novantasette anni  e che è morto ultracentenario in una pensione per ricchi anziani di proprietà del vescovo di Lione, intrattenne fino alla morte  di Schmitt una corrispondenza regolare con il filosofo e giurista tedesco che aveva conosciuto nel 1933, mentre preparava la tesi di dottorato a Berlino.  Il dono di questo testo, solo in parte edito, era il suo per onorare  la memoria di quello che considerava nonostante le compromissioni  con il nazismo uno dei più grandi pensatori del Novecento. E che oggi, attraverso 'anello della catena  del pensiero costituto da Leo Strauss, indirizza la politica estera dell'unica superpotenza del nostro pianeta."

 

Dunque, Schmitt fornì la base filosofica alla tesi hitleriana dell'aggressione contro la Polonia in chiave di guerra preventiva. Ma come si poteva sostenere che la Polonia costituisse un pericolo, e sia pure potenziale, alle frontiere orientali del Reich germanico?

È vero che il governo polacco aveva sdegnosamente respinto gli approcci tedeschi - piuttosto brutali, in verità - per addivenire a una cessione pacifica del "corridoio polacco" e alla annessione di Danzica alla Germania, lusingandosi che "in caso di guerra, entro quindici giorni dall'inizio delle operazioni, la cavalleria polacca avrebbe incominciato a ronzare attorno a Berlino". I Polacchi si sentivano molto forti; tanto forti che, qualche anno prima, avevano avviato sondaggi presso il  governo francese per ottenere una cessione del Madagascar, dato che la Polonia si riteneva una "grande potenza" e le grandi potenze, si sa, possiedono degli imperi coloniali (cosa non del tutto vera; basti pensare al caso dell'Austria-Ungheria, che non aveva mai posseduto, né tentato di acquisire, possedimenti oltremare; oppure alla Russia zarista,  che i suoi possedimenti li incorporava direttamente al proprio smisurato territorio).

Logico, dunque - dal suo punto di vista - che il governo di Varsavia troncasse bruscamente ogni discussione riguardo il "corridoio" e la città di Danzica; tanto più che si sentiva spalleggiato, se non proprio incoraggiato, dai governi francese e britannico, decisi a non ripetere l'errore della capitolazione di Monaco del settembre 1938. La Lituania, è vero, aveva ceduto Memel a Hitler, perdendo così l'unico porto di qualche importanza sul Baltico (e, anche in questo caso, si trattava di un'antica città tedesca, benché - come per Danzica - il retroterra fosse abitato da non-tedeschi). Ma la Polonia non era una piccola potenza, come la Lituania; così, almeno, ragionavano i dirigenti di Varsavia, nell'agosto del 1939.

Altra cosa è se i dirigenti politici e militari del Terzo Reich condividessero tale apprezzamento della capacità bellica dell'esercito polacco e, pertanto, se ritenessero veramente che la Polonia (con o senza la cessione del "corridoio" e di Danzica) potesse rappresentare una minaccia per le province tedesche orientali, e sia pure in un ipotetico futuro. Ora noi sappiamo con certezza, dai documenti ufficiali venuti in luce dopo la seconda guerra mondiale, che i dirigenti nazisti non nutrivano affatto timori di questo genere (anche se avevano un evidente interesse a farlo credere, sia all'opinione pubblica interna che a quella internazionale); e che non credevano, inoltre, che la Francia e la Gran Bretagna si sarebbero avventurate in una guerra con la Germania "soltanto" per tener fede all'alleanza con la Polonia.

