"Questa è la lunga storia di un uomo schietto, coraggioso; la sua memoria è un'arma da guerra. E' tempo di schiudere la quiete, il sepolcro del chiaro bandito, rompendo l'oblio ossidato che ora lo interra». (Pablo Neruda). Ho inseguito Francesco di Bardonecchia per due anni, sui valichi tra Moncenisio e Monginevro, sulle carte della Savoia, nelle valli di Susa e del Brianzonese, in valle Varaita. Ho dialogato con lui sotto la torre e nei boschi di Bardonecchia, finché quella che sembrava poco più di una leggenda mi è apparsa per quello che era: la storia commovente e simbolica di un "Braveheart" italiano, una vicenda vera - romanzata nelle sue lacune - fondata su documenti trovati a Chambéry, Grenoble, Parigi, Susa. La straordinaria avventura di questo ribelle medievale, che sette secoli fa si diede alla macchia per combattere un sopruso, un uomo che come ha scritto Massimo Gramellini - si ridusse a «vagare ramingo nei boschi dopo aver rinunciato a ogni cosa, tranne all'unica che gli importasse davvero: la sua dignità di uomo libero», è commovente e attualissima, degna di un film. E' «glocal», locale e globale allo stesso tempo. Non mi stupisce che abbia infiammato migliaia di lettori, nonostante fosse un romanzo d'esordio, diffusosi lontano dai riflettori e con il passaparola, perché prima di tutto aveva entusiasmato me: parafrasando Umberto Eco, che parlava del Conte di Montecristo, esso contiene tre elementi che farebbero torcere le budella di qualsiasi lettore: l'innocenza tradita, una lunga vendetta, il "tesoro" della natura selvaggia medievale. Non so se sia andato tutto esattamente come l'ho scritto, compreso il grande amore di François per Chrestienne, ma so - parafrasando John Ford - che sarebbe dovuto andare esattamente così. La drammatica fine di François, che seppe pagare il prezzo dei propri ideali, è comunque vera e degna del personaggio. François fu uomo vero, che oggi non sarebbe «alla moda»: aveva il senso dell'onore e della giustizia, parlava la lingua dei trovatori tanto amata da Dante (quella degli occitani, che ancora si parla in molte valli) e come scrisse Simone Weil proprio parlando di occitani, sapeva che si deve servire per libera scelta e non sotto la spada del terrore, quando si riconosce autorevolezza, «auctoritas» in chi sta sopra di noi. Solo così ci si può inchinare senza umiliarsi. Ciò che più ferì il quarantenne signore di Bardonecchia fu il tradimento della fiducia: avrebbe potuto "mettersi d'accordo", trarre vantaggio dalla nuova e indecente intimità con un potente, ma l'amore per la lealtà e l'idea della politica come servizio per i sudditi lo spinsero a ribellarsi. La sua coerenza, come spesso accade, lo ridusse in solitudine. Ma lo spirito di François aleggia ancora su quei luoghi e in noi: parla delle montagne, dei valori più esemplari che esse trasmettono: tenacia, spirito di sacrificio, senso della dignità e amore per la propria «piccola patria», nel rispetto delle diversità. Ci dice che la «via dei lupi» sta sulle montagne - aspra, stretta, faticosa - ma anche dentro di noi: è nascosta, e compare in rari e decisivi momenti, quando capiamo che una scelta, per quanto difficile, va fatta. Quella scelta e solo quella potrà compiere il nostro destino, qualunque esso sia, e ci aiuterà a dare un senso alla vita, a sentirci più liberi. Chi combatte per ciò in cui crede potrà essere sconfitto, ma mai realmente vinto.
Carlo Grande prefazione all'edizione tascabile 2006
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(...) non tutti quelli che pubblicano "romanzi" sono romanzieri. Sicché nessuno acquista i loro prodotti. Capita, tuttavia, ancorché raramente, di inciampare in un vero romanzo, in una <narrazione di fatti universali vissuti da personaggi autentici; dove c'è una storia originale che «avvince e convince» poiché al centro della medesima «esiste e resiste» l'Uomo. «La via dei lupi»: ecco un romanzo. Di stampo classico: col "fatto", cioè, coi "personaggi" a tutto tondo, miracolosamente autentici sì da sfiorar la poesia, scolpiti nel loro presente come sono, «con pudore e vigore», fuori da ogni facile esercizio di prestidigitazione pseudo letteraria. «La via dei lupi» è il primo romanzo di Carlo Grande, direttore di Italia Nostra, giornalista né giovine né vecchio: ha 45 anni. Lo ha stampato Ponte alle Grazie, vende. Incredibile ma vero: il romanzo di Carlo Grande vende: grazie a quel che io chiamo l'effetto perlana, il passaparola. Ma perché chi lo compra e lo legge poi lo segnala agli altri? La risposta è sinanco banale: perché è un vero romanzo, perché Carlo Grande sa narrare la storia senza misericordia d'un ribelle ragionevole carnefice di sé stesso, eroicamente solo per scelta, innamorato della sua donna, innamorato soprattutto della vita tanto da astenersi dal viverla quando, d'un tratto, prende coscienza che il suo tempo è scaduto. François, il protagonista di questo libro raro per molti versi, vive, ama, combatte, muore nella prima metà del 1300 ma il suo esistere è contemporaneo del nostro quotidiano, giacché determinati «valori e dolori» sono immutabili e come tali dentro la Storia, sì, ma fuori dal calendario. «La via dei lupi», un vero romanzo: corposo, coinvolgente, teneramente forte.
Igor Man (articolo uscito su La Stampa nel luglio 2002) |