Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Giovanni Sabbatucci: fascismo dittatura anomala. Fu un totalitarismo imperfetto

Giovanni Sabbatucci: fascismo dittatura anomala. Fu un totalitarismo imperfetto

di Dino Messina - 21/04/2008



«Una delle domande che ancora adesso non ha trovato una risposta concorde fra gli storici è se il fascismo sia da considerarsi uno Stato totalitario. Hannah Arendt diceva di no e sottolineava le differenze con il nazismo e il comunismo staliniano. Altri studiosi, tra i quali Emilio Gentile, hanno sostenuto il contrario. Non solo perché sviluppò una struttura politica adeguata ma perché creò una mistica che si sarebbe sviluppata ulteriormente se mai la Germania e l'Italia avessero vinto la guerra. Io invece più di una volta ho usato la formula di "totalitarismo imperfetto"».
Storico acuto ed equilibrato, curatore della Storia d'Italia per Laterza, autore tra l'altro dei saggi Il trasformismo come sistema e Le riforme elettorali in Italia, Giovanni Sabbatucci tra le tesi opposte sceglie una soluzione intermedia. E così motiva la sua definizione.
«Il fascismo fu un totalitarismo imperfetto perché, anche se ci fu una forte spinta, gli ostacoli alla sua piena attuazione furono molto forti, a cominciare dalla monarchia e dalla chiesa cattolica. Uno Stato in cui a un certo punto il re può chiamare i carabinieri e far arrestare il Duce non si può definire pienamente totalitario. C'è insomma, a mio avviso, una differenza tipologica con la Germania nazista, e con l'altro termine di paragone, l'Unione Sovietica». Il fascismo costituì tuttavia un modello per il nazismo. «Si presentò subito come un precedente da studiare — argomenta Sabbatucci — il modo in cui un partito-movimento che sembrava minoritario divenne partito- Stato. Il fatto che non fosse mai avvenuta una cosa simile rese inermi coloro che avrebbero dovuto opporsi. La lezione appresa anche da Hitler è che si può anche ostentare il putsch, ma uno Stato democratico si conquista prima dall'interno, come fece Mussolini fra il 1922 e il '26 e come avrebbe fatto Hitler dopo la vittoria alle elezioni del 1933».
Una delle questioni cui gli storici non hanno mai veramente risposto è se Mussolini pensasse sin dagli inizi all'instaurazione di un regime totalitario. «Già tra il 1922 e il 1924 — dice Sabbatucci — era evidente che il fascismo era una cosa diversa da un partito normale. Tuttavia Mussolini, un tattico più che un ideologo, agli inizi era possibilista. Se gli avvenimenti fossero andati in maniera diversa si sarebbe accontentato di una stretta autoritaria, cosa che invece non piaceva all'anima totalitaria del movimento fascista. Chissà, se non ci fosse stato il delitto Matteotti, con tutta l'accelerazione che comportò, e che lo costrinse a reagire, forse le cose sarebbero andate in maniera diversa».
La formazione dello Stato totalitario ha alcune tappe obbligate. Innanzitutto l'organizzazione di un apparato propagandistico mirato a orientare le masse e a formare i giovani. E in questo, osserva Sabbatucci, «il fascismo vinse una serie di conflitti, a cominciare da quello con l'Azione cattolica. Il tentativo di inquadrare la gioventù riuscì pienamente e quando si afferma che i Guf, i circoli della Gioventù universitaria fascista, furono in realtà una scuola di antifascismo si dice una bugia colossale.
Il «totalitarismo imperfetto» secondo Sabbatucci si realizzò nel rapporto con il mondo industriale e con quello degli intellettuali. «Il fascismo fu certo un restauratore dell'ordine e raccolse enormi consensi fra i grandi borghesi finché la sua evoluzione non minacciò di limitarne il potere. Certamente, essi si adattarono all'autarchia e all'economia di guerra e cercarono di approfittarne anche se non ne erano entusiasti. Non fu mai lo strumento dei padroni del vapore, come hanno sostenuto i marxisti e studiosi come Ernesto Rossi».
«Non condivido inoltre — dice Sabbatucci — l'analisi di Norberto Bobbio secondo il quale una certa cultura riuscì ad attraversare il fascismo senza esserne toccata. A parte Benedetto Croce e pochi fuoriusciti, già alla fine degli anni Venti il consenso del mondo intellettuale verso il fascismo era pressoché totale. C'erano le grandi figure, vicine ma non omogenee al regime, come Filippo Tommaso Marinetti o Gabriele D'Annunzio. C'erano i rappresentanti della cultura alta che aderirono in maniera motivata al fascismo, da Giovanni Gentile a Gioacchino Volpe e Guglielmo Marconi. C'erano intellettuali come Ugo Ojetti, che in quanto promotore di un primato italiano poteva essere assimilato al regime. Il consenso era grande fra i giovani scrittori, da Corrado Alvaro a Vitaliano Brancati. E lo era anche nel mondo delle arti e dell'architettura, dove il fascismo lasciava coesistere razionalismo e classicismo, avanguardia e tradizione ».
A differenza del nazismo o del comunismo sovietico, «il fascismo lasciò una certa libertà agli intellettuali, come dimostrò l'esperienza di Giuseppe Bottai. Ma ciò non significa che non fosse totalitario. Seppure imperfetto».