Quest'ultimo convincimento era maturato in loro, e specialmente in Hitler, principalmente dopo la crisi dei Sudeti dell'anno precedente e la conferenza "a quattro" di Monaco. Essi erano convinti, pertanto, che Parigi e Londra avrebbero fatto la voce grossa, ma che - alla fine - si sarebbero rassegnate al fatto compiuto, specialmente se la campagna contro la Polonia si fosse risolta in tempi molto rapidi, come era preventivato dai piani dell'Alto Comando. E in ciò pesava, indubbiamente, il caratteristico disprezzo di Hitler (e, in buona misura, di Mussolini, che ne  aveva visto la conferma all'epoca delle "sanzioni" per la guerra d'Etiopia) per le "decadenti" democrazie occidentali, ricche, corrotte e indebolite, che non avrebbero mai trovato il coraggio di dare la parola alle armi, anche se fossero state sfidate apertamente.

Sino ad allora, infatti, le cose erano sempre andate così: dal riarmo dell'esercito tedesco, in spregio al diktat di Versailles, alla occupazione della Renania, alla proclamazione del protettorato di Boemia e Moravia (marzo 1939), passando per l'Anschluss austriaco e, appunto, per la conferenza di Monaco. Inoltre, Hitler era convinto che gli interessi delle potenze occidentali non collidessero con i suoi grandiosi piani di espansione, dato che l'Occidente non gli interessava e che non desiderava aprire un contenzioso per la restituzione delle colonie perdute con la prima guerra mondiale. In pratica, l'unico motivo di attrito con la Francia era la questione dell'Alsazia-Lorena; quanto alla Gran Bretagna, Hitler non ne vedeva alcuno degno di rilievo. Nei suoi piani di politica mondiale, l'Impero britannico avrebbe continuato ad esistere, tanto più che gli riconosceva una valida funzione di civiltà e di equilibrio internazionale. Più moderato, in questo, del kaiser Guglielmo II e dell'ammiraglio von Tirpitz, il Führer non desiderava fare della Germania una potenza navale di prim’ordine, né intendeva minacciare la supremazia marittima britannica nel mondo; riconosceva che tale supremazia era necessaria alla Gran Bretagna per conservare e proteggere il suo immenso impero coloniale e i suoi Dominions.

Quello che gli interessava non era affatto il dominio dei mari, bensì il dominio del continente europeo o, quantomeno, della sua parte centrale e orientale. Era per questa ragione che non si era accontentato della cessione dei Sudeti da parte della Cecoslovacchia; e, venendo meno agli impegni solennemente presi, aveva occupato anche Praga, nel marzo del 1939, incoraggiando nel contempo la Slovacchia di monsignor Tiszo a proclamare una effimera indipendenza, sotto la benevola protezione del Reich.

Particolare significativo, e volentieri tralasciato dagli storici di parte: quando la Cecoslovacchia cessò di esistere e venne completamente smembrata, anche il governo polacco si gettò nella muta degli sciacalli che ne strapparono un pezzo per ciascuno; e, mentre l'Ungheria si "riprendeva" una striscia di territorio al confine della Slovacchia, la Polonia occupò finalmente l'agognato distretto minerario di Teschen, oggetto di una annosa e assai dura disputa con il governo della ex Cecoslovacchia. Così gli incoscienti dirigenti polacchi, alla vigilia della catastrofe che avrebbe spazzato nuovamente il loro Stato dalla carta geografica, non trovarono di meglio da fare che approfittare delle spoglie della più recente vittima del Reich nazista, anche se sapevano bene di essere i prossimi della lista.

Dunque, torniamo al nostro interrogativo: se la Polonia non costituiva, né poteva realisticamente costituire, un pericolo per la sicurezza della Germania, come poterono Carl Schmitt e il governo tedesco presentare l'attacco del 1° settembre 1939 come una operazione di carattere difensivo, e sia pure di difesa preventiva? Ma è semplice: la minaccia proveniente da est non era quella polacca, ma quella sovietica. Occupare la Polonia significava creare spazio alle frontiere orientali della Germania, interponendo una distanza di sicurezza fra il cuore del Terzo Reich e la minacciosa Unione Sovietica.

Poco importa, qui, insistere sul fatto che Hitler avesse sempre pensato a una politica di espansione verso la Russia, e che avesse esposto a chiare lettere questo programma già nel Mein kampf; poco importa che la vasta Pianura Sarmatica fosse sempre stata, nella sua mente, il luogo dello "spazio vitale" destinato ad accogliere la  sovrabbondante popolazione tedesca, scacciando la popolazione slava o riducendola al rango di serva della "razza padrona". E poco importa ricordare che proprio il patto russo-tedesco di non aggressione, firmato da Ribbentrop e Molotv nell'agosto 1939, prevedesse la spartizione della stessa Polonia fra le due potenze, nonché dei Paesi Baltici: con la Lituania che, in un primo tempo, sarebbe dovuta entrare nella "sfera" germanica, e solo la Lettonia e l'Estonia in quella sovietica; mentre non era affatto previsto che Stalin si prendesse, oltre che la Lituania, anche la Bessarabia, togliendola alla Romania; né che cercasse di sottrarre alla Finlandia la regione a nord di Leningrado.

Poco importa, perché sia il progetto di creare uno "spazio vitale" tedesco a Est, a spese dell'Unione Sovietica (oltre che della Polonia), sia lo stesso patto Molotov-Ribbentrop, si possono leggere anche - ed è un'interpretazione storica che ha una sua plausibilità; anche se, a nostro giudizio, molto relativa - come una forma, appunto, di politica estera "preventiva", mirante cioè ad anticipare le mire aggressive dei Sovietici (nel primo caso, ossia quello della "marcia a Oriente per il Grossraum) o, almeno, a limitarne la portata (nel secondo, quello del patto di non-aggressione). Esiste una storiografia recente che si muove su questo terreno; Ernst Nolte, in particolare - come è noto - sostiene che non solo la politica estera del nazismo, ma il nazismo stesso furono una "risposta", sostanzialmente difensiva (almeno all'origine) al pericolo incombente da Est: quello di una offensiva sovietica contro la Germania, mirante ad esportare la rivoluzione bolscevica nel resto d'Europa (come già Lenin aveva tentato di fare nel 1920-21, al tempo della marcia su Varsavia dell'Armata Rossa, durante la guerra russo-polacca).

Si dirà che una simile tesi è squisitamente "revisionista" e che, pertanto, non può essere accettata; non, almeno, nei termini in cui la presenta Nolte. Il fatto è che tutta la storiografia, di qualunque epoca e Paese, è - come osservava giustamente Renzo De Felice nel suo saggio  Rosso e  Nero (a cura di Pasquale Chessa) - una continua, doverosa revisione delle acquisizioni precedenti: non allo scopo di dimostrare una tesi precostituita, ma per integrare, correggere, rivedere, se necessario, i dati precedentemente disponibili e le precedenti interpretazioni.

Un'altra obiezione, più consistente dal punto di vista storiografico, alla interpretazione "difensivista" del Grossraum o, addirittura, del nazismo in quanto tale (ma, evidentemente, anche del fascismo) è che era stata proprio la Germania a dare un contributo determinante alla conquista del potere da parte dei bolscevichi. Oggi noi sappiamo, in maniera pressoché certa e definitiva, che, oltre a consentire il transito di Lenin e di alcuni suoi stretti collaboratori sul famoso "vagone piombato" che attraversò la Germania nel marzo 1917, il governo tedesco offrì al rivoluzionario russo anche un generoso finanziamento in marchi-oro. Gli aspetti pratici di tale transazione furono quasi certamente perfezionati a Stoccolma - durante il rientro di Lenin in Russia attraverso la Svezia, Paese allora neutrale - fra Parvus, l'uomo che aveva convinto l'Alto Comando tedesco a finanziare l'intera operazione, e Radek, che, infatti, non proseguì subito per la Finlandia e Pietrogrado con Lenin e gli altri, ma si trattenne nella capitale svedese.

A lungo si è cercato di stendere una cortina di silenzio su questa vicenda; o, dato che qualcosa era inevitabilmente trapelato all'esterno, si è cercato - da parte di una storiografia partigiana e interessata - di minimizzarlo, sviando l'attenzione del pubblico su un falso problema: se, cioè, per il fatto di aver accettato del denaro dalle mani dei militaristi tedeschi, Lenin si potesse, o no, definire, tecnicamente, una spia tedesca o un agente provocatore. Ne è seguita una dotta e sterile diatriba fra gli storici circa il rapporto fra etica e politica; e, nello specifico, se un capo rivoluzionario sia moralmente giustificato nello scendere a patti col "nemico di classe", che è - per giunta - in stato di guerra con la propria nazione; e, inoltre, se questo ne faccia, nel senso specifico del termine, un traditore della propria patria.

Detto per inciso, in genere la storiografia d'impostazione marxista - dominante, in Occidente, fin verso la fine del secolo scorso - è riuscita ad accreditare la tesi secondo la quale "il fine giustifica i mezzi" (vedi il nostro recente intervento su La dottrina della «guerra giusta» e l'eredità di Machiavelli), tesi tradizionalmente cara agli intellettuali marxisti, Gramsci compreso, notoriamente innamorati di Machiavelli; e, come corollario, che Lenin non fu un "traditore" della sua patria, anche se oggettivamente ricevette consistenti aiuti dai nemici di essa al fine di condurla alla sconfitta militare e alla resa, perché la patria di un marxista non è la propria nazione, ma il proletariato internazionale. Strano ma vero, la grande maggioranza degli storici non marxisti hanno preso per buona questa versione; oppure, per timidezza e subalternità ideologica, hanno fatto finta di prenderla per tale.

Dicevamo che si tratta di un falso problema, perché la questione principale che interessa allo storico non è di tipo astrattamente morale (che, semmai, interesserà il filosofo che si occupa dell'etica, o dei rapporti fra etica e politica), bensì se il sostegno materiale offerto dalla Germania di Guglielmo II ai bolscevichi nella presa del potere in Russia, e sia pure per fini di carattere puramente militare (che trovarono il loro punto d'arrivo nell'effimera pace di Brest-Litowsk del marzo 1918, fra gli Imperi Centrali e il governo sovietico) sia stato, oppure no, decisivo nel concorrere al successo finale della Rivoluzione d'Ottobre. Questione che qui non intendiamo affrontare, poiché ci allontanerebbe ulteriormente dal nostro assunto, ma alla quale ci sembra che uno storico dotato di un minimo di onestà intellettuale non può rispondere se non in senso affermativo, indipendentemente dalle motivazioni ultime delle due parti in causa, la tedesca e la bolscevica.

Notiamo però, a margine di queste osservazioni, che il riconoscimento delle cospicue responsabilità tedesche nella conquista del potere da parte di Lenin e, quindi, nella nascita dell'Unione Sovietica, non smentisce di per sé la tesi "difensivista" di Nolte, anche se permette di collocarla in una prospettiva meno schematica, più complessa e articolata. Nella storiografia, i fatti sono quelli che sono, e il compito dello storico è di cercare di comprenderli, non quello di denunciare l'incoerenza dei suoi protagonisti o la contraddittorietà delle loro posizioni ideologiche. Pertanto, anche se, indubbiamente, i capi militari e politici della Germania guglielmina, nel 1917, svolsero un ruolo di primo piano nel creare le condizioni per l'affermazione del bolscevismo in Russia, il problema posto da Nolte è un altro: e cioè se l'Unione Sovietica, dopo la prima guerra mondiale, costituisse di per sé una minaccia, o meno, alla sicurezza e all'indipendenza della Germania. Domanda alla quale, pur con i necessari distinguo e pur tenendo conto, in particolare, del prevalere in URSS della dottrina  staliniana del "comunismo in un solo Paese", di contro a quella trotzkista della "rivoluzione permanente", non si può rispondere – anche questa volta - che in maniera affermativa, data la natura intrinsecamente internazionalista dell'ideologia marxista e data la natura intrinsecamente espansionista della politica estera sovietica, erede diretta di quella zarista.

Né un esame della minaccia potenziale rappresentata dall’Unione Sovietica esaurisce gli argomenti della tesi “difensivista” del nazismo e della sua politica  estera e interna. Hitler e gli altri capi nazisti, infatti, presentarono sempre non il bolscevismo in se stesso, ma la cospirazione ebraica internazionale come il “pericolo numero uno” non solo per il Reich tedesco, ma per l’intero mondo civile.

La loro argomentazione principale discendeva dalla constatazione che, in entrambi i fenomeni più drammatici della crisi del Novecento, il bolscevismo in Russia e la crisi finanziaria provocata dagli speculatori degli Stati Uniti, vi era una cospicua presenza ebraica. Si tratta di due dati di fatto: anche se, ovviamente, non ne discende la reale esistenza di un complotto ebraico internazionale mirante alla conquista del mondo, mediante rivoluzioni pilotate dall’alto, crisi finanziarie progettate a tavolino e via dicendo. Parimenti assurdo sarebbe ipotizzare che una tale congiura, mutatis mutandis, è ancor viva e operante, deducendolo solamente dalla non marginale presenza di consiglieri e uomini di cultura ebraici intorno all’amministrazione Bush, partendo dal “capostipite” Leo Strass e arrivando, come si è visto, a Paul Wolfowitz e a parecchi altri.

Il punto, per lo storico del nazismo, non è di sapere se un complotto ebraico per la conquista del potere mondiale esisteva veramente; ma se, nella Germania dei primi anni Trenta, piegata dalla recessione e dalla disoccupazione (che nel 1932 raggiunse la cifra agghiacciante di sei milioni di persone: colpendo, in pratica, una famiglia su due), e spaventata dalla vicinanza del colosso sovietico e dalla sua volontà e capacità di "esportare" la rivoluzione bolscevica, tale complotto fosse percepito come un pericolo reale.

Oggi, nella società “virtuale” di McLuhan, noi sappiamo bene che, sovente, il percepito non è un fattore meno oggettivo dell’agito; cioè, in altre parole, che la notizia di un fatto, o addirittura l’aspettativa di un fatto, finisce per diventare il fatto medesimo,  anche in assenza di esso o, comunque, indipendentemente da esso. Ma poiché da una tale percezione del problema ebraico scaturì, durante la seconda guerra mondiale, la tragedia della “soluzione finale” di esso, non vogliamo in alcun modo dar l’impressione di prendere alla leggera la questione e non pronunciamo, in questa sede, alcun giudizio circa la consistenza reale del pericolo agitato dalla propaganda nazista in funzione della sua politica antisemita. Certamente, in sede filosofica, la verità è una cosa, la sua percezione soggettiva un’altra; ma in sede storiografica, al contrario, vale più che mai il vecchio adagio di George Berkeley, esse est percipi, “essere è l’essere percepito”.

Né intendiamo sollevare, almeno in questa sede, la spinosa e controversa questione del sostegno, politico e anche finanziario, che settori della comunità ebraica internazionale, dalla stessa Germania (ove gli Ebrei erano mezzo milione, di cui 200.000 nella sola Berlino, e occupavano posizioni eminenti nella finanza, nell’industria, nelle libere professioni) agli Stati Uniti d’America, assicurarono al nazismo, nella sua marcia verso la conquista del potere. Perché, anche se tale sostegno indubbiamente vi fu, ciò non può in alcun modo attenuare le responsabilità dei dirigenti del Terzo Reich nel perpetuare uno dei più nefandi crimini della storia, l’eliminazione sistematica e scientificamente programmata di alcuni milioni di esseri umani.

Ciò osservato, passiamo oltre, perché approfondire questi aspetti del problema non rientra nei fini che ci eravamo proposti e ci allontanerebbe dal nostro assunto iniziale.

 

Torniamo, pertanto, a Leo Strauss, l'allievo di Carl Schmitt, e ai suoi eredi filosofici - Huntinghton, Fukuyama, Bloom, Kristol e Kagan - e politici - Wolfowitz, Cheney, Rumsfeld, Woolsey, Podhoretz e altri: tutti elementi di spicco del centro neo-conservatore che gravita attorno alla  presidenza di George W. Bush junior (membro, a sua volta, della sinistra setta esoterica Skull and Bones (letteralmente: "teschio e ossa", così chiamata dalla profanazione dei resti mortali del capo apache Gernimo), che ha il suo "centro di reclutamento" nell'Università di Yale, tradizionale luogo di formazione dei futuri quadri dirigenti dell'establishment repubblicano.

Ora ci è dato di vedere il filo rosso che lega Leo Strauss a Carl Schmitt e questi al nazismo; dunque; di vedere il filo rosso che lega il nazismo del Terzo Reich al cripto-nazismo del Quarto Reich, l'America del presidente Bush. E che non si tratti di una semplificazione "ad effetto", ma di un legame organico tra le due concezioni, lo dimostrano sia le comuni radici filosofiche, sia gli impressionanti parallelismi che contraddistinguono la prassi dei due sistemi politici. Lungo sarebbe l'elenco di tali analogie, dal crollo spettacolare delle Torri Gemelle di New York nel 2001, che ricorda l'incendio del Reichstag di Berlino nel 1933 (con le conseguenti leggi liberticide), ai rapimenti illegali di sospetti terroristi, anche in Paesi indipendenti e sovrani, per trasferirli nelle carceri inumane di Guantanamo, che ricordano anche troppo (e, se possibile, in peggio) la condizione dei detenuti dei campi di concentramento nazisti, ove l'obiettivo ultimo era la distruzione totale, psicologica e spirituale se non anche fisica, degli avversari politici, o di quanti erano ritenuti anche solo potenzialmente ostili.

Abbiamo già discusso, in una sede apposita, alcuni aspetti rilevanti della filosofia politica di Carl Schmitt (vedi il nostro saggio «Amico» e «nemico» nel pensiero politico di Carl Schmitt, sempre sul sito di Arianna Editrice).

È certo, comunque, che se vi è un pensatore politico la cui opera sia più che mai viva nel mondo contemporaneo, quegli è il proprio Carl Schmitt (1888-1986), le cui dottrine si possono vedere in controluce, senza alcun dubbio, nella praxis inaugurata dall'Amministrazione repubblicana statunitense dopo l'11 settembre del 2001 (ma in effetti, per chi sapeva vedere, anche assai prima di quella data e anche da parte di precedenti Amministrazioni, democratiche oltre che repubblicane, della superpotenza americana).

Giungiamo, così, a una conclusione solo apparentemente paradossale.

La dottrina politica del Terzo Reich (sicurezza e ordine prima di tutto; limitazione delle libertà individuali e collettive a favore di un esecutivo forte; manipolazione dei media e intensa opera di propaganda; politica estera imperialista, aggressiva e unilaterale, mirante a mettere la comunità internazionale davanti al "fatto compiuto", perseguito con estreme spregiudicatezza e determinazione) non è affatto morta sotto le ceneri di Berlino, nell'aprile del 1945. Essa è ancor viva e vegeta e abita presso il Pentagono, presso la Casa Bianca e negli altri centri decisionali, specialmente economico-finanziari, degli Stati Uniti d'America.

I paladini della democrazia unilaterale dovrebbero riflettere approfonditamente su una tale circostanza.

Che, a nostro avviso, non può in alcun modo considerarsi casuale; perché - almeno a questi livelli - il caso non è un categoria storica che si possa prendere sul serio, quando si tenti di spiegare sia i  fatti che le loro origini profonde.